Sineité
Con
quell’antica idea nuova il tempo incluso nella meteora sfiorò la terra.
La china posa di una meditazione profonda librò il viso in aura di
contemplazione. Il mio viso. Quanta memoria futura in quel tornare
lento alle cose. Allo spazio contratto dal correre dietro al tram per
arrivare o per tornare in una sorta di mezzodisastro, mi trovai quel
giorno un addio per sempre. Distante alla discriminante dell’illibato
ausilio e del più corrotto contrario, avvicinai ogni possibile pensiero
al retrosenso ; l’allegra corsa del mezzo, a guisa di una
rachidea, disarmante dolcezza, fermò e trasse con se l’incanto di
un’alba dorata. Ancora, su tale suolo nel più semplice ritorto
eccedere, accade che un raggio-sorriso trattenga le mani della fine. La
mia fine. Qualcosa d’incerto, amabilmente incerto mi prese, riprese,
comprese con se. E svolò all’improvviso. Continuai a camminare. Una
ruota, il moto dell’anima, accelerazioni nel vuoto. Assurdo e
assurdamente assoluto quel vuoto ritorno , dolce adagio di un rapido
disagio. La casa come una montagna incantò ancora i miei occhi;
disparve ogni altro monte luccicante a rettangoli. E triangoli di
attonite parole accolsero le membra dissipate da ritmi di frastornate
occasioni ad agavi di silenzio in rivoli di labbra antiche. Non
sapevano quei segni del mio sogno così nuovo; una mano nel fazzoletto,
l’altra tra i capelli, le dita annodate a riccioli, biancoperla ed
unghie turchine come coriandoli adagiati finalmente, nella calma di
vento. Ritrovarmi morto. Adagiarmi con lei. Un corpo e un corpo: il
dono della vita nel calore che ora ridono e ripetermi il soave pregare
che insegnò. Ora. Contro un soffitto di mondo. Qui tra lembi celesti e
spire di gemiti innaccolti. Riposando. Respirando il cuore fermo.
Sapevano i sogni del divenire? Ora e qui, qui ed ora.
Dove mima la morte ed imito la morte.
Amò
così tanto, ora lo sento. Visse così a lungo i pochi momenti belli, ed
ora lo sento. Addolcì le pene di occhi mai stupefatti in orazioni
e sottrazioni di pensiero, quasi fosse pensare impazzire. E l’impazzire
della vita un inutile pensiero. Le mani dall’abbraccio delle dita
unite, il sospiro vibrante di un immobile giacere, sipari d’impossibile
luce tra pieghe di cristallo e pelle. Il mio bacio muto e l’aria
tremula come la riva di un lago grande come l’occhio bagnato da tanto
lacrimare. Soffi come nebbia che stupisce e si leva fumando lo
già stordire dei sensi, sopendo il mirare d’ogni altro pensare, lenta
come tenebra, acuta come l’oblio che accompagnò questo accanto
corpo, un tempo mia culla. Ed ora. Nacqui, e mi ritrovai nato in
quell’accanto corpo. Il mio primo parlare era tutt’uno con i suoi
sogni. La terra capovolta per i miei primi passi. E
cominciai a cadere quando imparai a camminare. E mille volte
ricaddi in ogni parlare. Quasi fosse la vita senza fine, e la morte di
ogni altra persona. Rimasi a chinare il lato avverso, rotolando
all’opposto. L’auspicio che di un buon consiglio annoia, non avvenne.
Il peso progressivo del mio vivere nutrito, e del perdurare addebitato
non conservò comunque orma alcuna. E l’allungarsi dell’ombra non
conciliò il ritorno maturo alla natura dell’origine. Tempo addietro
all’immaginario improduttivo e tempo addietro rinvenuto tutt’uno con
tal attimo. Disperato. Artificio la disperazione che assale il cielo
come un lume di candela e divampa nel fiore di u secondo; disperato il
singulto che segue all’urlo, urlo inaudito che affiora alle labbra e
spegne prima di essere udito. Sapore di mercurio, lo specchio di un
pianto che non può addolcire, di un ritorno che non puoi avere. Mai più
in questa vita. Eterno Ritorno. Mai più, ti disse, baciando la prima
volta la fronte, intenerendo il grido di fame con carezze alle tempie,
alla nuca. All’improvviso lo spettrò sollevò da me. E pensai di vedere
il suo corpo, ed accanto il mio, come sagome bianche sopra una sfera di
terra. Il luccicare di stelle nel buio di caleidoscopio, ed in fondo, a
frammenti, il decantare del nostro giacere ricomponeva nuove forme.
Pensai di sussurare al prisma di togliersi di mezzo; e rivelare
finalmente il nostro destino. Quando il pensiero sollevò il velo,
smarii la maschera. Apparve un viso. O almeno pensai ad un viso Gli
occhi, ancora ricordavo l’esistenza degli occhi suggerirono che quella
cosa doveva essere un viso. Immaginai le labbra. E la pelle celeste,
guance che ricordavano ali d’angelo; tutto questo come la ninfea in
acqua cristallina. Ed ancora all’improvviso, come un vorace buio,
le labbra s’aprirono; dileguò il viso degli occhi, pensai di ritrovarmi
al buio come ‘prima’ al chiudersi delle palpebre. Gocce cellulari
percorrere la galassia del mio invisibile, ed unirsi in rosario, e
d’incanto svanire nel vapore di un fantasma di luce. Ora, nel calore
come nel sole, pensai di contemplare tutto questo. Corpi adagiati,
piegati e fusi in alterno movimento. Urla inseguite da ombre di
silenzio. Gemiti corpi in crisalide, circondati da un bozzolo di buio.
Nacqui fiammifero per una notte così grande. Presto, improvviso e
tardo. E nel rimestio del ricomporsi al riposo, tinto dal piacere
infranto dal mio dividermi, cominciai a sentire. Sentire il moto del
mio nascere libero. Ricordai il segno dell’anima e di un’altra vita. Le
sterminate inseguite a correre accanto, al ritrovarmi come spazio
concentrico mai cerchio.
E le lacrime, come gocce
di mercurio, come lacrime di bambino per tutta la vita ad unirsi in un
mare di argento vivo. Vita a corsa. Vita da disfare, come dimenticare
quel che esala da me sin dall’inizio. Un pianto, un mughetto e
borotalco tra mille sfoglie di pelle. Un nasino a puntini, gli occhi
che come giorni volano via, e c’è la virgola dei piedini, e ci sono i
giorni di un canto che fa l’abbandono e la misura del mondo, la nennia
del dolce sonno. Sotto il velo, il mio cielo, la panna di luce del
giorno fa il viso di un viso il viso. Stravederti, mamma, ad aiutare un
muto, che nasce silente verbo e grida. Urla. Fame e clado. E sotto le
dita scorrono brividi e lacrime. Tu, ed io, e c’è la vita; e tu, ed io
non sappiamo che sia. Pur nostra, è rivolta a noi la vita; nel silenzio
i tratti di un ossessione ed il battere del cuore. Siamo distratti l’un
dall’altro, e papà che vuole. Amore di bimbo, amore di mamma, sembra
niente. Ma per noi era tutto. Il massimo di un fragile sottile filo tra
le camere. Una fune al maglio di un porto per una sagola da niente che
coabitava la mente di un camallo. Piccola via, siamo lacrime! e piange
per noi, e sotto il cielo il cielo. Amore mio, aurora d’oltremare, aria
che aiuta, levita e pane caldo che la boccetta a piccole labbra rosa,
seppero baciare e scomparire. Mentre occhi erano dolci e un pochino di
tristezza, perchè poi non volli non mangiare, ma volli rifiutare.
Ancora il cielo sotto il cielo, ‘e suvvia siamo uomini’, conta la
conta, un esercito di uomini. I morti non contano morti. Piccolo mio,
farti come un angelo che raccoglie elemosina, farti carne che rifiuta
il sangue. Un pò di fumo solleverà la tua cenere, e la solerzia di un
fischiettante arrivo spegnerà nella polvere nuova polvere. Piano, piano
la velocità del mio crescere velava ogni certo dubbio, e crescevo come
una matita accorcia dopo tanto scrivere. Il dispetto di esserci, come
una scatolina a lembi stretti. Chiusa pronta ad aprirsi. Piccole mani
come lunghe labbra dal più puro sorriso. Nasce un addormentarsi, e c’è
il perdersi. Anima mia, ora ti cambio il pannolino. Che vestitino ti
metto, ed un ruggito, come tigre, come agghiacciante simmetria, emisi,
e mise il vestitino. Scivolando giù dalla nube, la pellicina sul
ghiaccio di un sorriso di papà, inebriante è il volare e niente più.
Prudente il papà, un orsetto di papà, gli occhi, i suoi occhi. Ed ora,
ancora la mamma, mi metto a letto con la mamma; un attimo e chinai
sotto il cielo il mio viso. Sono senza, all’incanto dormire...ora metto
il vestitino, ora...quell’incendio, coro d’abeti, e lo svolo di
rondinelle, mentre passa, e chi passa se non papà: arriva, scoprendomi,
e la mamma senza occhi per per cercare coll’udito il suo arrivo.
Ora
mi sveglio e ti cerco. Mi spingo a te per sapere che ci sei. Ora sei
perchè tocco i tuoi pensieri. I tuoi pensieri... e passeranno
tanti anni, quasi fosse per sempre, perchè capissi, e comprendessi il
tuo volare. Amore mio, aiuta il pellegrino da tante fuggite! Aiuta il
pellegrino che non sa che via...aiuta il ritorno a ritornare per
sempre, ed il centro del cuore ad eccedere...un segno dona e donagli.
All’amore mio un gesto che sia un trionfo di petali viola, un
arcobaleno, una scintilla di mille colori. Libra sopra il corpo,
che qualcosa di lui ora porto; libera la mia innocenza su di lui come
una carezza di mare ed il vento delle pinete. Spire di piume e talco
vellutato colorano la sua anima dal tuo respiro...amore mio, fammi
sognare ed inchiodare all’amore di loro che s’amarono per farmi
nascere.All’improvviso, ascoltai la voce come fosse una voce, udii
finalmente quel che fame mi faceva urlare. Un richiamo vicino nel
lontano pertugio del buio. Nacqui come fossi già uomo, ed ero bimbo
incantato ed incatenato alle orde di passaggi senza ritorno. Aiutami,
come la chiusa dell’acqua aiuta l’acqua. Giorni senza giorni, e la
chiosa della vita e nell’emergere nasce dal fondo e nel buio
ricompare senza luce, svanendo dopo un giorno di luce.Cara vita, che
non sai perdermi senza togliermi da te. Piccola avventura che di buono
puoi avere tutto, ed offendi il tuo nulla. Piccola e soave inimicizia
col destino e l’avverso passato ora sai, nell’accogliermi, sfrondare al
sogno mesto. Arte di vivere illumina il riemergere, d’ombra muta il
fumo solerte del capire all’ento cadere delle corolle. Aggredirmi si
confà a te, consumarmi come luna in me, e rammendare la pelle
sbucciata a te, ed aiutare il viandante scivolando sul viso come
notte sempre a te....
Cara vita...... in attimo presagio
divenne prodigo; e perle di pelle in colline di giochi e del mistero,
che, arrotolando pergamene di tempo, ne dai ancora l’incanto, mescesti
il liquor all’umore: l’improvviso avvenne, come se nulla fosse. Nulla,
disse la mano alla carezza ed al brivido. Nulla, piccolo bimbo, in una
trave pesata sul mistero dei nostri corpi, nella casa dagli occhi
d’aquila e l’ali di fuoco; il vento balenò nelle lame di cristallo., e
la mamma, grande come il mondo, dal manto dei fiori alla cenere dei
fiori. Nulla disse la mano al piccolo bimbo. Ed un bimbo incontrava
d’allora la nebbia calda: dall’abbraccio il cuore piombò,
scavando ogni palpito nella nebbia. ‘Papà!’ Nube, sotterfugio di viso a
lacrime ed ardore di scavare, trovare un corpo, ed altro
ancora...piccola e cara vita, un corpo ancora vivo...e continuava il
vento straziando respiro e celle impazzite. ‘Papà, dov’è mamma?’
Tornava dalle abetaie del mare con i nidi delle stelle. Tornava in quel
tutto finito. Ripeteva il tonfo nell’immane inspiro, ed il grido, sino
all’esausto gemito della mamma, un rumore compresso tra cuore ed udito.
Ancora, d’anelito capisco il viso, il naso, la carica bocca, labbro,
ciglia, zigomi d’argento, rughe. ‘Ossido’, qui non si respira che
ammonio. Ossido in un rovo di carbonio e idrogeno, atomi oligarchici di
un tempo. Azzimo il colore del cielo che non solleva lo spettro della
nostra filigrana. Papà se n’è andato. Trovai la foglia del suo
corpo annidata nella piega della nube nera. Posi la frenesia
dell’ultimo dolore accanto a lui.Più tardi sperai la morte. La cercai
prima come amante, poi la pregai come sorella. All’improvviso, in
corteo di noebi assolate, ascoltai...ed accolsi l’abbraccio vertiginoso.
Rullio,
barcollo, pressione da ogni parte, affondo e respiro impossibile. Luce.
Carica implovisa, ritmo al palpito, flusso e voragine. Turbine. Mattoni
e connessioni, cono rapido, tondo pensiero. Cerchio. Mai. Rima. Gioco.
Numero.Una parete stretta, striata, corrugata e dal becco della
fuga...eccomi! Frammento friabile tra mani di vetro. Gocce, e poi la
gola di un vaso d’acqua; la polvere della convessità e l’affronto della
gravità. Mi stizzo alla nuova curva che devo affrontare.
Finalmente avvallo nel grembo, affondo il grugno tra le mammelle.
Qualcosa di piacevole m’accoglie: un sorriso traverso ad onde di
dolore, l’odore pieno d’aromi inebrianti unge il mio corpo.
Corpo. Di nuovo.Copro la sollecitudine con un vago richiamo. Ho fame.
Schiuso all’ordine più vicino alla perfezione antica, di nuovo ho fame.
Imprigiono le dita al palmo, chino la genuflessione all’ordine estremo,
chiudo l’occhio ed apro le labbra. Succhio vibrato e tremula il seno.
Agguancia incoronata e tra loro gli occhi cominciano a parlare....... E
ricominceremo da capo, mamma.
Ad
amarci. Imparerai ad amarmi questo piccolo fastidio, in un canto di
Gospel; piccolo luogo e cassapanca di grida notturne.Ramo bianco tra
conserte labbra. Ho da dirti, mamma, che ci sono.
Ho un cuore nuovo ed un’anima stanca.
Stanco
il tuo cuore, come si deve, ed il vapore del mio respiro, le lacrime
dei tuoi occhi s’incontrano di tanto in tanto. Un luccichio ed il
tremito del nostro amore. Che corre a noi è un mare d’amore.
Ed
inonda il chinare del nostro viso, l’un e l’altro a fianco, incollati
come due vetri alla patina dell’alito alitarmi per scaldare... e
baciarmi. Ricominceremo, ed ora stiamo iniziando.
Quel che le
stelle liberarono e poi le mani raccontarono con le dita. A fianco
sentire l’anulare e il medio, ed il mignolo incontrare l’indice e
fuggire come da un bacio improvviso. E m’apristi librerie di parole.
In
arte millesimo di tenerezza s’apesti ed apristi il tuo petto come ali
impazzite.Capelli e soffi, carezze ed occhi, innestarmi come ciliegio
ed amaro sortilegio. Sussurro e fuoco e mitezza che quel giorno
attraversammo come la cera della candela alla fiamma. Sciolti peregrini
a procedere percorsi canti e rumori e melodie dell’anima. Ora che
all’adire abbiamo preso ogni indugio ed alla perversione della dolcezza
il magico espiro.Dimmi e toccami colle tue parole. Parlami con i tuoi
silenzi e le tue parole straziate e le vecchie stropicciate delle
maglie che posi sopra il tuo corpo.
Quanta materia circonda il mio midollo...
Profondo
come il buio. E basta appena un pò d’abbaglio attorno allo spiraglio, e
l’abisso confeziona in noi l’angoscia dell’infinito mistero.
Midollo ed anima.
Archivio e xenofobia per la vita.Esistere al
contrario d’ogni cosa.Ed ogni cosa scoprire ed esistere
nell’intermittenza fastidiosa.Ora è, ora è morta. Vivere come
accelerazioni e singulti dell’essere, spegnersi lentamente.Impazzire
nello stordimento di sibili ed atriti tra cose indecise. Risanire come
l’arcobaleno prima del tramonto.Tutt’uno coll’immortale silenzio del
nulla. Tutt’uno colla grazia inaspettata di un sorriso divino.
Arricchirsi dell’Armonia nel distacco. Cogliendo in meno della vita, e
tutt’uno colla vita, l’anima senza posizione ed impulso. Dispersione e
simmetria. L’improvviso svelarsi.
Arimo! Gridai ai bimbi che
vollero toccare la luce che spegne. Ed urlai alle gambe ed ai pugni che
salutari, allora sembravano, coprivano il mio corpo di risa. E pio
venne il Riso non colse mai. E poi venne la mia giacca, il mio
sorriso spavaldo. E la mia goccia. Incravattato ed imbellito per
l’occasione, tanto grande allora, un soprabito e la pioggia di me
s’impolverò e rientrai dall’illusione alla vita di Tutto il Giorno: e
le guance adagiate, lasciate ad archiviare sorrisi in rughe amare. I
bimbi tornarono a strillare di giorno, e la notte ad amare il loro
urlo. I bimbi tornavano con tutta la dolcezza possibile.
Avevo
capito sin dall’inizio, ed ira ed ora avevan seppellito il mio
capire. Or, come un deciso accorto riempivo l’aria e l’anima di
solvenze incompiute. Tradivo l’atmosfera di ammoniache reminescenze. E
la nebbia, la nebbia del mio pianeta, scendeva ad attutire rombi
disperati ed armonie sfuggite. Ed al tropico del mio ombelico la
rinuncia fu tale, il grido fu tale...che lasciarmi inoperoso
sull’altalena parve agli dei un ingiusto, obliquo pensare.
Ora sento i tuoi pensieri.
Un’afflizione che stringe il collo.
Un attimo inspiegato tra creature di spiegazione.
Ora
sento il tuo problema come fosse mio. E la buccia della tua pelle sta
nel piatto della mela.Attrezzato come dovessi discenderti nel cuore, mi
inabisso nello smistamento del tuo pensare. Accorato discendo cascando,
rimbalzando.
Ora sento il ritorno ad ascese continue.
Ed
affermo l’interezza dei tuoi discorsi. Mi hai fatto ed hai parlato.
Come un cielo sommerso da nubi, il cielo assolato mi hai donato.
Ora rimango qui.
Un giorno sprizzai. E nacque luce.
Ero
al mare. Un incanto di giorno. Calda luce sul mio corpo. Appena fatto
il bagno, lo sdraio ed il sole. L’adagiarsi ancor bagnato al
sole, mentre a crisantemi ornava la tomba rimasta inoperosa.
Certi
incontri di occhi si fanno per aprire nuove circostanze ai sogni di
sempre. E venne sbriciolando le sue lentiggini sulla ferita del mio
innamoramento. Vedevo nelle sue mani qualcosa che mi avrebbe toccato.
Ancor meglio di prima. La presi tra una buccia d’arancia e il
marcepiede. Non avevo capito.
Riprendo da
capo.Esperimentai la bellezza di una donna, da capo a piedi,
improvvisamente. Sempre nello stesso corpo. Pochi mesi dopo, un velo.
La luce, ancora una volta, fu così disinvolta.
E’
luce tutto ciò che provi. E provare non basta. Ad un tratto accorto il
momento cade, e segue angoscia. Privato stordire nel rimare quel che
sei. Ad un tratto t’accorgi che non c’è più, e resta al buio il tuo
sguardo. Soffitti e vibrati sospiri. Un seno, e manca l’altro.
Dimenticato dalla mano. Dimenticate labbra. Palpebranti occhi che
cercano i punti e le sollecitazioni profonde. Rassicura il caldo e
tormenta il sibilo oneroso del futuro. Senza. Ravvede il sussurro, il
gemito dolce, il termine disperato del piacere. Ancora una volta nasce
un uomo.
E tra le labbra marmorine sfugge il fremito di una
nuova accoglienza. E solo sta l’abbraccio di costellate morti, ed
ancora solo il chinare lento del guanciale al corpo che accompagna per
sempre lo scivolio. Vissi , tremando dissi.
Senza conoscere
accanto che stava succedendo. E stava succedendo qualcosa di grande.
Un’altra vita. Prima della mia. Dopo tutto. Ancora . E fronde di
gustose foglie nella sua eterna primavera. Occhi. Manine e gomitoli di
baci.
L’incanto fu pronto. E lento, sfidante il gelo di un
corteo faldava e sorrideva il canale, accompagnandomi al tramite
ultimo. Prima d’allora, il vento ha cr esciuto i capelli
sul mio
viso, e la spiaggia della mia fronte inalberato velieri di sabbia.
Prima, come fosse un pianto in equilibrio colla gioia, ho
barcollato sul filo, ho soccorso il mio vestire al corpo ed
infreddolito. E cialde si sorrisi, mille abbracci felici.
L’allegria imprigionata, finalmente un canto urlato, prima cullato come
un bimbo, poi celato all’ombra di luna, e finalmente liberato al
silenzio dei sogni. Ora.Qui. Dal mio cuore che scioglie, e nutre la
terra, al senso ultimo di tutte le cose. Un canto pellegrino che
imprigionò ogni verbo al gerundio dell’istante. Custode tra due tombe,
libranti ali nell’invisibile motore del tempo. Un canto
prigioniero che pellegrinò tra sentinelle e distratti, tra sataniche
volpi e allupati agnelli. E trascorre il sonno e piove che solo la
domanda di un senso. Sbatte la luce al viso. Portato e gridato senza
fine. Come un soffio diventato vento. E venni a me, come tardi giunge
la memoria dei sospiri. Come l’infanzia nei ricordi, un piacere
trovarsi spericolando tra improvviso e finalmente. Attese ed
addii. Camminando, disfando il ritmo in accelerati mutamenti.
Crescendo non rinacqui più.
Il ciclo apparve l’incanto delle continuità.
Correre
tra fodere di tempo come la spada slamata dal grano; e biondo celare il
cuore nell’impulso di correre, accorrere sperduto e sparendo il senso a
spighe di vento. Ora siamo al ditirambo del corifeo.
Quarto
provvedere. Stacco e riattacco il pulviscolo argentino alle fessure.
Dismetto devozioni e l’astinenza al perdono per un peccato
inatteso. Ogni più latttescente crescere assorbe virtù; e la
conocenza dissolve. Calarmi nelle tue librerie di parole:
assolvere ogni dubbio coll’immane pentimento di aver voluto
sapere.Quarto sapere. Fuoco e ascensione. Morte dopo la passione.
Resurrezione.Racconto a falangi. Quadrati e calvari.A cena per la mia
morte. Ancora un racconto futuro. E nella china volta del mio golgota
una croce all’ingiù. E dopo il pianto di amaro sangue, allontanarmi con
il calice, al taglio della spada tagliata dall’inferto colpo al
destino. Noi non possiamo. Volere. Ardire dello stare soltanto stare. E
l’ardire configurazione senza amare.
E soffia la
carezza senza carezza.E soffia la bimba il cenere ricciolo. Ora.
Qui? Annausea il vedere che.il sentire come qualcuno che sta freddo al
freddo. La fame stanca di fame. Il bisogno, che tormenta di amore,
nella tormenta. Non vedo, non ascolto, non vorrei pensare... Non parlo.
Muto l’orgasmo e cresco. Rimprovero il gioco. Ascendo e salgo per
discendere. Salgo, arrotondo la china, e scivolo. Cascando,
rimbalzando. Ora. Qui. Vaso attorniato di fiori. Vaso spengo. Luce
diffamo. E stordendo, accresco.
Piccolo straniero
in triste vago ameno corpo. Ora scendi ai tuoi piedi, e preghi. Ora mi
converti il sonno, del riposo ad ardimento e pianto. Chiedo scusa a Te,
mio Signore.
Chiedo scusa a Te, che ho osato credere raggiungibile...
Eppure
guardare gli occhi di una madre è come fare la Comunione. Ora riprendo
a viaggiare...e curva il viso del bimbo che dorme alle conserte braccia
della mamma.Chiedo a Te scusa, Popolo Eletto.Hai viaggiato stringendo
il corpo, aspettando manna, assembiando improvvisate e profezie,
confondendo asperità con rapide dolcezze. Voltarti indietro ti fu caro,
volger sguardo a stelle, a congiunzioni di pianeti impossibile.
Impossibile l’attesa Del -già-Venuto. Notte, ancora notte. Millenni
d’elezione argomentata in struggenti sterzate, quasi a scivolar via, e
viaggiare... Ancora viaggiare. C’è un sonno, il tuo, chiamalo, e veglia
la vigilia, l’unica osata in osanna di consacrate peripezie al sibilo,
al fischio atteso che spande al di là dell’uomo-porta. Sonno di membra
coperte. Ed alle stive di topi sotituisci il delirio. Che di ogni
profondità la parola è nata, che la mia somma arroganza investe colori
ed arcobaleni per altro mondo. Per altro sentire.
Quinto.
Cinque atomi. La via chimica dell’anima. Essere. Esistere. Stare a
tempo. Ritmo scaturigeno di verità inconsistente. Ente. Deprivarmi dei
ritorni inauditi qui tra gli attesi. Cinque le forme a scompormi, ed
agitarmi in saturazioni allegerite. Ogni impossibilità allungarsi
all’ombra del cammino tra lampioni di soli, negli scheletrati
sagittari. Trovarmi tra stagioni d’irraccolte speranze, ed ardere
d’amore come stellato cielo senza coscienza. Trovami ungherese col
rosso fiato di un cosacco, assiso al quadrato, un scacco pazzo alla
regina. E pazzo il limpido di fluidità aromatica sopra i pezzi e
scomposti depositi del mio corpo. Reami d’agitati liutai, e
vibranti cuori, colonne di fuoco ed esangui cristalli di luce colano,
trasudano da petti in scoppio ed onde d’urto di mare. Amare, le saline
argentine scolorano le squame e laniere dalle mani filano il pianto
delle arcnidi. Mannisco l’irta filanda in pastosi respiri di profumo.
Canto. Lieve e gracile, appena l’udito s’accorga del limo che posa. E
dal filare di punti l’alveare sprema il miele, e dagli esagoni l’ape
riposi alle carezze ed i baci delle mie labbra.
Al
tuo dolore il male dolce ha spento ogni ritorno. E piccolo come una
grave moneta il dramma sale al Cielo, ed agli occhi che aspettano le
attese virate ad altre onde, e spumeggianti sommergono. Sommergono e
spengono prima ancora fiore il nostro fiore. Aprimi al paradiso
le porte, attingi dal bussare e dal bussare senza pazienza la frenesia
di questo starci nel senno e nell’amore.Quanto l’innaturale stare ti
rende amena e parca musa. Quanto l’acqua grondante dagli occhi fanno i
vederti improvvisi. Spenta, quasi non avessi più seno, ancora abbracci
e scivoli al destino madido, sopreso come l’amante in amore; a
straziarmi la miniera delle idee un vulcano di lava e pensieri
impietriti dal freddo lontano dal sole. Superarti pagina offerta alle
divinità immaginate...Superarmi dal tempo imprevisto. Come un lampo di
sirena azzurra, investire il bisogno d’aiuto e sfigurare con la barba
bianca e la slitta dagli antichi cervi. Sprigiona me, e spezza la
solitudine con armonia a nozze. Saetta con amaro tempio in colonne
attese, ed alle atmosfere irretite frangi e spezza il pane Dilaga come
torrente in fiume, e fiume a mare in oceani d’amore. Sconfinato
‘stronauta canta...che siamo noi gli uomini viaggianti, commisurati,
compatiti e condivisi. Il perchè stiamo e divisi e insieme scarsamente
argomenta il semiologo, e l’apparire di un treno al livello di un
passaggio sul mare testimonia la nostra estrema indecisione. Nella
Eucarestia.
Torbido il mio fango. Attornio
l’infangare del dissennato essistere con figure straziate.
Assistenze e supporto per pergolati derisi, perchè straniti. Noi
che l’attimo abbiamo attimo attinto e decolorando la dolce chimera del
nostro divenire a tutt’uno, abbiamo perchè voluto avere. Ed a
quell’affetto che toccati ne sentiamo l’orma sin ad ora, improntiamo il
bacio e la sagoma del nostro abbraccio.
Un gioco.
La lenta memoria magnetica attrae forma e ridiventa paura. Un gioco il
timore della regola astrusa e l’immagine sottile che non passa la
cruna, eppure la pupilla avvolge. Come fuoco. Come nebbia. E
scavalcando impetuosi rami, la tenera fronda rammenda stelle d’azzurro
cielo ai bagliori di ostinate luminescenze. Come da lontano,
trastullando lo sguardo dalla noia, un campanile circonda l’archivio
dei ricordi in melodiche libagioni di luce, così approssima la tenace
integrazione della dissoluta disperata speranza. Un gioco. Maledetto
tra chiedermi ed aiutarmi. Mentre vortice assimila la stabilità’ di
paese deformato da chine e colline, un alto centro frammenta i confini
a bordi e tagli. Come infiuma la gente nella benedizione e sconsacra il
bacino l’accoglienza inoperosa del lasciar fare. Ed è gente le labbra
che parlano. Ascolto accolto dentro se come una fitta.
E
dolente assaporare il greto dal ruvido scoglio trafitto dalle onde. Che
dire di un caldo sole, e l’acqua bagnata dal pianto di occhi stesi al
sole? Tragittami come un marinaio all’insano ricovero.
Faccio
la fatica di una vela solitaria. Dimmi, mio Signore, che l’arte che
rimane da inventare nelle tue parole c’è...Dimmi una sola
vocale...spietato sei stato, come il ritorno di un prodigo figlio mi
hai accolto lungo la via. E prima di ancora vedermi, le quattro
sostanze confusero la quinta della vita. Acciocchè la lama
ferisca il mio sudario, e le vesti in grembo ad una madre accolgano un
nuovo cuore, un nuovo pianto.° Ed è nuovo il pianto della verità.
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