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Latte Nero










Francesco Sine Pelizzoni
2002

(decomposizione dopo l’utopia - o dopo l’ utopsia...)

La morte, stabilita per convenzione all’ora dell’alba,  rifluendo sta gli umori all’interno delle trame organiche. I tessuti allentano le ultime contrazioni, spasimi di vita sempre più flebili per estreme frontiere, apparentemente ancor ignare dell’evento fatale. Lungo la pelle una pellicola oscillante tra vapore e liquido dona  uno diafana apparenza al corpo.

Oggetto di mille strali, ed ora anima morta, puntato all’aculeo della gravità, il corpo è pronto all’indagine necroscopica.

E così ricongiunge l’esperienza profana al sacro tempio.

Il taglio deciso percorre la linea di congiunzione dei foglietti embrionali; invero separa la superifcie degli strati sino ad esporre dallo sterno al pube gli organi interni dell’addome e, dopo l’asportazione del piatto sternale e delle sinfisi costali, il blocco cardio-polmonare avvolto per continuità dalle sierose.

 

 

‘Guai a chi ama e non può collocarsi più in alto della propria decomposizione’. Posando l’ingiallito libro, guardando verso l’alto. Più in alto. Giorni di sepolcri squarciati dal desiderio dell’eternità. Stando furore quel che seguendo la spada lungo il solco tracciato. Il volo pinto dall’oscuro randagio.

‘Non sono che un giacimento  di latte nero’  dicendo. In quel giorno il tempo costituendo una variazione di luce solo  apparentemente mobile. Il verde fenomeno dislocando le foglie tra i rami del cielo. L’opera singolare del mattino distillando essenze tra capelli sparsi e chiome tinte di rosso. Ordinate processioni lentamente percorrendo il limite tra ali ed aria. Alcun volo nel susseguirsi destino a giorno, parola a soffio. Ma qull’andare a ritroso,  all’origine della memoria, dove non sussiste che il ricordo del nulla, ovvero il nulla del ricordo, apparendo ora doloroso cammino nel buio, ora nella nebbia. La musica delle sfere conferendo al suo guscio escrementizio il riflesso simbolico dell’opera. Martello al posto del battito del cuore. Cerca di forme altrimenti erba , pesce, uccello, bestia. Pari elementi della trasformazione, avversi elementi all’immortalità. ‘Quale tigre ircana sugge il latte nero?’

Trovando tra  ragioni di ieri il desiderio, e sfogliando il libro delle profezie... Spettro istantaneo pur vivo saturna il sonno. Rovescia la deduzione all’indotto di pensieri prostituiti al non sapere, all’ ignorato mistero d’esistere. All’immortalità donado l’immaginazione, per eludere la brama della fine.

 

E dalle collegene sierose con grande cautela, piano, piano stemprano le rime  che per qualche ‘tempo’ confinarono i movimenti del respiro e del cuore. Appoggiati, neppure goffamente adagiati su un vassoio color acciaio stanno i polmoni, la trachea sino alla glottide, e poi oltre, rovesciando su marmo, il faringe, la lingua pendula in un blocco di stralci e frammenti di carne, di linee muscolari. Trascinato via dal taglio profondo, l’esofago collabisce lungo le vie dell’aria. L’attuale indagine non sembra riguardare i condotti digestivi. Il cuore rovescia da una parte, quando le mani girano verso l’alto la fiacca piramide di spugna rosata di polmoni bevuti. La mano separa la massa cardiaca per trattenerla a se, mentre  senzavento   sbandierano i   lobi alveolati . Nulla più che labile forza appare contrastare il filo della lama, le dita, altrimenti inermi, slabbrano i morsi del prelievo del cuore: sino a diventarne ali .

 

Tardi. Lancette analogiche trafitte dal tempo. Il pomeriggio migrando lentamente. La crepuscolare. Stando quell’affanno forse: il ritmo violando. La voluta di fumo straziata dal respiro. ‘Voluta di fumo mena vanto d’essere giunta al mattino’. La morte.  Topolini messi a confronto. Viaggiare prossimi all’invecchiamento rallenta la luce. Ma stando s’invecchia? O la legge della vecchiezza domina sovrana sin dal primo vagito? La curva spaziotempo è la forma dell’assisa divinità o gli occhi devianti di Isaac mentre beffardi prendono in giro tra ampolle assorbenti l’assoluto? ...Stando?

 

Le mani tornano sui polmoni, la trachea, l’esofago, i nervi, i dotti, le ghiandole. Girano e rigirano le spugne respiratorie, premendole come  paffuti aracnidioti, al fine di escludere possibili regioni di variante consistenza ed ontologia. Al termine di questi preliminari tattili sollevano una lunga lama e iniziano a tagliare il tessuto alveolato, esponendo le intime strutture vacuo-vascolari, premute a loro volta a più riprese per escludere eventuali formazioni coagulate anzitempo, ovvero germinanti per conflitto

 

Sia morte evento contingente, per nulla separato al tempo della vita, ovvero assoluto e necessario per altro diverso dal tempo, ora questo per lui essendo, assiso nell’osservazione, diventando contesto di profondi sviluppi. Il crinale della sera armando le splendide mani di penombre ora sfumate in oggetti sensibili, ora rapprese nell’aria come spettri. Più fuori, oltre la stanza un immenso propagandare di nebbia a sbiadire volti chiusi dall’ovale del periscopio. Avendo l’impeto la volontà impetuosa di ridare sostanza a quelle vite naviganti sotto il cielo simbolico. Un qualitativo non-senso di fronte a qualsiasi pensiero. La strategia della similitudine impiega ardori spettrali, occorrendo ben altro nell’affronto delle tenebre. Sia calcolo o impulso. leggi per armonie uguale nulla. Tutto questo non per asserzione disssonante ma per assurda realtà. Quando trema l’ostacolo, sembra oscillare la coerenza. Eppure si uno et uno sia uno, l’altro garantisca la coerenza. Eppure sia l’uno che l’altra garantirebbero le opposizioni, si esitsessero.

Respiro e palpito. Specchio? Inizia la riflessione.

 

Ovvero il parenchima polmonare può mostrare sofferenze e lesioni, la causa di estenuante respiro, improvvise crisi di soffocamento, affanno ingravescente. Ingravescendo. Antiche e coerenti fami d’aria. Stridori agitati. Imminenza di morte. In questo caso i polmoni  e le vie aeree sino agli alveoli appaiono indenni. E le ali riprendono il cuore dall’emisfero di metallo. Infilano le dita-penne nei vasi senza sangue, sin dentro le cavità lobate. Perchè così al tatto appaiano le trabecole come chiome inamidate dalla superficie liscia, quasi vellutata.

 

Rimata la riflessione. Specchio. Sine Lucidor. Tutto è ombra,  quasi ombra quando la materia si fa limite. Tutto strappa all’indecisione il coraggio del fiore. D’aprirsi all’aurora. Ancora. Sia verbo che spiegazione. Oltre le labbra il prossimo gradino è l’anima per il cuore, per la voce.

Quel giardino di Arnold Boecklin, all’ombra di pietre tigrate, petali cipressini, coagulo d’ombre, solvenza d’ossa di mare: tutto sgroviglia, divorando nulla e nulla condensa, incedendo al tutto. Tutto-come-sempre: come furto all’immenso per un pò di tempo che  sigilli eterno a nord del futuro. Eterno: parola diseterna, adorna e glabra, dal vello al pube brucia di vita in vita  incomprensibile.

Parola: quanto a manca a starti tra bocca e cuore per non-essere? Muoverti sa di voce , fermarti di riflessione. Sparire è come dire. Guai chi ama e non può collocarsi più in alto del proprio amore.

 

Come strane foglie slama la carne tra sangue e acqua. Abita dentro se, come il rumore di uno sparo. Sciolto dal trionfo dello spargimento colliquante. Camera con sangue ora vuota, porta dopo porta vuota. Specola lonatna dalle ombre, dalle parole. Nel lembo di una valvola, tra corde imbrattate di archi e clavicole sbilenche.

La morte non prende tutto d’improvviso.

Qualche fascio muscolare appare in grado di contrarsi, eppure quel ricordo che solleticava e prudeva fibrillando il corpo, accelerando il palpito, ed ora continua da qualche parte a far vivere.

Membra e memoria sparse.

La lama continua ad esporre innaturali superfici, interne per affiorare oltre, per esangui porcellane d’abisso. Esterne perché colte dall’esposizione satinata. Più che dalla luce ripararano dall’ombra.

 

E’ l’attimo l’ossesione. La presente dissoluzione della continuità che aspera sovrana, trasla lungo binari altrimenti uniti le più intime violazioni. Regale perché vita, immensa non eterna, mortale non vitale. L’operazione è molto più antica. Non per questo lontana, simile alla distanza governa le cose, stanzia per loro tempo e gonfia spazio perché siano. Trascurando nulla trasale le invasioni, i rigurgiti delle complessioni. Impazzisce appena le mani, mentre le luci brillano e ripovano a tornare in se.

La tregua apparirebbe il  sottile vestito, inconsueto perchè indovato all’interno spessore.

 ...Ma sia notte più speranza che buio trasognante!  Tempo fuori tempo trascorre ore solo per ore, amando il sospiro, il gemito trasecolato dalle carezze improvvise. Quando il suono pare una coperta che avvolge.

Fine e inizio dicono sia stato qualcosa fra loro. Tensione, compressione, in qualche modo effetti strutturali di un principio in movimento. Spesso indefinibile verità, la storia di tensione e compressione sta tutta tra l’inizio e la fine. Lunghezza tra essi è forse causa di errori, più che la  referente misura. La noia reitera, ovvero sprona alle invenzioni. Equazioni ricorsive di dominio denotano semantiche. Eppure fermare il movimento crea problema.

Qualcosa di più del minimo richiesto dal necessario requisto. Assiomi nauseabondi a dimostrare la più irragionevole nausea. In fondo movimento é ottenere spiegazioni o semplici informazioni tra la tensione dello stato e la compressione dello slancio.

La realtà non é dentro mai. A questo.

E continua contiguo inghiottendo... fosse a frequenze più basse!

 

La carne simula carne anche quando morta sposa putrefazione, nuova condensa tra fuoco e vuoto. Oltre il diaframma la coltre dell’epiploon, sollevato il quale sta il mare ad onde tubolari detto intestino. Al confine superiore un pò di fegato e una bisaccia più larga detta ‘stomaco’.

Corpo più noto dell’anima, dove il male sembra progresso. Annegare la mano, doppia perché due e ambascia, sotto i marosi dell’intestino. Cercare masse più sottili perchè più dure: il filtro degli umori. Tornare alle anime della digestione, a quel ventre roboante fatto di tuba, gas e liquami. Odori concreti come stalattiti perenni nel naso.

 

Attraversi l’universo senza perderti. Come sonno pronuncia ‘notte’ senza una parola. Rapida dimenticanza per segreta conoscenza. Inghiotte la fine la libertà dell’inizio, la giustizia del brivido spiana incredibilmente pelli rapprese. Stando ad  esaminare, anzi spiando, il luogo ‘Giungere’, non solo ‘Star-ad-arrivare’, come guardando indurrebbe altro dal solo vedere, se  la fede fosse l’unica risorsa della ‘vitavivenda’.  Contemplando alcun luogo, sia nessun luogo o altro dall’esserci, commiserando la pena di ‘stare-appena’. O credendo essere altrimenti dall’invettive esistenziande...

La bellezza del gioco nel miracolo.

Ma tutta la vita batte senza un soffio d’esistenza al limite dell’empireo. Indivisibile dall’implicito, dal vuoto, dalla relata proiezione dell’essere.
Misteriosa, per quanto diretta esperienza non concettuale, fluisse indefinta personificando tutto: il granello di sabbia sotto l’unghia e l’immane forma del filo d’erba...

‘Persuasioni, referenze, intenzioni: caratteri originali della coscienza’. ‘Rappresentazione, giudizio, e sentimento: fenomeni dinamici della coscienza’. Più che di errore, l’artefatto della generalità nell’inevitabile solipsismo della coscienza. Più che sotto o dentro, l’imperscrutabile cercando.

 

Non c’è digiuno vero senza morte e vuoto. Dipanare lentamente, stendendo le sue anse a ventagli sovrapposti. Scorrere con le dita lungo il bordo convesso. Cercare con dottrina elementi divergenti. Giungere al termine naturale. Considerare minuziosamente ogni variazione di consistenza, distensibilità, trasparenza. Differire sottile da spessore, umido da secco. Provare resistenza e sofferente elasticità degli indotti strutturali. Guardare infine, quasi con venerazione, le pareti templari del corpo truncale ormai privo di organi. Il cilindroide con due sezioni coniche alle estremità: verso il collo vasi, ghiandole, nervi, condotti per fluidi quasi-, newtoniani e non-newtoniani, e verso il pube vasi, ghiandole, nervi, vesciche e vescicole genitali. Colore prelavente: rosso cupo, giallo lucente, strie ametiste, liquori bianco-brunati, fasci opalescenti, lame liquide di verdemoccio-azzurrargento. Odore pervadente, senza offesa alcuna al profumo, chetante, per altri versi dirompente, per altri ancora familiare-midollare, per ancora altri ripugnante-viscerale-definitivo.

 

Nell’isola dell’Abaton, quando non è trovar fiamma a clessidra, sia  l’afferare spada per l’elsa.

E’ già.


niemandsrose 

Sine Francesco Pelizzoni 

e tanto fugge, per non parlare
tanto la dolce zitta voce
strazia la vita
odora di silenzio
dove per tutto accade
la terra dentro noi 

ancora guardo
il canto 
e scanto
lasciando volando tremando

le mot tr
asmesse
tane mio rame
delizia stragrande histoire
je crois, nous croissons
amphitheatre
dans les phare
dans les fleuve
graver sur bois
a quelle heuere?

a che ora l’anello fora
il respiro sfiora?
e mai vento o spira di vento
anima sorta
anima distorta
dentro nel vento
immobile, eppur
tende da se spande

alle parole
chiama il gradino
delle labbra
credano senza vedere
vedano senza credere 

contrasma il respiro
radendo la noia
all’ottimale riposa... 

sia erba
e sia
dentro terra
come cielo di verminose stelle
guanti di carne
siamo poi questo
per anime strazie di andare
e tornare
tra il bene e il male 

latte nero 

Nulla che sazia
l’amaro fra’suono
porta la cenere a casa
dove lungo camino
sta
nulla che stringe
più di una malga
...cime inesplora
e sta
farsi opera
alta, altissima
tornando tutto sembra via
la cena, le finestre, la stanza
notte dopo notte
se esistesse il sole?
nella luce vera

LATTE NERO
fine

angelo