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"L' uomo libero, cioè che vive
secondo il solo dettame della
ragione, non è dominato
dalla Paura della morte [ ... ]".
Spinoza
Che la principale tra le paure di
cui soffrono gli uomini sia proprio la paura della morte non è
difficile da mostrare; né, a superarla, vale l'obiezione epicurea
per la quale quando ci sono io
non c'è la morte e quando è giunta la morte ormai sono io a non esserci
più; in realtà la nostra morte la vediamo negli altri, in chi era tra
noi e adesso non c'è più, lasciandoci solo il silenzio assordante della
sua mancanza.
Ma
del morire ciascuno fa anche un altro tipo di
esperienza; quando ci colpisce una malattia incurabile, quando finisce
un amore, nel fallimento di un obiettivo: le occasioni per sperimentare
una morte diversa da quella biologica, ma non meno schiacciante e
temibile, sono innumerevoli e ad esse la vita ci espone in ogni
momento.
In tutti
questi casi cos'è che vien meno?
Cosa provano gli uomini quando patiscono il senso del morire?
In
genere e per lo più, è il sentimento della propria finitezza che viene
alla luce, ma in una forma del tutto particolare che è il venire meno
della propria presenza.
Cosa sia "presenza" lo spiega
perfettamente De Martino: "la presenza è movimento che trascende la
situazione nel valore, è volontà di storia desiderosa di ritornare
sempre a decidere il divenire".
Sentirsi inchiodati alla
situazione presente, al vissuto contingente senza aver la forza, o
l'aspettativa, per poterlo trascendere in un orizzonte di senso, in un
diverso presente a venire; avvertirsi estromessi dal corso della vita,
è questa la modalità che ci rende vittime di un morire.
Spesso,
non solo
da fanciulli, ritorna questa verità in un sogno ricorrente: esposti ad
un pericolo e preda della paura vorremmo scappare, correre, eppure le
gambe non si muovono, pesanti ci lasciano li, a patire il nostro morire.
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