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Giancarlo Natale


L’èn messe ite

e vèspei cantà

Biassa: i nomi, i luoghi, le voci del passato


 
Biassa nella toponomastica

Oggi gran parte dei campi di Biassa sono incolti; i castagni prima coltivati si sono ora inselvatichiti, arrivando a lambire il paese e occupando i rigogliosi orti di un tempo. Il leccio ha invaso le piane nella parte alta di Tramonti, mentre le bassure stanno franando a mare. Questi stessi boschi sono stati invasi dai rovi e da cespugli e divenuti impraticabili a causa della folta vegetazione che ha cancellato i sentieri.

Da questi boschi un tempo si ricavava la stramaglia, essenziale per l’allevamento animale e per la concimazione dei terreni di Tramonti, per questo erano tenuti puliti, anzi, la gente di Biassa e Campiglia aveva in affidamento anche i terreni di proprietà comunale dato che una buona parte dei 208 ettari di proprietà del Comune della Spezia si trovano nel territorio di Biassa e Campiglia.

I “termini” di confine, spesso due semplici pietre infisse nella terra, una a fianco dell’altra, dividevano le proprietà ed erano tenuti sempre sotto controllo perchè poteva succedere che qualcuno tentasse di spostarli in proprio favore. La costituzione del “Circolo Contadini Riuniti” i cui soci vigilavano sui terreni di proprietà tramite due canpai (le guardie campestri), avvenne proprio per evitare che fossero commesse infrazioni nei terreni privati e per provvedere alle sanzioni in caso di abuso. Ogni proprietà era riconoscibile da un numero che l’intestatario provvedeva a segnalare chiaramente con la calce. Nel 1946 il Circolo contava centotrentadue soci con due guardie giurate: Umberto Bianchini, Agnelun, e Rinaldo Natale, Romano. Le infrazioni più frequenti erano il tentato spostamento di confine, la raccolta della legna, della stramaglia, delle castagne nelle proprietà altrui. Talvolta le pecore o le capre sconfinavano e anche questo era motivo di multa.

I boschi comunali erano invece controllati dai guardaboschi municipali.

Il “Circolo Contadini Riuniti” ha svolto la propria attività fino al marzo 1958 quando per mancanza di interesse verso i boschi, dovuto ad un certo progresso sociale, non fu più in grado di funzionare. I guardaboschi comunali rimasero in servizio sino ad esaurimento per limiti di età. I componenti del gruppo operante nei boschi di Biassa e Campiglia dalla fine della guerra al 1988 furono: Nando Maccione, Renato Dauscio, Giulio Gianardi, Mario Sturlese e Carlo Melli, l’ultimo a lasciare il servizio, nel 1989.

Ogni località di Biassa e Tramonti aveva un nome che la contraddistingueva; molti di questi sono andati perduti sia a causa delle frane sia perché assorbiti o soppiantati da altri toponimi. Ma alcuni ancora si ricordano:

 

Lato Monte Fraschi, Monte Madonna, Telegrafo

Mùnte

Santantògnu

Mùnte Màgru

Castèu

Nagruföa

Feétu

Dèbiu

Funtanèla

Scòiu

Paràdi

Pelücu

Casòtu da zìtua

Canpussàntu vèciu

Sànta Maìa Madaléna

Castèu de Cuderùni

Dàa Tùre

Lìmu

Begaìna

Càva rùssa

‘N se canàe

Canivèla

Furnàse

Cà di Sassèi

Cà der Curunèlu o Pòzzo

Càva négra o Cubiòla

Dar bìlicu

Telefèrica

Puléta

Muntemadòna o Mùnte Rosàrio

Turiùn

Vaisèla

Curezöu

Ròca der Curezöu

Funtanèu

Dài òrti

Madunéta

Fràschi

Scòiu de Bàciu

Scuiaìn

Pòsa

Crùse de fèru

Crùse de légnu

Aigaìn

Dàe pùle

Piàzza der monuméntu

Spedàu

Vìa di spùsi

Àa de Zàn

Cartelùn

Àa du Gianchétu

Dar fùrnu

Pràdu

Tassunàu o Capèla

Puntétu Növu

Buzétu

 

Lato Monte Santa Croce

Sànta Crùse

Pìlua

Gesiöa

Purcaézzi

Bàle da fùrca

Ròca di stòrti

Còsta de Sarùn

Canàu du diàvu

Giàa

Fòssu

Tascàn (Tère de Venànzio)

Bàrsi

Custèla de Miòli

Custèla di mòrti

Custèla de Muntisèi

Ròca giànca

Ròca de strìe

 

Lato Monte Verrugoli

Verügua

Sàn Martìn Vèciu

Paradìsu

Vàsca der Bertèlu

Perélu

Ciòsa

Fatùe

Còsta da sèra

Savìna

Canpudùrmu

Culétu

Còla vècia

Cànpu

Lùpiu

 

Lato Monte Bramapane

Bramapàn

Càva de Bertàn

Merdaöa

Càva Bùti

Càva der Préte

Ròca du trùn

Zìu du ciapàu

Ciapàu

Piàzu

Castàgni gràndi

Zìu de férse

San Ròcu

Gròpu

Àa de Capùna

Àa da pinèla

Piazzàu da gése

Àa der Bàle

Bàle

Còde

Casavècia

Dàa piàna

Muntàu

Valéta

Ciighèu

Balaèu

Àa grànde

Vìa növa

Còsta

Deghiùn

Gòbu

Dàu lanpiùn

Fussadèu

Custèu

Saéciu

Làgu

Bòzu di sète funtanèi

Capustàbile

Dài muìn

Balaèu

 

Lato Monte Parodi

Paròdi

Da Gòri

Abetàia

Canaùn

Mùnte Biàssa o Castelàna de Biàssa

Pianèla

Ròche da Maiùna

Còsta di canèi

Piàza d’usèu

Piàza survàna

Piàza sutàna

Còsta da Piàza

Buzùn

Redemé

Redemé sutàn

Ruchéte

Cumiàgu

Pèzzu di Sassèi

 

 

Mùnte (Monte) - La strada mulattiera che collega Biassa con Tramonti raggiunge il passo dove si trova l’oratorio di S. Antonio abate (510 m.s.l.m.) Muntàe ‘r mùnte significava raggiungere il passo partendo da Biassa o da Tramonti.

 

Santantògnu (Sant’Antonio) - La chiesetta posta in cima al Mùnte. La porta della chiesa restava sempre aperta per dare modo ai passanti di ripararsi in caso di pioggia.

I biassèi chiamavano e chiamano tutt’ora Santantògnu questa chiesetta (e il passo), intitolato a S. Antonio Abate; Santantugnìn è invece S. Antonio da Padova venerato nell’oratorio di Schiara.

 

Mùnte Màgru (Monte Magro) - È il monte che da S. Antonio prosegue verso Campiglia.

 

Castèu (Castello) - Seguendo la strada sterrata che da S. Antonio arriva a Campiglia, nella parte più alta del monte si incontra il luogo noto con questo toponimo. Nelle sue vicinanze un largo sentiero acciottolato e un tratto di strada che faceva parte dell’antico collegamento S. Martino Vecchio (Biassa) - Portovenere. Scendendo verso il lato a mare, una scalinata di grandi proporzioni - che parte da una piccola cava di pietra arenaria - conduce nei pressi della fontana di Nozzano.

 

Nagruföa - Sotto il Castèu lato Biassa, confinante con la Giàa.

 

Feétu. - Luogo boscato a castagni alla sinistra della strada mulattiera che da Biassa sale al Mùnte. Sul territorio vi erano numerose cave di arenaria servite da una strada carraia, che raggiungeva le cave più importanti della Posa, poco sopra.

 

Dèbiu (Debbio) - Tra il Curezöu e Feétu. Al centro della località una sorgente forma un laghetto. Molte famiglie di Biassa vi attingevano, portando a casa quest’acqua ritenendola pura e “leggera” (di facile digeribilità); sgorgava dalla sorgente talmente fredda che in estate era abitudine immergere nel secchio colmo il fiasco di vino, per renderlo più fresco.

 

Funtanèla (Fontanella) - Poco sopra Paradi, all’inizio della mulattiera di arenaria che porta al cimitero e continuando, alla Giàa, Campiglia e Persico, dove molta gente di Biassa possiede terreni e cantine. Una sorgente dà il nome a questa località e molte generazioni di donne biassèe hanno usato i lavatoi coperti per il loro bucato.

 

Scòiu (Scoglio) - Rione di Biassa posto nella parte più ombreggiata del paese nei pressi della Funtanèla.

 

Paràdi - Confina con lo Scòiu. Era coltivato a orti e castagni. Attualmente vi sono alcune case di recente costruzione e un piccolo campo sportivo.

Pelücu - Castagneto situato tra Paràdi e Begaìna.

 

Casòtu da zìtua - Il termine Zìtua indica la civetta; la piccola costruzione, che si trovava in località Paràdi, è scomparsa con la costruzione del campo sportivo.

 

Canpussàntu vèciu (Camposanto vecchio) - Con l’editto napoleonico degli inizi dell’Ottocento che imponeva la tumulazione dei morti al di fuori dei centri abitati, i defunti di Biassa furono sepolti nel Castello di Coderone, nell’attesa della costruzione dell’attuale cimitero. Per molti anni, il castello fu ricordato con il nome di Canpussàntu vèciu, per distinguerlo da quello successivamente costruito.

 

Sànta Maìa Madaléna - Una chiesa a pianta rettangolare sorgeva a levante del castello di Coderone, in prossimità delle costruzioni di cui sono ancora identificabili i ruderi.
L’intitolazione della chiesa rivela la vicinanza delle importanti vie di pellegrinaggio lungo le quali si diffuse il culto verso questa santa.
Le mura perimetrali della chiesa, peraltro molto vicina al precipizio della sottostante cava Limo, sono ancora oggi visibili.
 


Castèu de Cuderùni (castello di Coderone) - Posto sul breve crinale che da Biassa si incunea fra il monte Santa Croce e il Parodi, è stato edificato forse nel 1251 dalla Repubblica genovese nel territorio della comunità che aveva collaborato alla distruzione di Carpena, passata ai nemici pisani. Fu ampliato dalla famiglia Biassa nel XVI secolo che ne fece la propria residenza. Abbandonato in seguito dai Signori e dagli abitanti, cadde in rovina.
Secondo Ubaldo Mazzini i Biassa, che portavano il nome del paese di cui erano Signori, discendevano dalla famiglia dei Viano i quali a loro volta provenivano dai Bianchi d’Erberia, antichissimi Signori della Val di Magra.
Lo stemma della comunità di Biassa scolpito su una pietra di arenaria si trova murato, all’interno, presso l’ingresso della chiesa di San Martino e reca in campo una torre con la scritta latina Nec vi nec dolo (Né con la forza né con l’inganno).

 

Dàa Tùre (dalla torre) - È ancora vivo nella memoria popolare questo toponimo che indica il castello Coderone, forse in ricordo della primitiva costruzione che era a forma quadrangolare.

 

Lìmu - Cava di pietra calcarea coltivata sino ad una quindicina di anni fa, posta lungo la strada carrozzabile che sale a Biassa, sottostante i resti della chiesa di Santa Maria Maddalena.

 

Begaìna - Vasto castagneto alle pendici del Coderone attraversato dalla mulattiera in pietra arenaria che da Biassa scende alla Spezia.

 

Càva rùssa (Cava rossa) - Dal colore della pietra che vi si estraeva ed è all’inizio della scalinata della Begaìna.

 

‘N se canàe (Sulle canale) - Località lungo la mulattiera per Biassa, poco sopra Casa Cuffini. Vi era una “posa” ed era luogo di riposo, all’ombra dei castagni, per chi saliva dalla Spezia nelle ore calde.

 

Canivèla - Poco dopo le fornaci di Biassa. Nel 1953 fu inaugurata la prima linea di corriere pubbliche che dalla Spezia raggiungevano Casa Cuffini (daa Linda), in località Canivèla. Da lì, a piedi, si attraversavano le Canàe, Begaìna, Paràdi e si arrivava a Biassa.

 

Furnàse (Fornaci) - Le fornaci di Biassa sono rimaste in funzione sino alla fine degli anni Cinquanta. Il calcare della cava Pacioselli era un’ottima pietra, adatta alla cottura per diventare bianchissima calce.

 

Cà di Sassèi - Poco dopo Casa Cuffini, di fronte alla fornace, abitava una famiglia soprannominata Sassèi da cui prendono nome anche i numerosi campi che, al di la della strada, sovrastano la casa (Pèzu di Sassèi). A questa casa, un tempo, era annesso un mulino.

 

Cà der curunèlu (Casa del colonnello) o Pòzzo - Lungo la carrozzabile per La Spezia, poco dopo le fornaci di Biassa e nelle adiacenze della cava Negra. Deve il nome al fatto di essere stata di proprietà, e abitata, da un colonnello dell’esercito, Romolo Sturlese, padre di Paolo Sturlese, negli anni Sessanta noto primario del reparto di medicina nell’ospedale civile della Spezia. Il luogo è chiamato anche Pòzzo a causa dello sfiatatoio della sottostante galleria che collega La Spezia con Riomaggiore, posto nei pressi della casa.

 

Càva Négra (Cava nera) o Cubiòla - È al confine con Pegazzano, dove inzia la via Vècia di Biassa e il nome è dovuto al colore della pietra. Al centro vi è la grotta dove il geologo spezzino Giovanni Capellini trovò resti fossili di Ursus spelaeus (Orso delle caverne).

 

Dar bìlicu (Dal bilico) - Sulla strada di Biassa, nei pressi della Cà der Curunèlu. Serviva alla pesa del materiale lapideo delle vicine cave trasportato dapprima con i carri e poi con i mezzi meccanici.

 

Telefèrica - Tra ‘r Bìlicu e la Puléta durante la seconda guerra era stata costruita una teleferica che trasportava sia gli uomini sia il materiale nella soprastante zona fortificata di Santa Croce.

 

Puléta (Piccola polla) - Poco sopra le ultime case di Pegazzano (il Quartiere), è sempre attiva una sorgente che ha dissetato per anni i biassèi che a piedi tornavano alle loro abitazioni di Biassa.

 

Mùnte Madòna (Monte Madonna) o Monte Rosario - Mùnte Madòna (528 m.s.l.m.) si estende dal Turiùn, all’oratorio di S. Antonio abate. Anche questa località era stata fortificata durante l’ultima guerra e vi si possono ancora vedere alcune opere murarie fatte costruire dai tedeschi. Su crinale del monte passa l’antica via che collegava Porto Venere con l’alta Via dei monti mentre a ridosso, verso Biassa, corre la via aperta dai tedeschi per facilitare la ritirata e che è ora utilizzata dai cittadini per recarsi nella “Palestra nel verde” e a Tramonti.

 

Turiùn (Torrione)- Toponimo indicante un antica torre di guardia a protezione delle invasioni saracene. Sulle sue fondamenta è stato poi costruita una casa per dare riparo ai cantonieri demaniali addetti alla manutenzione della strada militare di accesso ai forti Bramapane e Parodi. Successivamente il luogo è stato ribattezzato Telègrafo perché dal 1849 sino alla fine del 1853, era stato installato su questa altura un ripetitore del telegrafo ottico inventato dall’ingegnere francese Claude Chappe (1763 -1805). La linea Genova-Sarzana di questo telegrafo, che funzionava “a vista” e che attraverso l’interpretazione di un codice permetteva un rapido inoltro di informazioni, aveva diverse stazioni intermedie fra le quali Portofino, Capo Manara, Capo Mesco, Torrione e La Spezia.
Sembra che anche Guglielmo Marconi abbia utilizzato il Torrione per alcuni esperimenti sulla telegrafia da bordo della nave Elettra ancorata nel golfo della Spezia.

 

Vaisèla - Vecchio sentiero molto battuto sia dai cavatori che si recavano nelle numerose cave di arenaria in quota, sia dai riomaggioresi che portavano l’uva da tavola al mercato della Spezia. Il sentiero, scendendo dal Turiùn, arriva al Curezöu. Numerosi erano anche i biassèi che, possedendo terreni e cantine in località Pinéda (che si trova nel comune di Riomaggiore) erano costretti ad un lungo tragitto, dovendo dapprima salire per il sentiero di Vaisèla, poi scendere per il versante opposto sino alle loro proprietà sul mare.

 

Curezöu - Posto sull’omonimo canale, nelle cui vicinanze sono le ultime case di Biassa, prima di intraprendere la salita per Tramonti. Anche qui si coltivava una cava, che essendo vicina al paese, forniva le pietre occorrenti alla costruzione di molte delle case di Biassa.

 

Funtanèu (Piccola sorgente) - Si trovava sul greto del canale Curezöu poco sopra il piccolo ponte che attraversa il canale sulla strada di Tramonti. Sino alla fine dell’ultima guerra, quando le abitazioni erano ancora sprovviste d’acqua potabile, molta gente attingeva acqua a questa fonte. Alcune decine di anni fa la portata d’acqua diminuì e qualcuno pensò che con un po’ di esplosivo avrebbe risolto il problema. Invece, dopo lo scoppio, l’acqua scomparve completamente.

Dài òrti (Dagli orti) - era indicata una località nei pressi del Curezöu ed erano ampie fasce coltivate ora sepolte dalla vegetazione.

 

Ròca der Curezöu (Roccia del Correggiolo)- Appena sopra il canale in margine alla scalinata del Mùnte. È una grossa roccia di colore rossiccio nei cui pressi si divertivano a giocare i ragazzini di molti anni fa.

 

Madunéta (Madonnetta) - Poco sopra la Pòsa: una piccola edicola racchiude una statuina della Madonna del Rosario.

 

Fràschi - Ampia zona boscata sul lato destro dell’ultimo tratto della scalinata del Mùnte, a partire dalla Pòsa sino alla sommità.

 

Scòiu de Bàciu - Sulla scalinata del Mùnte poco dopo la Madunéta.

 

Scuiaìn- Scòiu de Bàciu e Scuiaìn sono contigui.

 

Pòsa - Attigua alla scalinata che sale a Mùnte e di cui è a metà cammino. Una sosta a questa Pòsa era d’obbligo per chi si recava a Tramonti o ne tornava.

 

Crùse de fèru (Croce di ferro) - Il luogo prende il nome da una croce di ferro infissa in un grande blocco di arenaria lungo la mulattiera per Tramonti, poco dopo l’abitato di Biassa.

 

Crùse de légnu (Croce di legno) - Poco sopra il Curezöu, era infissa nell’arenaria.
È rimasto il toponimo.

 

Aigaìn - il toponimo indica un bosco di castagni che si trova prima di Feétu, vicino alla Crùse de Fèru.

 

Dàe Pùle (dalle polle) - L’attuale via delle Polle inizia dall’incrocio con la strada che porta al cimitero ed alla strada Litoranea e termina, con una piccola scalinata, nei pressi della Scuola Elementare. Il nome la dice lunga in fatto di acqua. Lungo il tragitto sono ancora presenti numerose sorgenti, alcune delle quali un tempo erano utilizzate come fontane pubbliche e lavatoi.

 

Piàzza der Monuméntu - Nel centro della piazza è ancora sistemato la base del monumento ai caduti della guerra del ‘15 - ‘18, inaugurato nel 1924. La statua in bronzo, opera dello scultore spezzino Angiolo Del Santo, rappresentava un nudo guerriero romano in atteggiamento da combattimento, con il gladio in una mano e lo scudo nell’altra. Durante la guerra fu asportato e fuso per motivi bellici.

 

Spedàu (Ospedale) - Via dell’Ospedale sale dalla piazza del Monumento e arriva sino a San Rocco. È probabile che questo toponimo ricordi l’epidemia di tifo scoppiata nel 1817 quando per contrastare la malattia, fu traformata la canonica (vicina alla strada) in ospedale. Secondo la testimonianza del già citato don Antonio Rossi “… dal gennaio al 17 agosto i morti a Biassa furono 125”. Nella fase più acuta dell’epidemia “… in Biassa in 11 giorni… 24 sono stati li trapassati, a segno che non si suonano più l’Ave Maria…
Questa strada è indicata anche via di spùsi (via degli sposi): infatti è tradizione che essa non sia percorsa dai funerali, destinandola invece al gioioso corteo degli sposi.

 

Àa de Zàn (Aia di Giovanni) - Salendo l’attuale scalinata di via dell’Ospedale, si incontra una piazzetta circondata da alte abitazioni. È l’àa de Zàn.

 

Pràdu (Prado) - Al di sotto del Saèciu sino all’inizio del canale di Biassa un tempo ricco di acqua. È una vasta zona con ampi campi coltivati.

 

Tassunàu o Capèla (Tassonaro o Cappella) - È un bosco di castagni che si incontra scendendo il canale di Biassa, sotto al Pràdu. Durante l’ultima guerra in questo luogo si costruì un piccolo rifugio antiaereo, ritenuto sicuro e molto utilizzato durante le incursioni aeree, anche se si trovava piuttosto lontano dall’abitato.

 

Puntétu Növu (Ponticello nuovo) - La scalinata Biassa - La Spezia nel primo tratto, abbandonata la strada carrozzabile incontra il canale che scende dallo Scoglio. Il Puntétu Növu attraversa questo canale.

 

Buzétu (Laghetto) - Sotto il Puntétu Növu, nel canale che scende dallo Scoglio, detto Canàu da Mìna, una sorgente formava un bozzo sulle cui pietre affioranti le donne andavano a lavare i panni.

 

Sànta Crùse (Santa Croce) - È un monte a sud - est di Biassa. Durante l’ultima guerra è stato fortificato ponendolo a guardia del sottostante Arsenale Militare. Dalle sue alture si gode una vista quasi aerea sulla Spezia. Sono ancora visibili sulle piazzole all’interno della zona fortificata le canne e parti di cannoni abbandonati.

 

Pìlua (Pillora) - Scendendo dalla batteria verso la Gesiöa, si incontra un pianoro, er pianùn de Pìlua. Sul lato più lontano di questa piana rettangolare, una sorgente, ormai esausta, forma un letto di fanghiglia dove vanno a sguazzare i cinghiali. Un tempo al suo posto si estendeva un piccolo specchio d’acqua sufficiente ad irrigare gli orti e le coltivazioni della piana. Dalla parte verso Campiglia vi è una grande costruzione, il cui ultimo abitante è stato Rafò de Pìlua, contadino del Pianùn de Pìlua. Attualmente sia la costruzione (nota come Castello Doria) sia la piana sono in completo abbandono.

 

Gesiöa (Gesirola) - Alla fine della ripida scalinata, che sale dalla Giàa per Campiglia. Prima di iniziare il pianoro di Purcaézzi, tenendo sulla destra, le Bàle da Fùrca e poco più sopra la Ròca di Stòrti, una roccia piana da cui si vede il mare di Tramonti.

 

Purcaézzi - Inizia al passo della Gesiöa e prosegue alla sinistra sulla strada mulattiera che conduce a Campiglia.

 

Còsta de Sarùn - È il versante di Biassa del Monte Santa Croce, che arriva sino al canale sopradetto. A metà costa corre un sentiero che sale da Fabiano, il cui percorso si snoda attraverso il Monte Coregna, il Monte Santa Croce e giunge a Biassa.

 

Canàu du Diàvu (Canale del diavolo) - Al di sotto dell’attuale strada Litoranea, tra il Coderone e le pendici di Santa Croce, si incontra il canale che si immette nel più grande Canale di Biassa all’altezza delle Fornaci e che a sua volta dà vita al Lagora. Il luogo è molto inospitale e forse questo gli ha meritato il sinistro nome. Il breve corso d’acqua scorre nelle vicinanze della cava Limo; per poter utilizzare l’area per la discarica dei detriti di risulta della cava stessa, fu coperta parte del canale e la superficie così ottenuta si adoperò per l’accumulo dei materiali. Una diffusa leggenda narra che nel Castello di Coderone sia sepolta una chioccia con dodici pulcini d’oro. Chi ebbe la ventura di vederla si ritrovò malconcio sul greto del Canàu du Diàvu, sotto al Castello.

 

Giàa (Ghiaia) - Un tempo vi era coltivata una grande cava di pietra arenaria (Cava Ghiaffa) e vi si trovava un rigoglioso castagneto. Da lì inizia la ripida scalinata che sale alla Gesiöa e che, proseguendo, porta a Campiglia.

 

Fòssu (Fosso) - È la strada sterrata che dal cimitero raggiunge la Giàa e attraversa un tratto di castagneto fosco e impervio.

 

Tascàn o Tère de Venànzio - Nelle vicinanze del cimitero, sopra la strada carraia che conduce alla Giàa ed era un terreno coltivato con annessa una piccola casetta di proprietà di Venanzio.

 

Bàrsi - Sulla sinistra della strada Litoranea, prima dell’incrocio della strada per Biassa. Il toponimo indica un castagneto che, lato monte, confina con la Giàa.

 

Custèla di Mòrti, de Muntisèi e de Miòli - Sono tre collinette di terra rossiccia che si susseguono l’una all’altra. Su quella centrale, Muntisèi, si trova il cimitero di Biassa; quella di Mòrti si prolunga verso il castello Coderone ed è coperta di cedui di castagni. Il tratto iniziale si presenta spoglio di vegetazione; qui tradizionalmente, nella ricorrenza dei defunti, erano accesi dei fuochi che producevano intenzionalmente molto fumo, cosa che contribuiva a rendere ancora più triste la ricorrenza. In questa giornata, i ragazzi del paese correvano con rudimentali turiboli ricavati da barattoli di latta i quali erano fatti volteggiare in aria per mantenere accese le braci al loro interno. La custèla de Miòli era invece coltivata a patate, grano e uva e confinava con la Giàa.

 

Ròca giànca (Roccia bianca) - località nelle vicinanze della Giàa, così denominata per una grossa roccia di quel colore.

 

Ròca de Strìe (Roccia delle streghe) - Si trova nei pressi della Giàa, verso la Còsta de Sarùn, in un bosco di castagni. Il nome suggestivo indica una strana roccia solitaria.

 

Verügua (Verugoli) - È il monte più alto di Biassa con i suoi 741 m s.l.m. Poco sotto si incontrano le rovine della chiesa romanica di San Martino Vecchio. La tradizione narra di un castello denominato Roccanégra costruito nei pressi dell’antico borgo di Biassa. Se questo avesse un fondamento di verità, la posizione scelta - sulla sommità del Monte Verugoli - era veramente una delle migliori.

 

Sàn Martìn Vèciu (San Martino Vecchio) - Sul Monte Parodi; era la chiesa dell’antico nucleo di Biassa. Ora in completo abbandono, mostra ancora parte dell’abside e i resti delle tre porte di accesso alla navata. Da ciascuna porta entravano i fedeli di diverse comunità: dalla prima quelli di Biassa, dalle altre rispettivamente quelli di Carpena e di Riomaggiore. Probabilmente l’edificio sacro fu officiato sino al 1758 epoca in cui l’attuale chiesa di Biassa, inizialmente intitolata ai santi Giacomo e Martino, divenne arcipretura con il solo titolo di San Martino.

 

Vàsca der Bertèlu - Una sorgente incanalata e raccolta in una vasca nella proprietà di Bertèlu di Biassa posta sopra Còde. Fu costruita dai militari del forte Bramapane per la raccolta di acqua potabile.

 

Perélu - Piccolo contrafforte del Monte Verugoli, caratterizzato da un terreno rosso, ricco di minerale di ferro. Si trova sotto la località Còde.

 

Còsta da Sèra - Il sentiero che porta al Paradìsu nei pressi dell’acquedotto si biforca: quello pianeggiante attraversa dapprima il Canàu da Ciòsa, poi un bosco un tempo regno del bòcu franzése, dal fiore giallo e dalle spine acuminate, per arrivare infine alla Piàza d’usèu. Questo bosco è la Còsta da sèra, caratterizzato dalla presenza dell’arida pietra rossa. Da alcuni anni sono pressochè scomparsi anche gli arbusti spinosi del bòcu franzése (Ulex europaeus L.)

 

Savìna - Lungo il canau da Ciòsa, sulla destra, un limitato numero di campi un tempo coltivati a fagioli rampicanti, si trova questo luogo dal delicato nome di Savìna ma circondato dagli aculei dei bòchi franzési.

 

Canpudùrmu - Sopra la Còsta da Sèra, nell’ampio canalone che formerà più sotto il Canàu da Piàza, attraversato dal sentiero per la Pianèla, larghe piane coltivate un tempo a castagni formano il Canpudùrmu.

 

Cànpu - Terreno delimitato da due canali: quello del Ciighèu e quello della Ciòsa. La parte inferiore è chiamata Cànpu, la parte superiore Lùpiu.

 

Càva de Bertàn (Cava dei Bertano) - Ampia cava di pietra arenaria di proprietà della famiglia Bertano, un tempo benestante famiglia biassèa, sul monte Bramapane, sopra la Ròca du trùn.

 

Merdaöa - Oltre a segnalare un bosco di castagni il toponimo indica anche una cava di pietra arenaria che si trova tra Còde e la cava di Bertàn. Altra cava nei pressi era la cava Buti, dal nome del proprietario.

 

Càva der préte - Don Andrea Natale detto der Menegùn (di Domenico), di Biassa, fattosi prete e poi abbandonata la tonaca, nel dopoguerra aprì una cava lungo il sentiero di Còde. Vicina a tante cave di arenaria la sua era di calcare ma ebbe poca fortuna perché i massi squadrati, estratti dalla cava, rimasero sul piazzale della cava, invenduti.

 

Ròca du trùn (Roccia del tuono) - Sul margine della strada che conduce al Turiùn, prima del Torrione. Anfratto roccioso a cuneo, con un piccolo cunicolo che si apre nella parte inferiore e dal quale sembra uscire un rumore di ruscellamento.

 

Zìu du Ciapàu (Curva del Ciapàu) - È un tornante sopra la Ròca du trùn.

 

Ciapàu - Costa ora abbandonata, ma un tempo coltivata generalmente a grano e patate.

 

Piàzu - Sopra S. Rocco, confina al nord con il Ciapàu. Essendo vicina al paese è sempre stata ben coltivata. Ora tutto è coperto dalla vegetazione selvatica.

 

Castàgni gràndi - Località appena sopra il paese, un tempo frequentata dai ragazzi che ai rami dei giganteschi castagni appendevano robuste corde per giocare ad una pericolosa altalena.

 

Zìu de férse (Curva delle felci) - Da questa curva della strada, vicina al paese, si può ammirare Biassa nella sua completezza e, in lontananza, il golfo della Spezia.

 

Sàn Ròcu (San Rocco)- Sembra sia la parte più antica di Biassa nuova, con un piccolo oratorio e piazzali lastricati. Si racconta che sul piazzale più grande siano state fuse le campane della chiesa di S. Martino Nuovo e che le donne di Biassa facessero a gara nel buttare nei crogioli di fusione il poco oro e argento che possedevano. Questo oro e argento ha fatto sì che il suono delle campane sia tra i migliori del vicinato.
Negli anni del dopoguerra San Rocco era luogo di incontro di suonatori biassei che nelle serate estive facevano radunare molta gente ad ascoltare la chitarre di Angiulè (Nello Vanni) e il mandolino di Grigò (Adriano Bertano) che si esibivano in mazurche, tanghi, valzer…

 

Piazàu (Piazzale) - Si tratta del sagrato della chiesa di San Martino: Ubaldo Formentini stima la costruzione della chiesa, con le prime due navate, al XV secolo, aggiunta ad un più antico oratorio dedicato a San Giacomo ed ampliata nel 1849 della terza navata.
Nel 1875 la Giunta Municipale della Spezia aveva stabilito di acciottolare detto piazzale ma agli esperti scalpellini di Biassa questa soluzione non piaceva. Chiesero attraverso il consigliere Antonio Rossi (Pio Nono), all’Amministrazione comunale, di poterla lastricare in arenaria, allo stesso prezzo, molto più basso, concordato per l’acciotolamento, con una sola condizione: poter ricavare gratuitamente le lastre in una delle cave di proprietà comunale. In data 4 ottobre 1875, con delibera, il Comune autorizzava il lastricato del piazzale alle condizioni espresse dagli scalpellini di Biassa i quale, eseguito il lavoro a regola d’arte, per valorizzare maggiormente il piazzale, innalzarono di fronte alla porta laterale della chiesa, una colonna ottagonale di arenaria finemente lavorata, sormontata da una croce di ferro.
Successivamente, all’interno della chiesa “L’anno del Signore milleottocentottantanove agli 8 giugno fu fatto il lastrico della chiesa di marmo di Carrara dal signor Garibaldi a lire 8,30 al metro quadrato”, come è annotato nel manoscritto iniziato da don Antonio Rossi ma continuato con appunti a lui successivi.
Dietro l’abside della chiesa, con la facciata su via Fabio Filzi, è la Compagnia, un tempo sede della Confraternita di Santa Croce.
Dal piazzale della chiesa, di fronte all’entrata principale parte il selciato che, seguendo un tratto di via delle Polle, conduce all’Àa da Pinèla (Aia della Pinella), da cui proseguendo verso destra, un’ampia scalinata porta all’Àa der Gròpu (Aia del Groppo), vasta piazzetta dove è sistemata una fontana pubblica, da cui continuando per un breve tratto alla sua sinistra, si trova l’Àa de Capùna, adiacente vecchie abitazioni ormai crollate.
Salendo invece dalla scalinata a sinistra dell’Àa da Pinèla dopo essere passati sotto i porticati di via del Cartellone, si arriva all’incrocio con via della Piazza.

 

Bàle - Si trova sul lato destro del Canàu der Curezöu sino al sentiero che, arrivato al Curezöu prosegue per il Mùnte. Le larghe piane erano coltivate sino a pochi anni fa ed ora sono quasi tutte abbandonate.

 

Còde - Proprio sotto il forte Bramatane, lato Biassa, attraversato dal vecchio e importante sentiero che salendo da Biassa e passando per Casavècia, arrivava allo spaccato del Culétu sul Verrugoli. Còde è famoso per la “frana di Còde”. Nel maggio del 1936 dopo un lungo periodo di pioggia, una grossa frana si staccò da Còde appena sotto il forte Bramatane trascinando nel lontano e sottostante canale di Biassa centinaia di metri cubi di rocce, fango e alberi senza arrecare, per fortuna, gravi danni al territorio e agli abitanti di Biassa.
Non era la prima volta che dal Verrugoli si staccassero frane. Infatti nel manoscritto lasciato da Costantino Rollandi di Manarola e pubblicato dal comune di Riomaggiore a cura di Attilio Casavecchia alla data del 6 novembre 1898 si legge: “Riomaggiore ebbe molto danno; portò via 3 molini. La causa per Riomaggiore fu che sotto il monte della Verrugola scoppiò un gran sbocco d’acqua che fece una grossa frana portando via rocce, alberi di castagno ed altri”.
Còde era coltivato in parte a castagni, mentre al di sotto del sentiero era coltivato a grano e patate.

 

Culétu (Colletto) - Luogo dove confluiscono più strade, posto a 625 metri di altezza. Qui sboccava il sentiero che partendo da Biassa attraversava Còde; attualmente vi transita la strada Telegrafo - Parodi. Dal Culétu parte la strada che conduce al forte Bramapane, quella per il sovrastante monte Verrugoli e quella per la dismessa cava di arenaria Ferrando. Da questa località, attraverso la suggestiva forma a V formata dai due scoscesi lati del monte Santa Croce e dal Monte Parodi, si osserva un inconsueto scorcio del Golfo, mentre alle spalle, attraversato lo spaccato da cui inizia la strada per la cava Ferrando e per il Monte Capri, si gode lo spettacolo incomparabile delle Cinque Terre.

 

Casavècia (Casavecchia) - È probabile fosse uno dei piccoli agglomerati di casolari sparsi sull’antico territorio di Biassa, quali, ad esempio Salegio (Saéciu), Balano (Bàle), Prato (Pràdu), Gropo (Gròpu). Questi sono infatti alcuni dei toponimi con cui si identificano i vici di Biassa e citati già nel 1251, in un documento dell’abbazia di S. Venerio. Casavècia è posta al di sotto di Còde e anche questo luogo è attraversato dallo stesso sentiero che conduce al Parodi.

 

Dàa piàna - Vicino a Biassa, coltivata a orto; nel dopoguerra sono state costruite alcune abitazioni.

 

Muntàu - Collinetta di friabile pietra calcarea color rosso scuro sopra l’Àa Grànde, dove prosperano la gialla ginestra e il timo.

 

Valéta - Piccola porzione soleggiata di terreno di fianco al Muntàu, lato ovest.

 

Ciighèu - Esisteva un’altra antica strada che saliva da Biassa Nuova verso il Parodi. Partiva dall’Àa Grànde, attraversava dapprima il Ciighèu, luogo ricco di acqua e quindi intensamente coltivato, poi la Ciòsa - nota per la coltivazione dei cipollini, indi raggiungeva il Fatùe, nel cui terreno rosso cupo venivano coltivate le vigne d’albarola. La strada saliva attraversando i coltivi sino ad arrivare alla Còla - che con la Còla Vècia, confinava con la chiesa di San Martino Vecchio e con il Paradìsu che era la parte più alta del sentiero dal quale, svalicando, si poteva raggiungere Carpena. Dal Paradiso, il sentiero si immetteva nella vecchia “via dei monti”, che, transitando sul crinale, superava le Cinque Terre per spingersi sino a Ventimiglia e oltre.

 

Balaèu - Salendo verso la Ciòsa è alla sinistra del Ciighèu. Anche questa è una località dove l’abbondanza di acqua ha sempre favorito buoni raccolti.

 

Àa Grànde - L’etimo indica chiaramente un’aia spaziosa: vi si trovava una fontana pubblica con acqua proveniente dalla Ciòsa a cui attingevano tutte le famiglie della Còsta e del Deghiùn, dato che sino a qualche anno dopo la fine della guerra non esistevano famiglie di Biassa che avessero l’acqua corrente in casa.

 

Vìa Növa (Via Nuova) - Sino ad alcuni anni dopo la guerra, il transito di questa strada era proibito ai mezzi non autorizzati che volevano recarsi ai forti militari. Per impedirne il transito, sull’Àa Grànde, che si apriva all’inizio della via, erano infisse due pesanti colonne di arenaria con una catena.

 

Còsta - Importante rione sovrastante le attuali scuole elementari, ben esposto al sole; qui era uso per la gente di Biassa- nelle belle giornate d’inverno - recarsi per scaldarsi al tiepido sole.

 

Deghiùn - È il versante della Còsta, che vede sorgere il sole e che al pomeriggio delle giornate estive diventava il luogo di ritrovo e di chiacchiere della gente della Costa, che veniva quì a “piàe ‘r frescu”.

 

Fussadèu - Orti vicini alla scuola, attraversati da un sentiero, ‘r viaöu der fussadèu che dalla scuola porta al Gròpu, vecchio rione interno al paese.

 

Custèu (Costella) - Dal Saéciu parte il sentiero per la Piàza. Il Custèu è formato dal gruppetto di case che si affacciano sul panorama della Spezia e del bosco di castagni poco distante.

 

Làgu (Lago)- I campi abbandonati e i castagneti in margine al Canàu da Piàza, prendono il nome di Làgu in considerazione dell’abbondanza di acqua che portava questo canale e che formava numerosi bòzi (laghetti).

 

Bòzu di sète funtanèi (Laghetto delle sette sorgenti) - Nella località Làgu, lungo il Canàu da Piàza, si formava un laghetto alimentato da sette sorgenti. Era un richiamo per i ragazzi che in estate si recavano a bagnarsi in quell’acqua gelida. Oggi le sorgenti sono scomparse.

 

Capustàbile (Capostabile) - Il toponimo si riferisce a una torretta quadrata a due piani di cui ancora restano le rovine. È situata lungo il sentiero che dal Custèu scende alla Begaìna. Come i due mulini poco distanti è di proprietà della famiglia Rossi, eredi di Pio Nono. Intorno al 1870, durante la costruzione della galleria ferroviaria Pegazzano - Riomaggiore, denominata “galleria Biassa”, al piano basso di questa piccola costruzione erano sistemati i motori degli argani usati per il sollevamento della terra nella costruzione di uno degli sfiatatoi della galleria. Con la terra di risulta si era ottenuta una estesa piana, nota come ‘r pianùn di Rossi. Purtroppo, a causa di calcoli errati, l’incontro della galleria verticale (sfiatatoio) con la galleria ferroviaria, in quel punto, non è mai avvenuto…!

 

Dài muìn (Dai mulini)- L’abbondanza di acqua delle sorgenti di Biassa ha sempre alimentato numerosi mulini, dislocati lungo il canale di Biassa, iniziando dalla località Pràdu. Il loro abbandono fu determinato dallo scavo della galleria Biassa, per la costruzione della linea ferroviaria La Spezia - Sestri Levante inaugurata nel 1874, che deviò da Biassa gran parte dell’acqua.
Antonio Rossi (sopranominato Pio Nono) fece causa alla Società costruttrice della galleria ferroviaria per il mancato funzionamento dei mulini e fu risarcito con 6.000 lire. In un manoscritto, don Antonio Rossi, nativo di Biassa ma rettore a Pegazzano e avo di Pio Nono, annota che il loro mulino aveva iniziato a macinare il 21 gennaio 1798 e a frangere il 21 gennaio 1808.

 

Saéciu (l’antico Salegio ora Sarecchio) - È il gruppo di case attorno alla carrozzabile (via Filzi) che dopo l’ampia curva (du Saéciu), si arriva dàe scöe (dalle scuole). Le scuole elementari erano costituite da un grande edificio con immense aule che ospitavano la numerosa prole dei biassei di un tempo. Furono ristrutturate nel 1925 ampliando le già esistenti costruite nel 1904 ma pochi anni fa sono state chiuse per mancanza di alunni. Oggi una nuova ristrutturazione le ha trasformate in un ostello per i giovani. Oltrepassata la piazza delle scuole si raggiunge il Gòbu, altro gruppo di case da cui si può ammirare il golfo della Spezia e si ha un gradevole colpo d’occhio su Biassa.

 

Dàu Lanpiùn (dal lampione) - È un toponimo comune a Biassa: sta ad indicare il luogo dove - precedentemente all’installazione della luce elettrica - si trovava un lampione per rischiarare i luoghi più frequentati.

 

Paròdi - È il monte sulla cui sommità è stato costruito un grande forte a difesa della città militare, mantenuto in attività sino alla fine della guerra. La costruzione dei forti sulle alture del golfo avevano dato lavoro, durante la guerra, a molti scalpellini locali. Le loro opere si potevano notare negli rifiniture degli acquartieramenti militari, nei pavimenti in lastre squadrate di calcare, scalpellinate “di fino”, negli intarsi e incastri realizzati nell’arenaria degli stipiti delle porte. Dalla fine della guerra ad oggi tutte queste testimonianze di maestrìa artigiana sono quasi scomparse; la causa dipende in parte dalle distruzioni provocate dalle esercitazioni militari, in parte dall’ asportazione indebita del materiale lapideo per abbellire case private. Ciò che non è stato possibile asportare è l’incomparabile bellezza che lo sguardo abbraccia nella sua maestosità: il golfo, le Alpi Apuane, le vallate, i corsi d’acqua.

 

Gòri - Antica osteria sul Monte Parodi, dapprima, durante la guerra, situata nei pressi dell’abetaia, poi in località Paradìsu, dove scendeva il sentiero per Biassa.

 

Abetàia - Nel 1894 fu sperimentata la piantagione di abeti nei pressi delle Cà rùsse di proprietà demaniale, ora sede delle colone estive comunali, sul Monte Parodi. L’attecchimento della specie vegetale ebbe un tale successo, che ancor oggi si può ammirare e godere della bellezza e del rigoglio di queste piante.

 

Canaùn (Canalone) - È il canale formatosi nel versante di Biassa del Monte Parodi, all’altezza della Pianèla. Canale profondo e scuro per l’intensa ombra delle piante. Durante la guerra, qualche fortezza volante lasciò per sbaglio il suo carico di morte in quel luogo. Durante gli incendi del dopoguerra, numerosi furono gli scoppi uditi da Biassa provenienti dai boschi in fiamme.

 

Mùnte Biàssa o Castelàna de Biàssa - Un po´ più in basso del Monte Parodi si trova il Monte Biassa i cui versanti boscosi, purtroppo più volte incendiati, accolgono varietà di pini e - più in basso - il luogo denominato Redemé.

 

Pianèla - La zona era un tempo ricca di enormi pini. Gli incendi e il progredire delle acacie ha fatto di questo territorio una zona selvaggia e cespugliosa. Dal Monte Parodi scendono bellissime scalinate costruite in bozze di calcare sepolte dai cespugli che raggiungono la Pianèla nel suo pianeggiante sentiero che da una parte conduce alle alture della Foce e dall’altra scende alla Ciòsa di Biassa.

 

Ròche da Maiùna (Rocce della Mariona) - Guardando la montagna del Parodi dal borgo di Biassa, alla sinistra del Canaùn si trova questo toponimo che indica un luogo roccioso di proprietà della Maiùna, una delle antiche donne di Biassa e nelle cui vicinanze è la Còsta di Canèi, sito dove il ceduo di castagno raggiungeva un tempo altezze considerevoli.

 

Piàza - È il versante del Monte Parodi al di sotto della Pianèla. Alla sua destra confina con il Canàu da Piàza, il cui terreno vicino era coltivato ed era chiamato Buzùn, perchè si trovava in prossimità dei grossi ristagni di acqua che si formavano dopo piogge particolarmente abbondanti, che facevano “avviare” il canale. Alla sua destra, confinante con Redemé era la Còsta da Piàza che con le sue rocce bianche emergenti segnava il confine con Redemé. A sua volta la Piàza, si divideva in tre località: Piàza d’usèu, in alto ai confini con la Pianèla; Piàza survàna, situata sopra il sentiero che longitudinalmente attraversava tutta la Piàza e che portava alla Foce; Piàza sutàna che dal sentiero scendeva sino al canale sottostante della Piàza, nei pressi di Làgu.

 

Redemé - Alle falde del monte Biassa, località soleggiata con un terreno sciolto e pietroso simile a quello di Tramonti, per cui oltre al grano che qui maturava presto era coltivata pure la vite il cui frutto rivaleggiava con quello di Tramonti. Nella zona più pianeggiante, sopra il sentiero che da Biassa raggiungeva il Vignale, vi era un gruppo di piccole case, costruite a somiglianza di quelle di Tramonti.

 

Redemé sutàn - Dal sentiero sopracitato, i campi scendevano verso le Fornaci ed erano attraversati da una ripida scalinata.

 

Ruchéte - Tratto del sentiero verticale che dalla Còsta da Piàza immetteva in Redemé. Piccoli campi vignati e bianche rocce calcaree che affiorano tra la terra rossa.

 

Cumiàgu - Ombrosa località sita al di sopra del sentiero di Redemé e confinante da un lato con le Ruchéte e dall’altro con il canale di Redemé. In alto il sentiero che dalla Pianèla porta alle alture della Foce. Tra questi confini, all’esteso bosco di castagni, era stata strappata in tempi non recenti, una vasta zona destinata alla coltivazione di grano e patate.

 

Tramùnti (Tramonti) - Con questo nome si indica il territorio nel comune della Spezia che inizia al Canàu de Perazzìna (Fosso della Parassina), al confine con Riomaggiore e termina all’Albana, che confina con Porto Venere. Gli agglomerati più consistenti formati dalle cosiddette “cantine”, un tempo di proprietà esclusiva della gente di Biassa e Campiglia, sono: Fòssua (Fossola), Munestaöi (Monesteroli), Schiàa (Schiara), Navùn (Navone), Pèrsegu (Persico).
Tra-monti, “di là da’ monti” come è scritto negli atti notarili sino alla fine del 1800. Non è raro, negli stessi documenti, trovare indicata Biassa “di qua da’ monti” unendo così le due località in un’unica entità separata da un confine riconosciuto e riconoscibile da tutti.

Nella vecchia cartografia, Tramonti era indicato come “Ville di Biassa”; questo luogo è stato per secoli fonte di vita per i Biassei. Lì la gente aveva le “cantine” che, oltre alla propria comune funzione, servivano anche come ricovero nella stagione della lavorazione nei vigneti. L’uva da tavola e il vino che vi producevano erano la maggiore risorsa economica. Nel 1905, nel suo studio su I viticultori di Tramonti, Giovanni Sittoni, stimava in duemila ettolitri di vino la produzione ottenuta dai terreni di Tramonti di Biassa e milletrecento ettolitri quella di Tramonti di Campiglia mentre le famiglie occupate risultavano essere, rispettivamente, 160 e 90.
Le proprietà dei biassèi sul versante a mare comprendevano, oltre a Fossola, anche Monesteroli, Schiara e gran parte dei terreni e delle cantine poste al di sotto Campiglia e cioè Persico e Navone, sconfinando anche, nella parte opposta, nel territorio del comune di Riomaggiore, dove avevano case e poderi a Campi e alla Pineda.
Nei lunghi soggiorni a Tramonti, per adempiere alle cure religiose, la gente del posto aveva costruito dei piccoli oratori come quello di Schiara, dedicato a sant’Antonio da Padova (13 giugno); quello di Monesteroli doveva essere consacrato a S. Pantaleone (S. Pantelè) ma per contrasti sorti fra i proprietari dei terreni su cui doveva sorgere l’edificio, non se ne fece nulla. La storia della piccola chiesa della Fossola, intitolata all’Angelo Custode (2 ottobre) ce la racconta invece don Antonio Rossi (1759 - 1835) in un manoscritto:

Del 1805 27 Settembre per Decreto di Monsignore Giulio Cesare Pallavicino vescovo di Sarzana, il Reverendo Don Antonio Rossi d’Andrea Sacerdote di Biassa Rettore di Pegazzano ha benedetto l’Oratorio sotto il titolo dell’Angelo Custode (forse per errore di Sarzana sotto il titolo di Gesù nell’orto come si vede dal rescritto favorevole di benedire detto Oratorio) quale fu benedetto in sudetto giorno e vi cantò la messa”.

 
Copia del decreto di Fondazione:

Illustrissimo e Reverendissimo Monsignore

Più di cinquanta famiglie di Biassa nei mesi di Settembre, Ottobre, Gennaio e Febbraio abitano di là da monti nel quartiere della Fossola e sue adiacenze, luoghi di mare posti nel distretto di detta Parrocchia al fine di coltivare i loro terreni, introitare, ed esitare i prodotti.

Ora li medesimi riverenti oratori desiderando il comodo di sentire in detti tempi almeno nei dì festivi di precetto la S. Messa, supplicano l’innata bontà di Vostra Illustrissima e reverendissima del ben dovuto permesso ed intesa facoltà di costruirsi al detto oggetto un oratorio ossia cappella in luogo decente sotto il titolo del S. Angelo Custode, o come meglio. Il che come giusto sperano di ottenere da Vostra Illustrissima e Reverendissima la detta grazia.

 

Oggi Tramonti è cambiato: molti vigneti sono stati abbandonati e le vecchie cantine in parte acquisite dai forestieri che le hanno destinate a residenza per le vacanze. Un tempo non lontano, soltanto nel 1955, il pittore Renato Birolli, milanese ma amante delle Cinque Terre, definì Tramonti “Patagonia a sud delle Cinqueterre” tanto sembrò a lui di una bellezza selvaggia questo territorio e dura la vita degli uomini che vi abitavano.

 

 

VERSANTE TRAMONTI (TRAMÙNTI)

ZONA SCHIARA (SCHIÀA)

Castèu

Crùse de Schiàa o Pòsa

Maupàssu

Véu

Paradìsu de Véu

Casòti de Véu

Ciàn de Véu

Crùse de Nasèca

Rüta

Lavasöu

Zzèri

Ròca der mùnte

Vignöi

Ròca de Vignöi

Sc-ciànca

Pòza

Canpudònegu

Cìan der Canpudònegu

Nuzzàn

Funtàna de Nuzzàn

Canàu de Nuzzàn

Castàgni de Nuzzàn

Agréta

Buiùn

Laméta

Michéu

Fùndega

Rebòlu

Cantunèu

Cantùn

Ciàza di Cantùn

Lizzadèu

Zzése

Güzzerné

Còsta da Gaiàda

Gaiàda

Ròca da Gaiàda

Lavasöu

Préde

Fundeghéta

Burdàiu

Làma du Scàu

Scàu

Schiàa

Schiaéta

Santantunìn

Còsta

Zziburèi

Scàu de Bertàn

Ciazzéta

Aenèlu

Calànte

Luvàu

Canàu du luvàu

Scaìnciu

Strìa

Növu

Lìzze

Lànza

Canàu de Canpanèla

Canaàzzu

Custèla de nàche

Bèlavìta

Butàu

Calanòta

Francanése

Custèla

Löghétu

Pùzza grànde

Scòiu de Ciatìna

Pünta

Canàe

Àiga dùze

Scàu vèciu

Bechéti

Càva de Picùlu

Mèzu scàu

Scòiu da baléna

Picuzzìn

Galée

Scòiu de Bagnéta

Scòiu der pìn

 

 

VERSANTE TRAMONTI (TRAMÙNTI)

ZONA DI MONESTEROLI (MUNESTAÖI)

Caròpi

Puséte

Pitùn

Gaitaöa

Rùncu

Rebùi

Canàu du Rùncu o de Rebùi

Puzài

Pèzzu

Canàu der pèzzu

Cà vècie

Sùrchi

Custèla de uìve

Uìve

Aéna

Naché

Ciàza du Naché

Pùla du Naché

Sàn Pantelé

Cà da Ciupìna

Cà de Vèli o du Sargu

Predaèle

Püntàzza

Lögu

Valéta

Fundeghéta

Predaòtu

Dàu sèuzu

Muntunàu

Ròca der Muntunàu

Galerìa der Muntunàu

Casòtu der Bràica

Pünta

Scòiu da Ninìna

 

 

VERSANTE TRAMONTI (TRAMÙNTI)

ZONA DI FOSSOLA (FÒSSUA)

Dàa lìzza

Via stòrta

Büti

Fùndega de Büti

Ciàn de Büti

Custelìn

Cravaézza

Nuséciu

Canàu de Nuséciu

Lumenàdi

Làma

Làma sutàna

Ruchéte

Custèla

Cravìu

Casòti

Tuétu

Bàuzu

Ganbàzza

Cùnca

Scàu da Fòssua

Àiga fréda

Pascaòta

Magadàgnu

Còste

Cuunbàa

Custiöa

Làma scrösa

Bernardèla

Pèzzi vèci

Dàa crùse

Perazzìna

Canaéta

Bisùn

Merlìn

Ròca der Merlìn

Spelàdu

Landàn

Grimàudu

Capèu da préte

Bucunétu

Scòiu de Gianmàia

Mainèlu

Ciapédu

Scàu vèciu

Spedalée

Bùcua

Àngelu custòdiu

Fòssua sutàna

Pünta de Manuèlu

Làma di Bùzzi

Pinèlu

Fratàzza

 

 

 

Due parole dell’Autore

 

Questa è una raccolta di voci: la memoria dei vecchi nell’epoca dei software, delle immagini che dopo un lungo viaggio percorso in un tempo brevissimo, arrivano ai nostri occhi su appositi schermi che impoveriscono la fantasia, adattata a immagini scelte da altri.

Un tempo la memoria era la linfa essenziale alla quale attingevano i giovani per affrontare la vita. Il proverbio raccoglieva l’esperienza dei molti anni vissuti, le massime popolari descrivevano con poche parole, spesso con ironia, il modo a cui ci si doveva uniformare per vivere in quel tempo ma molte di esse continuano ad essere attuali anche adesso.

Biassa, paese contadino e chiuso, teneva in gran conto gli usi del passato e ignorava il progresso. Le medicine erano inutili: si ritenevano sufficienti gli infusi di erbe o le fatture. Il primo medico che prestò servizio a Biassa in modo continuativo dal primo giorno di luglio del 1890 fu il dott. Luigi Spezia, giunto in paese a seguito di un “patto di abbonamento” stipulato con quaranta capifamiglia suddivisi in 1°, 2° e 3° categoria, i quali si erano imposti di pagare, secondo la categoria, 20, 16 o 12 lire. Il dottore, da parte sua, si impegnava a recarsi a Biassa due volte la settimana, e pernottarvi, per assistere eventuali ammalati abbonati.

Una parte delle cose raccontate in questo libro le avevo più volte ascoltate da mia nonna Netina, perché, maggiore di età di mio fratello e di mia sorella, avevo modo di riascoltarle ogni volta che lei le ripeteva a loro. Altre me le hanno raccontate gli anziani a cui mi sono rivolto per ascoltare la “voce della memoria”, che era stata trasmessa loro da una “memoria” più antica e così via.

I testimoni a cui appartengono le voci di questo volume e che hanno vissuto in quell’epoca, contrappongono ai ricordi di allora il tempo di oggi ma, secondo il loro modo di vedere, i video-games dei giovani e i cartoons con le violente battaglie stellari imposte ai bimbi attraverso la televisione, non possono reggere il confronto con il loro passato, semplice e genuino. Raccontano gli anni della loro gioventù, episodi e aneddoti lontani con lo sforzo di tirare fuori dalla memoria impigrita le ninne nanne della loro infanzia, i motteggi dell’adolescenza e le canzoni della gioventù.

Le donne hanno ricordato in particolare il tempo in cui giovani del paese, divisi in due gruppi, cantavano “i dispetti”. Si rilanciavano l’uno e l’altro, pungenti stornelli, talvolta improvvisati al momento, aventi per oggetto la fanciulla corteggiata da uno di loro. Ed erano ancora le donne le depositarie delle ninne nanne, delle favole, perché spettava loro allevare i neonati che, imprigionati e frignanti in strette fasciature, avevano bisogno di essere consolati dalla rassicurante voce della mamma. E poi, grandicelli, dalle favole.

La lingua usata era il dialetto, oggi impoverito per la perdita dei molti oggetti non più in uso e per la sopravvenuta consuetudine di esprimersi in lingua italiana. Le persone che mi hanno aiutato in questo lavoro sono ancora custodi (forse gli ultimi) delle vecchie tradizioni, della parlata e della conoscenza delle storie del nostro antico paese. Bruno Sommovigo, nato nel 1912 (e purtroppo mancato qualche tempo fa) aveva memoria lucida e carattere metodico e pacato: mi ha narrato fatti accaduti a Biassa fino dal 1921 con ricchezza di particolari ancora ben chiari nella sua mente. Ideale Gianardi, “quasi” maestro, classe 1922, da un luogo privilegiato, la bottega, ha raccolto molto materiale al quale ho potuto attingere. Nei ritagli di tempo che gli lasciava libero la sua attività, ha svolto una ricerca approfondita sul dialetto biasséo raccogliendo in un ricco e preciso vocabolario ancora inedito oltre tremila vocaboli. Maria Scaglione, altra fonte preziosa di antiche tradizioni, nata nel 1912, ben rappresenta anche il simbolo della donna biasséa, forte e coraggiosa: rimasta vedova a 23 anni si è dedicata ai lavori dei campi a Tramonti sino all’età di 85 anni, poi si è ritirata… per sopraggiunti dolori reumatici.

Ma ho ricevuto aiuto da molti altri biassèi che incalzati dalle mie domande hanno rievocato ricordi sepolti da anni, come Ada Natale che, oltre ai ricordi che più mi interessavano, riguardanti Biassa, mi ha recitato poesie imparate alle elementari nei primi anni del 1920 (Ada è del 1914); e ancora Fernanda Bertano, una cordiale “signorina” del 1921 che con immutata vivacità ha intonato canzoni in biassèo, imparate dai genitori.

 


Folclore Biassèo

 

Pentin

Pentin i spazzeva ‘r camin

e i trövete ‘n catrin.

Aua, i disete, cu a me ghe catu?

S’a ghe catu i fighi sechi

me tuca bötaghe i picùli;

s’a me ghe catu e nuse

a ghe devu bötae a güssa;

s’a me ghe catu i pumi

a ghe devu bötae u rusiùn.

Dopu tantu pensae i decidete:

a me ghe cateò i fighi sechi

e a mangeò picùlu e tütu…

 

 

Pentin

Pentinpuliva il camino

e trovò un soldo.

Adesso, disse, cosa ci compro?

Se ci compro i fichi secchi

devo buttare il picciòlo;

se compro le noci

devo buttare la buccia;

se compro le mele

devo buttare il torsolo.

Dopo tanto pensare decise:

mi comprerò i fichi secchi

e mangerò picciòlo e tutto…

 

 

 

La volpe e il lupo

Raccontava la nonna: la volpe e il lupo erano molto assetati, ma il pozzo era ad un livello basso. Decisero perciò di calarsi uno alla volta, trattenuto dall’altro per la coda. Arrivata al livello giusto la volpe bevve e tornò al suo posto.

Si calò il lupo, trattenuto per la coda dalla volpe. Raggiunta l’acqua il lupo disse: “Cumae, a lapu (Comare, bevo)”. E la volpe pronta: “Cunpae, pe’ la cua a ve lassu (Compare, per la coda vi lascio)”. E se ne andò mentre il lupo precipitava nel pozzo.

 

 

Sui Gianardi

Dei componenti della famiglia Gianardi, cognome molto diffuso a Biassa, si racconta che, nel passato, dopo la morte, venivano scrollati per tre volte, per avere la certezza che fossero veramente morti.

Nello “sfottò” paesano avevano inventato questa canzonetta:

 

E purtelu bassu bassu

che e rame la ne lu ciapu,

ch’i ne faga da chel’anu

ch’i è remasu tacà ar castagnu.

 

Portatelo basso basso

che i rami non l’acchiappino,

che non faccia da quell’anno

che è rimasto appeso al castagno.

 

(Nel trasportare la salma al cimitero).

 

 

 

 

A stoia de ma zeia veceta

L’ea de Carlevà

i raviöi i vureva fà.

S’te vöi fae i raviöi

va a zercae cuse ghe vö.

I s’è missu a caminae

e ben prestu a galupae.

Candu i è stà ‘n zima àa ligia

schiaghe ‘r pé e vatelu a pigia.

I se n’è andà drentu a ‘n fossu

tütu crövertu de merda adossu.

I è passa ‘n tre na via streta

e i à persu a se bereta.

La l’à trövà se zeia veceta.

I è andà da se zeia veceta

 che la ghe daga a se bereta,

a bereta la ne ghe vö dae

se ‘r pan i ne ghe và a piae.

- Dunde a vagu per pan?

- Te vai ar furnu.

- Furnu, dame der pan.

- A ne te dagu de pan

se n’ te me dai a pasta.

- Dunde a vagu per pasta?

- Va daa mastra.

- Mastra, dame a pasta.

- A ne te dagu de paste

se n’ te me dai a faina.

- Dunde a vagu per faina?

- Và ar muin.

- Muin, dame a faina.

- A ne te dagu de faina

se ne te me dai de gran.

- Dunde a vagu per gran?

- Te vai ar canpu.

- Canpu, dame ‘r gran.

- A ne te dagu de gran

se ‘n te me dai de ledame.

- Dunde a vagu per ledame?

- Và dar porcu.

- Porcu, dame u ledame.

- A ne te dagu de ledame

se ne te me dai e giande.

- Dunde a vagu per giande?

- Và au zèru.

- Zèru, dame e giande.

- A ne te dagu de giande

se ne te me dai er ventu.

- Dunde a vagu per ventu?

- Và ar mae.

Er mae i me dete ‘r ventu, ‘r ventu a lu purtei au zèru. U zèru i me dete e giande, e giande a le purtei ar porcu. Er porcu i me dete u ledame, u ledame a lu purtei ar canpu. Er canpu i me dete ‘r gran, ‘r gran a lu purtei ar muin. Er muin i me dete a faina, a faina a la purtei aa mastra. A mastra la me dete a pasta, a pasta a la purtei ar furnu. Er furnu i me dete ‘r pan, ‘r pan a lu purtei aa zeia veceta, che la me dete a me bereta.

 

 

 

La storia di mia zia vecchia

Era di carnevale

i ravioli voleva fare.

Se vuoi fare i ravioli

vai a cercare l’occorrente.

Si mise a camminare

e ben presto a galoppare.

Quando arrivò in cima alla frana

gli scivolò un piede e vattelo a pigliare.

È finito dentro ad un fosso

e si è coperto di merda addosso.

È passato in una strada stretta

dove ha perso la sua berretta.

L’ha trovata sua zia vecchietta.

Andò dalla zia vecchietta

che gli desse la sua berretta,

la berretta non gliela vuole dare

se non gli porta il pane.

- Dove vado per pane?

- Vai al forno.

- Forno, dammi il pane.

- Non ti dò il pane

se non mi dai la pasta.

- Dove vado per pasta?

- Vai dalla mastra.

- Mastra, dammi la pasta.

- Non ti dò pasta

se non mi dai farina.

- Dove vado per farina?

- Vai al mulino.

- Mulino, dammi la farina.

- Non ti dò farina

se non mi dai grano.

- Dove vado per grano?

- Vai al campo.

- Campo, dammi grano.

- Non ti dò grano

se non mi dai letame.

- Dove vado per letame?

- Vai dal porco.

- Porco, dammi il letame.

- Non ti dò letame

se non mi dai ghiande.

- Dove vado per ghiande?

- Vai al cerro.

- Cerro, dammi le ghiande.

- Non ti dò ghiande

se non mi dai vento.

- Dove vado per vento?

- Vai dal mare.

Il mare mi diede il vento, il vento portai al cerro. Il cerro mi diede le ghiande, le ghiande portai al porco. Il porco mi diede letame, il letame portai al campo. Il campo mi diede il grano, il grano portai al mulino. Il mulino mi diede la farina, la farina portai alla mastra. La mastra mi diede la pasta, la pasta portai al forno. Il forno mi diede il pane, il pane lo portai a mia zia vecchietta, che mi diede la berretta.

 

 

 

Canzoni

Gli adulti le cantavano ai piccoli tenendoli sulle ginocchia e facendoli dondolare.

 

Chesta ganba la ven da Ruma

se la ghe turna la se vergugna;

chesta ganba la ven de ‘n Spagna

se la ghe turna la se bagna.

 

Questa gamba viene da Roma

se ci ritorna si vergogna

questa gamba viene dalla Spagna

se ci ritorna si bagna.

 

 

Carlevà i è ‘n bèl’umetu

i à e corne cume ‘n becu

i à i oci chi strapana

Carlevà i và ‘n tra tana.

 

Carnevale è un bell’ometto

ha le corna come un becco

ha gli occhi che bucano

Carnevale va nella tana.

 

 

Oppure:

Carlevà i è ‘n bèl’umetu

i à dui oci chi strapana

ma siben chi sia vecetu

i sauta là cume na rana.

 

Carnevale è un bell’ometto

ha due occhi che bucano

ma sebbene sia un vecchietto

salta là come una rana.

 

 

La neva, la ciöva

a faemu na cà növa

de ciungiu, de brunzu,

de merda de cuunbu.

 

Nevica, piove

costruiremo una casa nuova

di piombo, di bronzo,

di merda di colombo.

 

 

Duman l’è fèsta

‘r prete i se vèsta

i beva ‘n tre ‘n bucale

viva, viva carnevale.

A vagu de sutu

a fagu a facenda

a tiu a tenda

e poi me ne vò.

 

Domani è festa

il prete si veste

beve in un boccale

viva, viva carnevale.

Vado di sotto

faccio la faccenda

tiro la tenda

e poi me ne vado.

 

 

Baanzèa d’ou

che pesa ciù ca l’ou

ou e argentu

che pesa ciù de zentu…

 

Paranza d’oro

che pesa più dell’oro

oro e argento

che pesa più di cento…

 

 

Vöga vöga a vögagna

andeemu ‘nfina ‘n Spagna

e de ‘n Spagna e de ‘n spagnöu

‘n tre l’ortu de l’Andreiöu.

Andreiöu i ne ghe trovò

zinchezentu i n’ amazò

senza dane mancu ‘n po´

sulu i me dete n’ussiöu

per purtae ar me cagnöu.

Er cagnöu i fà bau bau

a cutèla atacà ar pau

e er pau atacà ar cüu

Vatelo a piae coozù ‘n tru müu.

 

Voga voga la vogagna

andremo sino in Spagna

e di Spagna e di spagnolo

dentro l’orto di Andreolo.

Andreolo ci trovò

cinquecento ne ammazzò

senza darne nemmeno un po’

solo mi diede un ossicino

da portare al mio cagnolino.

Il cagnolino fa bau bau

la coltella attaccata al gancio

e il gancio attaccato al culo

vattelo a prendere laggiù nel muro.

 

 

E l’anziano, serio, recitava:

Giüsepe Zanbotu

‘n tren curpu

i ‘n mazete vintotu…

 

I bimbi con gli occhi spalancati, pensavano atterriti a chissà quali delitti.

Ma erano solo… mosche.

 

 

Indovinelli

Tra mèzu a dua muntagne

passa ‘n cavalier cantandu.

I è ‘r petu.

 

In mezzo a due montagne

passa un cavaliere cantando.

È il peto.

 

 

A ne vagu a lètu cuntentu

s’à ne ghe lu metu ‘n parmu drentu.

I è ‘r paletu.

 

Non vado a letto contento

se non glielo metto un palmo dentro.

È il chiavistello.

 

 

Gh’è na cosa tra dua stanghe,

che la se meta tramèzu ae ganbe;

la se mia a se feìpa

se la l’à storta o se la l’à drita.

L’è a canpana.
 

C’è una cosa tra due stanghe

che si mette in mezzo alle gambe;

si guarda la sua feìpa (?)

se ce l’ha storta o se l’ha dritta.

È la campana.

 

 

N ser munte gh’è Micheu

i à na ganba senza peu,

i à ‘r capèu, n’omu i ne l’è,

‘nduvina cus’i è.

I è ‘r fünzu.

 

Sul monte c’è Michele

ha una gamba senza pelo

ha il cappello, ma uomo non è

indovina che cos’è.

È il fungo.

 

 

‘N cestin de giancaìa,

i và denanzi a chi che sia,

i và denanzi a prenzepi e re

l’è roba de cüu ma merda la n’è.

I è ‘n cestin de övi.

 

Un cestino di bancheria,

va dinanzi a chicchessia,

va dinanzi a principi e re

roba è di culo ma merda non è.

È un cesto di uova.

 

 

‘N ser munte de Lìfete e Lòfete

la ghe canta merlin e merlòfete

i g’à a ganba verdulina

‘ntenditor che l’anduvina.

I è ‘r merlu.

 

Sul monte di Lìfete e Lòfete

ci canta merlin e merlòfete

ha la zampa verdolina

intenditor chi lo indovina.

È il merlo.

 

 

Quando la pratica diventa…sapere.

Candu ciöva se gadagna de ciù

a durmie ca andae ‘n tre tère.

 

Quando piove si guadagna di più

a dormire che di andare (1) nelle terre.

 

(1) a lavorare

 

 

L’arelöiu der canpanin

i dà a sveia ar matin.

 

L’orologio del campanile

dà la sveglia al mattino.

 

 

La vaa ciü n’ua de matin

ca tütu u restu du giurnu.

 

Vale più un’ora del mattino (1)

che tutto il resto della giornata.

 

(1) per il lavoro nei campi

 

 

A burasca de matin la fa vegnie u seenìn.

 

La burrasca del mattino fa venire il sereno.

 

 

A brinada la n’è busarda:

la ciama senpre o neve o aiga.

 

La brina non è bugiarda:

chiama sempre neve o acqua.

 

(Si dice quando d’inverno si vedono i campi di

Biassa bianchi di brina).

 

 

Candu canta ‘r cücu

l’è bun stalu dapertütu.

 

Quando canta il cuculo

si sta bene dappertutto.

 

(È già tempo di primavera).

 

 

Candu tuca a caanténa

ogni anu i porta pena.

 

Quando arriva la quarantina

ogni anno in più porta ulteriori acciacchi.

 

 

Che vö vede u tenpu fin

maistrale aa sea e levantu aa matin.

 

Chi vuol vedere il tempo fine vento di

maestrale alla sera e di levante al mattino.

 

 

Che g’à ‘n bèu zocu i se lu lassa de marzu.

 

Chi ha un bel ciocco (1) se lo lasci per marzo (2).

 

(1) per il caminetto

(2) Marzo è imprevedibile…!

 

 

Marzu cagarzu fiu de ‘n cagadue te fai

paüa ai povei e anca ciù ai pastue.

 

Marzo “cagarzo” figlio di un cacatoio fai

paura ai poveri e ancor di più ai pastori.

 

(Questo mese con la sua incostanza, è fonte di freddo e miseria, sia per la improvvisa rigidità del clima che per le piogge. Inoltre, narrano le favole, si fece prestare cinque giorni da aprile, durante i quali, con diluvi e gelo, sterminò le greggi).

 

 

Se marzu i ne marzeia,

avriu i marpenseia.

 

Se marzo non fa i capricci,

aprile fa pensare male.

 (Se marzo è calmo c’è da preoccuparsi per aprile).

 

 

Marzu, chi ne pö andae cauzà,

vaga descauzu.

Che ghe n’à sulu ‘n pau, se ‘n cata n’autru.

 

Marzo, chi non può camminare calzato, vada scalzo.

Chi ne ha soltanto un paio (1) se ne compri un altro.

 

(1) di scarpe

(È riferito sempre all’incostanza di marzo).

 

 

Nì de mazu, nì de mazun

ne te levae u te gipun.

 

Nè di maggio (1), nè di “maggione” (2)

non ti togliere il tuo giaccone.

 

(1) inizio

(2) inoltrato

(Anche a maggio il freddo è sempre in agguato).

 

 

Er fögu i è bun treze mesi l’anu.

 

Il fuoco è buono tredici mesi l’anno.

 

 

Nadau ‘n tru tizzun Pasca ‘n se ‘r barcun.

 

Natale nel tizzone (1) Pasqua alla finestra.

 

(1) accanto al fuoco

 

 

Nadau senza neve i ne vaa na grana de pévee.

 

Natale senza neve non vale un grano di pepe.

 

 

Per S. Andrea ‘r fredu i spaca a prea.

 

Per S. Andrea (1) il freddo spacca la pietra.

 

(1)   30 Novembre

 

 

Frevau cürtu i è pèzu ca ‘n türcu.

 

Febbraio corto è peggio di un turco.

(È il mese più freddo dell’anno).

 

 

S. Martin i leva musche e muscuin.

 

S. Martino toglie (1) mosche e moscerini.

 

(1) col freddo

 

 

Santa Cataina forte stela la ne pö stae

se ne se rasseéna.

 

Santa Caterina forte stella (1) non può stare se non si rasserena.

 

(1) il tempo

 

 

Per S. Luenzu l’à fatu a tenpu,

per San Rocu l’è stà tropu.

 

Per (1) San Lorenzo (2) ha fatto in tempo,

per San Rocco (3) è stata troppo.

 

(1) la pioggia

(2) 10 agosto

(3) 16 agosto

(In ritardo per riparare i danni della siccità).

 

 

A pusae la n’è vergugna

staghe tropu ne bisugna.

 

Posare (1) non è vergogna,

però non bisogna starci troppo.

 

(1) un carico

 

 

Che g’à ciù beu lin fa buna tea.

 

Chi ha il lino migliore fa buona tela.

 

 

Che g’à ‘n bèu zocu i à ‘n bèu malocu.

 

Chi ha un bel ciocco ha un bel mucchietto.

 
(Se c’è l’accortezza di fare scorta di legna per l’inverno vi è sicuramente la possibilità che in quella casa si risparmi qualche cosa).

 

 

Che n’à tèsta i à ganbe.

 

Chi non ha testa ha gambe.

 

(Per tornare a recuperare ciò che ha dimenticato).

 

 

Cosa che ne pö esse ‘n te la crede.

 

Cosa che non può essere non te la credere.

 

 

L’èn messe ite e vèspei cantà.

 

Son messe dette e vesperi cantati.

 

(Son cose ormai passate).

 

 

Libertà de cà sua la ghe scorla

‘r cüu e a cua.

 

La libertà (1) nella propria casa fa agitare il culo e la coda.

 

(1) che si ha

(È bello scodinzolare quando si è liberi in casa propria).

 

 

Nfina che i sassi i vagu ar fundu

i belinun i guvernean ‘r mundu.

 

Finchè i sassi andranno a fondo,

gli imbecilli governeranno il mondo.

 

 

Per forza la ne se fa mancu l’asé.

 

Per forza non si fa nemmeno l’aceto.

 

 

Pistae l’aiga ‘n tru murtau.

 

Pestare l’acqua nel mortaio.

 

(Fare un lavoro inutile).

 

 

Pistae na zidente ‘n tre ‘n zèru.

 

Sbattere una saetta in un cerro.

 

(Eventualità remota perché il cerro è di solito più

piccolo degli alberi circostanti).

 

 

Ne spetae a mana dau celu.

 

Non aspettare la manna dal cielo.

 

(Datti da fare).

 

 

Miae e nun tucae l’è na cosa da ‘npaàe.

 

Guardare e non toccare è una cosa da imparare.

 

 

Che ne se cuntenta der pogu

ne se cuntenta mancu de l’assè.

 

Chi non si accontenta del poco

non si accontenta nemmeno dell’assai.

 

(L’egoismo non ha limiti).

 

 

Che g’à menu rasun, loia ciù forte.

 

Chi ha meno ragione, grida più forte.

 

(E spesso la ragione è la sua).

 

 

Che g’à a testa, pö vegnighe a tigna,

che g’à ‘r corpu, pö vegnighe a rugna.

 

Chi ha la testa, può venirci la tigna,

chi ha il corpo può venirci la rogna.

 

(Quindi non ti rallegrare del male altrui).

 

 

Per fae beve n’ase ghe vurete tüta Ruma,

ma po´i bevete sulu da na vècia bavùsa.

 

Per fare bere un asino ci volle tutta Roma, poi bevve solo da una vecchia bavosa.

 

(A volte conta più il buonsenso di tutto il sapere degli “esperti”).

 

 

Na pissada l’è na caminda.

 

Una pisciata è una camminata.

 

(Dopo bisogna darsi da fare per raggiungere i

compagni che si sono allontanati).

 

 

Ninne Nanne

Nina nana curbeleta

che te mae l’è andà aa messa

daa messa l’è andà ar muin

la te purteà u tetin

ün grossu e ün pecenin.

Chelu grossu te lu teteài

er pecenin te lu lasseai…

 

Ninna nanna “curbeleta”

che tua mamma è andata a messa

dalla messa è andata al mulino

ti porterà la tetta

una grossa e una piccola.

Quella grossa la tetterai

quella piccola la lascerai …

 

 

De tina ‘n tinèla

metemula ‘n bèla

de bèla ‘n belezza

metemula ‘n frezza.

 

Di tino in tinella

mettiamola in bèlla

di bella in bellezza

mettiamola in fretta.

 

 

A curpa l’è der ventu

ch’i à cacià zü a cana

o Gigi fa a nana

che ‘r pá i vö durmì.

 

La colpa è del vento

che ha buttato giù la canna

o Gigi fai la nanna

che il babbo vuol dormire.

 

 

Bula, bula i taiain

daa séa ‘nfina aa matin.

Aa matin i èn bulà

ecu c’à te l’ò tacà.

 

Spiana spiana le tagliatelle

dalla sera sino al mattino.

Al mattino sono spianate

ecco che te l’ho attaccato.

 

(Si diceva al piccino quando era sfasciato.

Recitando la strofa si portava la mano ai genitali del bimbo come se lavorando la pasta per fare le tagliatelle si fosse fatto anche il “bigulin” del bimbo).

 

 

Chi ‘n guzzu d’öiu

chi na pesèla …

tuca mincèla!

 

Qui una goccia d’olio

qui un pisello …

tocco il mento!

 

(Ai più piccini con un dito si toccava la fronte e il naso e si dava un colpetto al mento).

 

 

Modi di dire scherzosi

Cù’ ‘u südùe di cantunéi

i g’an fatu l’aiga benedeta.

 

Con il sudore dei cantonieri

hanno fatto l’acqua benedetta.

 

(Tanto era pregiato perché raro).

 

 

De chelu che ghè ne manca gnente.

 

Di quello che c’è non manca niente.

 

(È ovvio).

 

 

Dopu chi àn fàtu lù i àn bötà u stanpu.

 

Dopo aver fatto lui hanno buttato lo stampo.

 

 

Ne ghe sèrva ciù nì medeghi nì ceüseghi.

 

Non gli servono più né medici né chirurghi.

(È spacciato).

 

 

Pe´ falu sunae la ghe vö vinti citi,

pe´ falu dermete la ghe vö vinti franchi.

 

Per farlo suonare ci vogliono venti centesimi, per farlo smettere ci vogliono venti lire.

 

 

Er fümu i va dai bèi.

 

Il fumo va dai belli.

 

È un detto che risale ai tempi in cui in inverno le famiglie si riunivano davanti al focolare- senza canna fumaria - per scaldarsi).

 

 

Ventu futü, si ne pö surtie daa buca,

i sorta dar cü.

 

Vento fottuto, se non può uscire dalla bocca, esce dal culo.

 

 

Pe´ stae mèi dar mau de panza,

mia che te vaghi a cagae ‘n sa Lanza.

 

Per guarire il mal di pancia,

devi andare a cagare sulla Lanza.

 

(Località di Schiara).

 

 

Se te vöi che a mautia la se sana,

vòuza l’ociu der cüu aa tramuntana.

 

Se vuoi che la malattia guarisca,

volgi l’occhio del culo a tramontana.

 

 

A Mimuna la bala e la suna,

la tia ‘n petu, la maza ‘n galetu.

 

La Mimona balla e suona,

spara un peto, ammazza un galletto.

 

 

A ciù bèla cosa der mundu l’è spazzasse

‘r cüu cu’ ‘n sassu retundu.
 

La più bella cosa del mondo, è pulirsi

il sedere con un sasso rotondo.

 

(Un ciottolo di mare. Si contentavano di poco!)

 

 

A g’ò na bèla fia tüti i la vönu

e nessun la la pia.

 

Ho una bella figlia tutti la vogliono

e nessuno la prende (1) .

 

(1) in moglie

 

 
O´ zögà e ò senpre vintu

ècu chì cume a sun depintu.

 

Ho giocato e ho sempre vinto,

ecco qua come sono dipinto (1) .

 

(1) ridotto

 

 

Pipa, ’mue, da Biassa a Rimazue.

 

Fuma, amore, da Biassa a Riomaggiore.

 

(Fuma in continuazione)

 

 

Tia sü merda ‘n castèu.

 

Tira su merda nel castello.

 

(A quei ragazzini che non si soffiavano il naso)

 

 

Beigö, curdin curdèla

che te stai aa Funtanèla.

 

Tizzone, curdin cordèla

che abiti alla Fontanella.

 

(Beigö è un soprannome)

 

 

Beigö curdin curdèla,

’n te levae daa Funtanèla

che a vaca l’à fatu ‘r bö.

Si è u tö a te lu daemu,

si è u nostru a lu tegniemu.

 

Tizzone curdin curdèla,

non ti togliere dalla Fontanella

perchè la mucca ha fatto il bue.

Se è il tuo te lo daremo,

se è il nostro ce lo terremo.

 

(È una variante della prima. Fontanella è una località di Biassa. La filastrocca si recitava agitando un tizzone in cerchio).

 

 

’R castèu i tia sassi.

 

Il castello tira sassi.

 

(Non c’è più nulla da mangiare.

Sembra che questo detto provenga dalla distruzione del castello di Carpena.

Non avendo più nulla per contrastare l’assalto dei genovesi, gli assediati tiravano contro di loro le pietre del castello).

 

 

 

Canzonette biassèe

‘N ser munte la gh’è ‘n camin che füma

i è ‘r cöe der me amue che se cunsüma.

Si se cunsüma làssau cunsümae

i è ‘r cöe der me amue chi vö brusae.

 

Sul monte c’è un camino che fuma

è il cuore del mio amore che si consuma.

Se si consuma lascialo consumare è il cuore del mio amore che vuole bruciare.

 

 

Altra variante:

‘N ser munte la ghè ‘n camin che füma

i è ‘r cöe der me amue che se cunsüma.

I se cunsüma pogu a pogu a pogu

cume a legna verde ’nturnu ar fögu.

 

Sul monte c’è un camino che fuma

è il cuore del mio amore che si consuma.

Si consuma poco a poco a poco

come la legna verde vicino al fuoco.

 

 

A ne me voi levae da sta paànca

‘nfina che ‘r me amue i ne se vanza.

 

Non mi voglio togliere da questo palo

finché il mio amore non si affaccia.

 

 

Arba der barcun, fusti ‘n tre ‘n furnu

che t’èi senpre sarà de note e giurnu.

 

Anta della finestra, che tu fossi in un forno

perché sei sempre chiusa notte e giorno.

 

(Per cui io non posso vedere la mia bella).

 

 

‘N tru chinae a scàa, t’ài rutu ‘n tèstu,

ruvina de cà meia te l’èi sta prestu.

 

Nello scendere la scala hai rotto un testo, rovina di casa mia lo sei stato presto.

 

(Al fidanzato)

 

 

Fela balae che l’è chela dai pei

fela balae che di pei la ghe n’à.

La n’à na corba sutu au lètu

e na panea sutu au scusà.

 

Fatela ballare che è quella dai peli (1)

fatela ballare che di peli (2) ne ha (3) .

Ne ha una corba sotto al letto (4)

e una cesta sotto al grembiule (5) .

 

(1) o dalle pere?

(2) o pere?

(3) tanti

(4) pere

(5) peli

(Doppi sensi)

 

 

Ai paenti

ghe scorla i denti

de pulenta

i ne ‘n pön mangià.

Cu’ i mangeavu?

Sauzissa e bacalà

carne de porcu.

 

Ai parenti

scrollano i denti

di polenta

non ne possono mangiare.

Cosa mangerebbero?

Salciccia e baccalà

carne di maiale.

 

(Era una canzonatura sulle eccessive esigenze dei parenti stretti)

 

 

A me sun ‘nnamuà de dua suèle

de üna a l’autra a ne sò chi piae:

üna la me paa ‘n po’ ciü bèla

de l’autra a ne me possu destacae.

A Cataina la me paa ciü fina

ma u spassu der me cöe l’è a Marina.

 

Mi sono innamorato di due sorelle

dell’una o l’altra non so chi scegliere:

una mi sembra un poco più bella

dell’altra non mi posso allontanare.

La Caterina mi sembra più fine

ma lo spasso del mio cuore è la Marina.

 

 

O che fortüna t’ai avü Maìa

che da Biassa t’èi andà ‘n Canpia,

o che fortüna t’ài avü Angeina

che de ‘n muntagna t’èi andà àa maìna.

 

O che fortuna hai avuto Maria

che da Biassa sei andata a Campiglia,

o che fortuna hai avuto Angelina

che dalla montagna sei andata alla marina.

 

 

Er me amùe i me l’à mandà a die

sa ne sun morta c’à possa muie;

me a ghe n’ò mandà a die üna ciü bèla

che s’ì n’è mortu i fùsse sutu tèra.

 

Il mio amore me l’ha mandato a dire

se non son morta che possa morire;

io gliene ho mandato a dire una più bella

se non è morto fosse sotto terra.

 

 

Er me amue i ne vö ciü c’a canta

perchè gh’è morta a se cavala gianca,

ma se ghe fusse morta a vaca e ‘r bö

a voi cantae pe´ despetu sö.

 

Il mio amore non vuole più che canto

perché gli è morta la cavalla bianca,

ma se gli fosse morta la vacca e il bue

voglio cantare per dispetto suo.

 

 

A rama der perseghin la l’è na rama

l’è anca ciü bèu ‘r visu da me dama,

a rama der perseghin l’è ‘n bèu fiùe

ma l’è ciü bèu ‘r visu der me amue.

 

Il ramo del peschetto è un bel ramo

è ancora più bello il viso della mia dama,

il ramo del peschetto è un bel fiore

ma è più bello il viso del mio amore.

 

 

Bèla, pe´ ’n arepàu a te ghe tègnu

candu a ne sò dunde andae da te a vegnu.

 

Bella, per un ripiego io ti tengo

quando non so dove andare vengo da te.

 

 

- Voia de lavuae sautame adossu

lavua té, padrun, che me a ne possu...

- Lavua te, garzun, che me a te pagu.

- Lavua te, padrun, che me a m’en vagu...

 

- Voglia di lavorare saltami addosso

lavora tu, padrone, che io non posso...

- Lavora tu, garzone, che io ti pago...

- Lavora tu, padrone, ch’io me ne vado...

 

 

Canzoni cantate dalla Maia che, assieme a Giuvanin, nei primi anni del Novecento si recavano, vestendo i costumi Biassei con i nomi di Battistun e Maia, al carnevale in città. Spesso erano invitati in una sala da ballo in viale Garibaldi dove si esibivano in canti e balli biassèi.

 

L’ea a festa der paiese,

Carlevà da festegiae

mentre i stevo tüti ‘n pase

l’è cunparso ‘n grossu can.

Lì per lì che gran spaventu,

che scapeva de zà e de là

ma dopu, tütu ‘n tre ‘n mumentu,

i s’ènu tüti afratelà,

Batistun cun a Maia,

a mazurca i àn balà.

 

Era la festa del paese,

si festeggiava carnevale

mentre stavano tutti in pace

è comparso un grosso cane.

Lì per lì che gran spavento,

chi fuggiva di quà e di là

ma poi tutto in un momento

si sono tutti affratellati,

Battistone con la Maria,

hanno ballato la mazurca.

 

 

A prima note ca durmìi cun er me amue

i me la fete na poüa pütana:

i me fete vede ‘n cosu lüngu e grossu

chi me arivete ‘nfina ar canaozzu.

A note dopu a ghe resegundei

ma ‘nvece de patighe, a ghe gudei.

 

La prima notte che dormii con il mio amore mi fece una paura puttana:

mi fece vedere un coso lungo e grosso

che mi arrivò sino al gargarozzo.

La notte dopo replicai

ma invece di patire, godetti.

 

 

L’ea de Biassa,

la fieva cun a ruca

nessün la la tuca,

che la faga l’amù.

 

Era di Biassa,

filava nella rocca

nessuno la tocchi,

che faccia l’amore.

 

 
‘R me amue i è de Vilafranca

i ne vö ní ca m’arida ní ca canta

alua me a ghe l’ò itu e a ghe l’ò mandà a die

si n’è anca mortu ch’i possa muie.

Che me de chesti pati a n’en voi fae,

chelu che me basa i me deve spusae.

 

Il mio amore è di Villafranca

non vuole nè ch’io rida nè ch’io canta

allora gliel’ho detto e gliel’ho mandato a dire

se non è ancora morto potesse morire. Di questi patti io non ne voglio fare, quello che mi bacia mi deve sposare.

 

 

La Caneta, una vecchia di Biassa, cantava e piroettava con le mani sulle anche:

 

Tüte e bèle la vanu e la venu

ma a me Brüneta a ne la vedu mai,

la se l’è purtà via ‘r fuesteu

a ne sò si l’à purtà a san Veneu.

A san Veneu a la devu andae a piae

che a me Brüneta a nessun a la voi dae.

 

Tutte le belle vanno e vengono

ma la mia Brunetta non la vedo mai,

l’ha portata con se il forestiero

non so se l’ha portata a san Venerio.

A san Venerio devo andare a prenderla perchè la mia Brunetta non la voglio dare a nessuno.

 

 

Altre canzoni:

Me a sun chi ‘n Rebui c’a fagu l’erba

‘u Simun i è a picae a l’aiga freda.

 

Io sono qui in Reboi a fare l’erba

Simone è a scalpellinare all’acqua fredda.

 

L’innamorata era a Reboi (sopra Monesteroli) a fare l’erba per le pecore; il suo innamorato era nella cava dell’Acqua Fredda (lo scalo di Fossola).

 

 

O Bacicin vatene a cà

o Bacicin vatene a cà

o Bacicin vatene a cà

te mae t’aspeta.

La t’à lassà u lüme ‘n sa scàa

la t’à lassà u lüme ‘n sa scàa

la t’à lassà u lüme ‘n sa scàa

e a porte averta.

Se la m’aspeta a g’andeò

se la m’aspeta a g’andeò

se la m’aspeta a g’andeò

duman matina.

 

O Bacicin vattene a casa

o Bacicin vattene a casa

o Bacicin vattene a casa

tua madre ti aspetta.

Ti ha lasciato il lume sulla scala

ti ha lasciato il lume sulla scala

ti ha lasciato il lume sulla scala

e la porta aperta.

Se m’aspetta ci andrò

se m’aspetta ci andrò

se m’aspetta ci andrò

domani mattina.

 

 

Candu l’omu i è vèciu

i à persu e se vertü,

e ganbe la ghe fan fricheta

i cuiun i ghe caiu zù.

 

Quando l’uomo è vecchio

ha perso le sue virtù,

le gambe gli tremano

i coglioni gli cascano giù.

 

 

‘N piatu de menestra

e ‘n fiascu de vin bun

vène o Nineta

ch’ à faemu culaziun (o chel’aziun).

 

Un piatto di minestra

e un fiasco di vino buono

vieni o Ninetta

che faremo colazione (1) .

 

(1) o quell’azione

(Anche qui giochi di parole, allusioni).

 

 

A canzun de Mazu.

A vui Suntìna (Maìa, Chechìna, ecc.)

zùvena de la casa “maggior di voi”

Diu ve mantègna, Mazu ve vègna.
Sa me dessu ’növu da vostra gaina

Diu ve la sarvi dàa lepurina,

sa me dessu na furmaiéta

der vostru bancàu

Diu ve lu sarva stù santu Nadau.

 

La canzone di Maggio.

A voi Assunta (Maria, Francesca, ecc)

giovane della casa maggior di voi

Dio vi mantenga, Maggio a voi venga.

Se mi deste un uovo della vostra gallina

Dio ve la salvi dalla faina,

se mi deste una formaggetta

della vostra cassapanca

Dio ve la salvi (1) per questo santo Natale.

 

(1) il contenuto

 

 

 

A Biassa il “Canto del Maggio” si svolgeva seguendo un itinerario che comprendeva tutto il paese, casa per casa. Numerosi uomini (per il controcanto suddivisi in due gruppi) dedicavano il canto ad una delle donne di ogni famiglia di Biassa. Dopo avere trascorso tutta la notte a cantare, il mattino seguente passavano a raccogliere ciò che ogni famiglia poteva offrire loro. Il ricavato serviva a preparare un pranzo per i partecipanti alla festa, tradizione mantenuta con alcune modifiche sino agli inizi degli anni ‘80. Dal dopoguerra il canto era questo:

 

Vieni bel maggio vieni

vieni tutto fiorito

vieni bello e gradito

il mondo a rallegrar.

 

E se non ci credete

che maggio sia venuto

guardate dappetutto

in mezzo all’erba e ai fior.

 

Il contadin ritorna

ai campi abbandonati

le pecorelle ai prati

i pescatori al mar.

 

Or che maggio è venuto

salutiamo il padrone

che porti un bottiglione

di vin che fa cantar.

 

Tutti formiamo un circolo

armati di coraggio

cantiamo evviva, evviva maggio

viva la gioventù.

Portè pan e formaggio

qualche scudo d’argento

per fare il cuor contento

a questi cantator.

 

Ecco la bella fante

si affaccia alla finestra

con una rosa in testa

saluta i cantator.

 

Ecco le alleata

Cesira e Parmicella

... è la più bella

delle più belle ancor.

 

Minotu

Domenico Bertani detto Minotu (1876 - 1968) è stato l’ultimo dei poeti dialettali di Biassa. Le sue canzoni ironiche prendevano di mira principalmente le donne del paese delle quali cantava i pregi e i difetti con parole semplici ma che colpivano nel segno. Era scapolo e la sera, seduto sul muretto della “puzza” davanti alla sua cantina a Schiara, cantava “alla distesa” le sue canzoni, portandosi la mano all’orecchio, a imbuto, per cercare di sentire le sue stesse parole, perchè era sordo. Era eccezionale nel costruire muretti a secco e cisterne per la raccolta dell’acqua piovana, malgrado lo scarso materiale esistente sul posto.

 

Sta zuventüa muderna la va a netezae,

la tia sü a fuieta

ma u sassetu la u lassa stae.

 

Questa gioventù moderna va a nettezzare (1) ,

raccoglie la fogliolina

ma il sasso lo lascia stare.

 

(1) pulire i campi di Tramonti

(Fa troppa fatica a raccoglierlo!)

 

 

Tüte e bèle de chestu cunturnu

la stanu sü de ‘n lètu a mezugiurnu.

Dopu la partu, la vanu per legne

la venu aa sea ar ciaue de stele.

 

Tutte le donne quì d’intorno

si alzano da letto a mezzogiorno.

Dopo partono, vanno a raccogliere la legna

ritornano alla sera al chiarore delle stelle.

 

(Cosa avranno fatto durante questo tempo?)

 

 

L’ariva u tenpu de zzapae

‘r carateo da sbarazzae.

Te lu meteai sutu aa grundaa

che se la ciöva i se venci-à.

 

Inizia il tempo della zappatura (1)

occorre svuotare il caratello (2).

Lo metterai sotto alla grondaia

in modo che se piove si riempirà.

 

(1) a Tramonti

(2) vendere il vino

(L’acqua a Tramonti serviva più del vino)

 

 

Ne se pö ciü parlae aa fia der me visin

da cando la la vö ‘r Bertulin.

Bertulin, ne fae da ricu

sète ‘nverni ‘n tucafissu!

 

Non si può più parlare alla figlia del mio vicino da quando è fidanzata con il Bertolino.

Bertolino, non fare il ricco

sette inverni uno stoccafisso!

 

(Uno stoccafisso - pesce secco che si mangia generalmente in inverno - gli durava sette anni!)

 

 

‘N tra note de Nadau

aa scrinciacüu gh’è vegnù mau.

A mezanote l’è partì

cun ‘r müateu de se maì.

Per fasse ‘r curedin

l’è andà pe sodi dau Luigin.

Candu u Luigin i ghi à zzercà

la gà itu che la ne ghe n’à.

“Se te vöi ‘n po’ de pisun

andemu ‘n zzima au Turiun,

a l’aia fina ‘n mèzu ai pin

a faemu pari di catrin”.

“Caa me dona cheste cose la ne se fan

a g’ò i me fanti au Tuetu senza pan,

se te senta a Giucunda

cun dui cauzi la te sfunda”.

 

Durante la notte di Natale

alla saltaculo è venuto male.

A mezzanotte è partita (1)

con il mulattiere di suo marito.

Per farsi il corredo

è andata per soldi da Luigino.

Quando Luigino glieli ha chiesti

gli ha detto che non ne aveva.

-Se vuoi un poco di pigione (2)

andiamo sul Torrione,

all’aria pura in mezzo ai pini

faremo pari dei quattrini-

-Cara donna queste cose non si fanno

i miei bimbi sono al Toetto (3) senza pane (4),

se ti sente Gioconda (5)

con due calci ti sfonda.

 

(1) all’ospedale

(2) un acconto

(3) località della Fossola

(4) niente da mangiare

(5) la moglie di Luigino

 

 

 

Questa canzone (della quale non rimane che una parte) era destinata ad una donna che non voleva saperne di lui. Per vendicarsi si era inventato questa ironica situazione…

 

Nuova storia del Gianberlù” del Maestro Bertani Domenico

Il Gianberlù du Scoglio

i sta sü aa matina

e i à scritu per posta

a na bèla sartina.

 

E ci à mandato a dire

che sta troppo distante

per scendere la Gaitarola

la ci fa mal le gambe.

Io ho sentito dire

che hai comprà il fischietto

ma se hai piacer che ti amo

scrivimi un po’ più spesso.

 

O caro Gianberlù

il nome l’hai con te

ma cambia quel pensiero

e non pensar più a me.

 

Purtroppo me ne infuto

non vò più far lavori

ma quelli che mi vuole

son tutti suonatori.

 

Hai avuto il coraggio

di scrivere a me

ma tu sei troppo brutto

cosa ne fò di te.

 

Quando ti vedo in viso

non ti posso guardar

mi sembri un brutto rizzo

che nasce nel canal.

 

Ma vieni a casa mia

che ti darò quel foglio

non ho altro che in mente

o Gianberlù du Scoglio.

 

Ma venirà Natale

per vuotare bottiglioni

quello che vuol dei fiaschi

vada da Gianberloni.

   
 

Biassa, 3 marzo 1910

 

 

 

 

Poesie

A simia ch’è n’piazza

la dà ‘r mendu a chéi che passa

la se zia denanzi e dendaré

la i à tüti tacà a le.

 

La scimmia che è in Piazza (1)

sfotte quelli che passano

si gira davanti e di dietro

li ha tutti attaccati a lei.

 

(1) Cavour

 

 

A Rimazue la gh’é na lizza

u diavu i se g’adrizza

i se g’adrizza dendaré

i venu tüti tacà a me.

I se g’adrizza ‘n ser barcun

u diavu i è ‘n pogu de bun.

 

A Riomaggiore c’è una quercia

il diavolo vi si erge

vi si erge dal didietro

vengono tutti attaccati a me.

Egli si erge sulla finestra

il diavolo è un poco di buono.

 

 

Variante della precedente

A Rimazue la gh’è na lizza

u diavu i se g’apizza

i se g’apizza pe’ u timun

i porta via cativi e bun.

 

A Riomaggiore c’è una quercia

il diavolo vi si attacca

vi si attacca per il timone

porta via cattivi e buoni.

 

 

‘R muin i maseneva

e Patèla i giastemeva,

sorta föa u Lasagnin:

-Cuse gh’è chesta matin,

la s’è gastu ‘r me muin. -

Dar burdèlu ch’i àn fatu

s’è arestà anca ‘r can e ‘r gatu.

 

Il mulino macinava

e Patèla (1) bestemmiava,

esce fuori (2) il Lasagnin (3):

-Cosa c’è questa mattina,

mi si è guastato il mulino.-

Dal chiasso che hanno fatto

si è svegliato anche il cane e il gatto.

 

(1) Gio Batta Cidale

(2) dal mulino

(3) Gaspare Callegari, proprietario del mulino

 

 

Oimemé c’a sentu frize

l’è me mae che fa i fressöi

la n’à fatu ‘n piatu e mèzu

oimemé ca ne ’n ò assè.

 

Oimemè che sento friggere

è mia mamma che fa le fritelle

ne ha fatto un piatto e mezzo

oimemè che non ne ho abbastanza.

 

 

Gunèla de trei tei

carbun de sassu

a testa sparpaià

senza cuazzu.

 

Gonna di tre teli

carbone di sasso

la testa sparpagliata

senza cercine.

 

(Il senso dei versi è oscuro).

 

 

Candu me pae

i piete me mae

banche e bancheti

i fetu balae.

A me credeva

ch’i fessu i gnocchi

‘nvece i eu de sutu

ch’i fevu a cazzoti.

 

Quando mio padre

sposò mia madre

panche e panchetti

fecero ballare.

Mi credevo

che facessero gli gnocchi

invece eran di sotto

che facevano a cazzotti.

 

 

Miseia e puvertà

l’en dua suele

cun a fame e a sede

l’en catru cose bèle.

 

Miseria e povertà

son due sorelle

con la fame e la sete

son quattro cose belle.

 

 

O cucü daa barba gianca

canti agni a cantu anca

se n’ te me disi a veità

a te robu a te cuà.

 

Cuculo dalla barba bianca

quanti anni campo ancora

se non mi dici la verità

ti rubo il nido.

 

(Quando in primavera il cuculo lanciava il suo canto dalla “Piaza” o da altre località intorno a Biassa, i bimbi lo interrogavano gridando questa cantilena ed il cuculo continuava il suo canto. In base ai “cucù”, che alla fine dei versi gridati ad alta voce il cuculo continuava a cantare, il bimbo “sapeva” quanti anni gli restavano da vivere...!)

 

 

A zopa da Cudèia

i l’àn purtà ar Muntau,

candu l’è stà a Leme

i l’àn cacià ‘n tru canau.

La g’ava n’unbrelin,

i se gh’è fatu ‘n trei tochi,

candu l’è stà aa Madona

la feva ‘r vèrsu ai zopi.

 

La zoppa di Codeglia

l’hanno portata a Montenero,

quando è arrivata a Lemmen

l’hanno gettata nel canale.

Aveva un ombrellino

che si è rotto in tre pezzi,

quando è arrivata alla Madonna

faceva il verso agli zoppi.

 

 

 

La Madona der Muntau (Madonna di Montenero) è sopra Riomaggiore ed era consuetudine che gli abitanti dei paesi al di là del Parodi e quindi anche Codeglia nel comune di Riccò, nella ricorrenza della festa si recassero al santuario scendendo la Scalinata Santa posta nel versante a mare del Parodi. Evidentemente, per i biassei che pure partecipavano a questa festa, la loro presenza era motivo di canzonatura.

 

Na furmigua l’andete ar furnu,

gaavùn ghe va d’enturnu.

-Gaavùn dunde te vai?

-Ganba gianca a voi tucae.

-Ganba gianca ne te tucheai

‘nfina che spusa te ne m’aveai.

 

Una formica andò al forno,

scarabeo gli va dintorno.

-Scarabeo dove vai?

-Gamba bianca voglio toccare.

-Gamba bianca non toccherai

finchè sposa non mi avrai.

 

 

A te l’ò ditu, barca vècia

che te ne staghi a partie de sea,

i te l’àn ruta a ciminea

er vapure i ne parta ciü.

 

Te l’ho detto, vecchia barca

di non partire di sera,

ti hanno rotto la ciminiera

e la nave non parte più.

 

 
La m’è morta a me vecéta

a ’n ò pià na zuvenéta

a g’ò itu refame u lètu

la m’à itu brütu vèciu

a g’ò itu spazzame a cà

la m’à itu vatene ‘n là

a g’ò itu cösame a zena

la m’à tià a cadena

a g’ò itu cösame a fügazza

la m’à tià a ciapa.

 

È morta la mia vecchia moglie

ho sposato una giovanetta

gli ho detto di farmi il letto

mi ha risposto brutto vecchio

gli ho detto di scopare la casa

mi ha risposto vattene in là

gli ho detto di cuocere la cena

mi ha tirato la catena

gli ho detto di cuocermi la focaccia

mi ha tirato la lastra.

 

 

A sun andà a Ruma pe´ u Giubilèu

dar papa a me n’andei a cunfessae,

a prima cosa ch’i m’avete a die

i me lu disete s’a fagu l’amue.

A ghe disei “Padre signursì

ar me paiese i fan tüti cussì”

i me lu disse “Fantina beata

se te ne lassi l’amue t’èi adanata”

i me lu disse “Fantina de Dio

falu, l’amue, c’a l’ò fatu anch’io”.

 

Sono andata a Roma per il Giubileo

dal papa sono andato a confessarmi,

la prima cosa che ebbe a dirmi

mi disse se facevo l’amore.

Gli risposi “Padre signorsì

al mio paese fanno tutti così”

mi disse “Ragazza beata

se non la smetti sarai dannata”

mi disse “Ragazza di Dio

fallo, l’amore, che l’ho fatto anch’io”.

 

 

Lazaìn de Franza

ch’i munta pe´ a Lanza

pe´ a Lanza e pe´ i pin

i ciameva San Martin

San Martin i ne gh’éa

la gh’éa a Diana

la suneva a canpana

a canpana tüta ruta

trei dunzèle gh’éa sutu:

üna la fiéva

l’autra la ‘nnaspeva

üna la feva i capèi de pàia

per mandali àa batàia

a batàia de san Michéu

l’ea giüsta e ben pesà

e biadu che lu saà.

 

Lazzarino di Francia

che sale per la Lanza

per la Lanza e per i pini

chiamando San Martino

San Martino non c’era

c’era Diana

che suonava la campana

la campana era rotta

tre donzelle c’erano sotto:

una filava

l’altra annaspava

una faceva i cappelli di paglia

per mandarli alla battaglia

la battaglia di san Michele

era giusta e ben pesata

e beato chi lo sarà.

 

 

Se ‘r papa i me desse tüta Ruma

e i me disesse “lassa andae che t’ama”

me a ghe diai de “nu, sacra curuna”

la vaa ciü ‘r me amue ca tüta Ruma!”

 

Se il papa mi donasse tutta Roma

e mi dicesse “lascia andare chi t’ama”

io gli direi di “no, sacra corona,

vale più il mio amore di tutta Roma”.

 

 

Trei teguli, trei teguli e ‘n madun,

l’arosto, ’n tru furnu, i è ciü bun...

 

Tre tegole, tre tegole e un mattone,

l’arrosto (1) dentro al forno, è il più buono...

 

(1) cotto

 

 

A pigrizia

A pigrizia la andò ar mercatu

e i coi la li conprò.

Mezzogiurno i ea sonato

cando a ca lé l’arivò.

Rava l’üssio, zenda ‘r fögu,

dopu la se reposò

e ‘ntanto, a pogu a pogu,

anca u sù i tramuntò.

 

La pigrizia

La pigrizia andò al mercato

ed i cavoli comprò.

Mezzogiorno era suonato

quando arrivò a casa.

Apre l’uscio, accende il fuoco

poi si riposò

ed intanto a poco a poco,

anche il sole tramontò.

 

 

 

A crucifissiun de Gesù

 

- Mae meia a voi andae a spassu.

- Fiu meiu ne ghe stae andae

che ghe saà i giüdèi n’ mèzu àa via

chi te vuràn ligae e purtae via.

- Me di giüdèi a ne n’ò de paüa.

- Cangiate alua ‘r vestidu pe´ andae

e dime l’ua

e ‘r menütu che te devi turnae.

- Candu a vedé a lüna auta andae

mae meia ne me sté ciü aspetae.

A Madona la vedete a lüna auta andae

ma se fiu la ne lu vedete turnae.

Alua la chinete e scae

e candu la arivete visin a chele scüe porte

la piete ‘n sassu e la le ciuchete forte.

- Che l’è chela cagna che cioca àe me porte?

- A ne sun nì cagna nì giüdea

a sun a ciü dona buna ca ar mundu sia.

Alua chinete zù ‘n giüdèu cun ‘n pau de fèru e i lu dete ‘n tru muru aa Madona.

U nostru Signue alua i disete:

- O cani o cani, lassé stae ma mae,

sa chino zù a ve fagu sprufundae.

- Ste fussi chelu Diu che te ten d’èsse

te chineessi zù e te lu faessi.

I destachete ‘n brazu daa cruse e in fete sprufundae zinchezentu.

Po´ a Madona la andete ai pé de se fiu e la ghe disete:

- O fiu, dime che grazia te vöi, basta che te te levi da chela cruse.

- Andé trei giurni e trei noti ai pé der Pürgatoiu per me.

Candu la revegnite la disete:

- O fiu meiu te m’ài itu na grande busia: a ghe sun sta trentatrei giurni e trentatrei noti.

- No, mae, a ne v’ò itu nessuna busia, l’èn e pene che l’èn tante lünghe.

 

 

La crocefissione di Gesù.

 

- Madre mia voglio andare a spasso.

- Figlio mio non andarci

che ci saranno i giudei in mezzo alla strada

che ti vorranno legare e portare via.

- Io dei giudei non ho paura.

- Allora cambiati d’abito

e dimmi l’ora

e il minuto di quando ritorni.

- Quando vedrete alta la luna

madre mia non state più ad aspettarmi.

La Madonna vide la luna salire in alto

ma non vide il suo figliolo tornare.

Allora scese le scale

e quando arrivò a quelle scure porte

prese una pietra e le picchiò forte.

- Chi è quella cagna che bussa alle mie porte?

- Non sono né cagna né giudea

sono la più buona donna che sia al mondo.

Allora scese un giudeo con un palo di ferro e lo diede sul viso della Madonna.

Il nostro Signore disse:

- O cani o cani, lasciate stare mia madre,

se scendo dalla croce vi faccio sprofondare.

- Se tu fossi quel Dio di cui ti vanti di essere

scenderesti dalla croce e lo faresti.

Gesù staccò un braccio dalla croce e ne fece sprofondare cinquecento.

La Madonna si recò ai piedi di suo figlio e gli disse:

- Figlio mio, dimmi che grazia vuoi per farti togliere dalla croce.

- Andate tre giornie tre notti ai piedi del Purgatorio per me.

Quando ritornò lo rimproverò:

- Figlio mio mi hai detto una grossa bugia: ci sono rimasta trentatre giorni e trentatre notti.

- No, madre, non vi ho detto nessuna bugia, sono le pene che sono tante lunghe.

 

 

 

Maìa Madalena

 

Maìa Madalena stoia bèla

de Marta e de Lazau l’ea suèla.

Candu se pae i vegnite a muìe

‘n bèu palaziu i lassete a Madalena.

A cà d’ou e d’argentu l’ea tüta cena

ma Madalena la ne s’en procüpeva

e pe´ e se cànbee la se spasseieva.

‘N giurnu la vedete u Signue pe´ a via andae

e Madalena la chinete e scae.

- O Maestru a me perduné i me pecati?

- Madalena i te pecati i èn zà perdunati.

- Cume a fe a perdunae i me pecati

che a ghe n’ò ciü me ca ’n animau?

- Madalena ne fae ciù de pecati

che chei che t’ài fatu i èn sta perdunati.

Cun e te lagrime te m’ài lavà i pé

e cun e te trezze te mi ài asügà.

Alua la se n’andete e candu la arivete a n’autra via, la trövete se suela Martuina.

La ghe disete: - O Madalena, dunde t’èi sta cussì tantu, che l’è mortu nostru frè Lazzau? Se te gh’éi tè forsi i ne muiva. Alua la se fete ‘nsegnae a seportüa e

cun i se cianti e i se lamenti

la fete cianze Diu uniputente.

U Signue pe´ daghe u se cunfortu

i fete suscitae Lazzau ch’i ea mortu.

Mentre che ar mundu Lazzau i steva,

autru che cianze i ne feva.

Alua u Signue i ghe disete: - Cume mai te cianzi senpre, Lazzau?

I ghe fete: - A voi savée Signue cante voute a devu ancua muie.

U Signue i ghe respundete: - Na vouta sula.

U Signue i spieghete a l’Avangéu mai ciù morti a faò suscitae.

 

 

Maria Maddalena.

 

Maria Maddalena storia bella

di Marta e di Lazzaro era sorella.

Quando morì suo babbo

lasciò un bel palazzo a Maddalena.

La casa era piena d’oro e d’argento

ma Maddalena non ne ne preoccupava

e per tutte le camere passeggiava.

Un giorno vide il Signore nella strada

e Maddalena scese le scale.

-Maestro, mi perdonate i miei peccati?

-Maddalena, i tuoi peccati sono già perdonati.

-Come fate a perdonare i miei peccati

che ne ho più io di un animale?

-Maddalena, non fare più peccati

che quelli che hai fatto sono stati perdonati:

-Con le tue lacrime mi hai lavato i piedi

e con le tue trecce me li hai asciugati.

Allora se ne andò e quando arrivò a un’altra strada, trovò sua sorella Marta.

Gli disse: -O Maddalena, dove sei stata così tanto, che è morto nostro fratello Lazzaro? Se eri presente forse non moriva. Allora si fece insegnare la sepoltura e

con i suoi pianti e i suoi lamenti

fece piangere Dio onnipotente.

Il Signore per mostrargli il suo conforto

fece resuscitare Lazzaro che era morto.

Mentre che Lazzaro stava al mondo

non faceva altro che piangere

Allora il Signore gli disse: - Come mai piangi sempre, Lazzaro?

Gli rispose: - Voglio sapere o Signore, quante volte devo ancora morire.

Il Signore gli rispose: - Una volta sola.

Il Signore, spiegò il Vangelo, mai più morti farà resuscitare.

 

 

 

Giochi di Bimbi

 

Conto

Bim bum ba

tucafissu e bacalà

e pulente cumedà

bim bum ba.

 

Bim bum ba

stoccafisso e baccalà

e polenta in umido

bim bum ba.

 

(I bimbi in tondo contavano a chi toccasse andare per primi a nascondersi).

 

 

Giuramento

Cruse de becu

bata ‘n tru stecu.

 

Croce di becco

batti nello stecco.

 

(Era un giuramento per affermare la sua onestà e sincerità).

 

 

Discordia

Gancia didu

 

Aggancia il dito.

 

(Innocente formula per la rottura dei rapporti tra due bambini).

 

 

Fae a cumae

 

Giocare alla comare.

 

(Da parte delle bimbe).

 

 

Fae a gantasse.

 

Giocare ad acchiapparsi.

 

(Rincorrersi l’un l’altro, tra bambini).

 

 

Fae a ciatasse

 

Giocare a nascondino.

 

 

Fae l’esca

 

Gioco basato sul tentativo scherzoso di abbassare i pantaloni al compagno.

 

 

A stemana

Lünedì i andete da martedì,

per vede se marcurdì i avesse visto zòbia

per die ar vernardì chi diga au sabu

che dumenega l’è festa.

 

La settimana

Lunedì andò da martedì,

per vedere se mercoledì avesse visto giovedì per dire a venerdì che dica a sabato

che domenica è festa.

 

(E i bimbi così imparavano i giorni della settimana).

 

 

Gilòn

Durante i temporali, quando il brontolio del tuono si fa insistente sino a perdersi in lontananza, si diceva ai bambini impauriti:

Senti Gilòn, ch’i regüa i caratèi!

(oppure: e furmaiete!)

 

Senti Gilòn, che rotola le botti!

(oppure: le formaggette!)

 

 

E quando il rumore è secco, perchè più vicino:

Senti cume l’è ‘nrabià a muiée de Gilòn:

la ghe tia e pügnate!

(oppure: i piàti)

 

Senti come è arrabbiata la moglie di Gilòn: gli tira dietro le pentole!

(oppure: i piatti)

 

 

Nell’immaginario dei bambini Gilòn era un dio: un dio che comandava ai lampi e tuoni, viveva con la moglie al di sopra delle nuvole e di cui, vista la sua terribile voce, occorreva avere paura.

 

Per impaurire i più piccini, gli adulti lo evocavano in più modi e occasioni:

Mia c’a te fagu vegnie a piae

da Gilòn!

 

Guarda che (1) ti faccio venire a prendere da Gilòn!

 

(1) se non fai il bravo

 

 

Oppure:

Mia c’a ciamu Gilòn!

 

Guarda che chiamo Gilòn!

 

 

o anche:

Böma... gh’è Gilòn!

 

Böma...(1) c’è Gilòn!

 

(1) detto con voce impaurita

 

 

Una breve filastrocca diceva così:

Ton, ton: che cioca?

I è Gilòn ch’i è trà aa roca;

ton, ton: che büssa?

I è Gilòn ch’i è trà aa lizza.

 

Ton, ton: chi picchia?

È Gilòn che è dietro alla roccia;

ton, ton: chi bussa?

È Gilòn che è dietro al leccio.

 

(Insomma il babau di Biassa è Gilòn).

 

 

Proverbi in libertà

L’è mèi nasse furtünà ca nasse ricu.

 

È meglio nascere fortunato che nascere ricco.

 

 

‘N po´pe´ ün ne fa mau a nessün.

 

Un po’ ciascuno non fa male a nessuno.

 

 

Nun èsse ni ciuchi ni ‘nbriaghi.

 

Non essere né ciucchi né ubriachi.

 

(Capire che qualcuno vuole imbrogliare).

 

 

Er mundu i è na röda che zia:

ancö a me, duman a te.

 

Il mondo è una ruota che gira:

oggi a me, domani a te.

 

 

Se la n’è züpa i è pan bagnà.

 

Se non è zuppa è pane bagnato.

 

(È la stessa cosa).

 

 

Se venda na vouta sula.

 

Si vende una volta sola.

 

(Attenti a fare il passo perché è difficile poi rimediare).

 

 

Tiae u sassu e ciatae ‘r brazu.

 

Tirare il sasso e nascondere il braccio.

 

 

Lebeciu, senza aiga a ne me ghe metu.

 

Libeccio, senza acqua non mi ci metto.

 

(Col libeccio la pioggia è probabile).

 

 

Levantu, senza aiga a ne me vanzu.

 

Levante, senza acqua non mi affaccio.

 

(Quel vento dice la sacrosanta verità).

 

 

Passà ancö, la ven duman.

 

Passato oggi, viene domani.

 

(La vita continua).

 

 

Pasca Pifanìa tüte e feste la porta via.

 

Pasqua Epifania tutte le feste si porta via.

 

 

Er mèi medegu i è ‘r tenpu.

 

Il miglior medico è il tempo.

 

 

San Marcu, e rugaziùn la partu.

 

San Marco (1), le rogazioni iniziano.

 

(1) 25 aprile

 

 

S’te canpeai t’aveai di agni.

 

Se camperai avrai degli anni.

 

(Con l’età verrà l’esperienza).

 

 

Tucafissu e bacalà,

sc-ciapa legna e cacia ‘n cà.

 

Stoccafisso e baccalà,

spacca legna e butta in casa.

 

(All’inizio dell’inverno provvedi ai viveri ed al riscaldamento).

 

 

Zenau, mese gatau.

 

Gennaio, mese dei gatti.

 

(Perché vanno in amore e disturbano più del solito).

 

 

A cavalu nudià ghe lüsa ‘r peu.

 

A cavallo odiato luccica il pelo.

 

(Chi è odiato è sempre meglio di quello che si vorrebbe).

 

 

A fae der ben ai ase u diavu i se n’arida.

 

A fare del bene agli asini il diavolo se ne ride.

 

(Se fate del bene agli ignoranti state attenti).

 

 

A gaina che canta l’à fatu l’övu.

 

La gallina che canta ha fatto l’uovo.

 

(Chi si sbilancia nel parlare non ha la coscenza a posto).

 

 

A lavae a tèsta a l’ase,

se ghe remeta anca u savun.

 

A lavar la testa all’asino,

ci si rimette anche il sapone.

 

(È inutile fare la ramanzina a uno che non vuole intendere…!)

 

 

Che vö vede l’omu san:

i pissa spessu cume ‘r can.

 

Chi vuol vedere l’uomo sano:

piscia spesso come il cane.

 

 

A bèla l’è mià, a brüta l’è spusà.

 

La bella è ammirata, la brutta è sposata.

 

 

Ai paenti ghe scorla i denti.

 

Ai parenti scrollano i denti.

 

(Sono affidabili fino ad un certo punto).

 

 

A vaésia la fa brütésia.

 

L’indolenza fa bruttezza.

 

(Impedisce il lavoro di pulizia e di ordine).

 

 

Candu se deventa noni se returna fanti.

 

Quando si diventa nonni si ritorna bambini.

 

 

Che vö vede a se vertü,

meta ‘r mazzu da per lü.

 

Per fare vedere la propria virtù,

occorre mettere il mazzo da solo.

 

(Per fare vedere che sai gà essere uomo devi crearti una famiglia per conto tuo).

 

 

Dau névu e dàa nèzza,

‘n po´ de merda ‘n tre na pèzza.

 

Dal nipote e dalla nipote (1),

un pò di merda in un cencio.

 

(1) aspettati

(Gli anziani senza figli non siano troppo sicuri dell’aiuto dei parenti).

 

 

I paenti i èn cume e scarpe:

ciü i èn streti, ciü i fan mau.

 

I parenti sono come le scarpe:

più sono stretti più fanno male.

 

 

La vàa ciü ‘n beretin ca zentu scüfie.

 

Vale più un berrettino che cento scuffie.

 

(Dicevano i maschilisti dell’epoca…).

 

 

La vàa ciü n’omu cume na castagna,

ca na dona cume na muntagna.

 

Vale più un uomo come una castagna, che una donna come una montagna.

 

(I soliti maschilisti…).

 

 

Na mae l’è buna per zentu fìi,

zentu fìi i n’èn bun pe’ na mae.

 

Una madre è buona per cento figli,

cento figli non sono buoni per una madre.

 

 

Omu peùsu, omu vertüsu,

dona peùsa, dona schifùsa.

 

Uomo peloso, uomo virtuoso,

donna pelosa donna schifosa.

 

(Chissà perché…).

 

 

Er bèu i zèrna a bèla e a storta,

ma nessüna a l’autaiu i ne ghe porta.

 

Il bello sceglie la bella e la storta,

ma nessuna all’altare ci porta.

 

(L’uomo bello è cacciatore?).

 

 

Er primu anu basa e abrazza,

u segundu fassa e derfassa,

u terzu pütana e bagassa.

 

Il primo anno (1) bacia e abbraccia,

il secondo fascia e sfascia,

il terzo puttana e bagascia.

 

(1) di matrimonio

(Il primo gli abbracci, il secondo la cura del figlio, il terzo i litigi).

 

 

Sant’Andreia,

i ghe bassa e püme e i ghe lassa l’ideia.

 

Sant’Andrea,

gli abbassa le piume e gli lascia l’idea.

 

(Del desiderio).

 

 

Santa Cataina,

chi se li fa se li nina.

 

Santa Caterina,

chi se li fa se li ninna.

 

(I bambini devono curarseli i genitori).

 

 

Se a muiée la se meta i cauzùn,

‘r maì i ne g’aveà mai rasun.

 

Se la moglie si mette i pantaloni,

il marito non avrà mai ragione.

 

 

Che g’à ciü giudiziu, i lu dùvea.

 

Chi ha più giudizio, lo adoperi.

 

 

Ch’è bun de pena,

i è bun anca de zapa,

ma per chi n’è bun de pena,

ne ghe remana c’à zapa.

 

Chi è buono di penna (1),

è buono anche di zappa (2),

ma per chi non è buono di penna,

non gli resta che la zappa.

 

(1) chi ha studiato

(2) a fare lavori umili

 

 

Che ciànza, teta.

 

Chi piange, tetta.

 

(Chi sa chiedere ottiene più di un altro).

 

 

Che g’à ‘r pan i ne g’à i denti.

 

Chi ha il pane non ha i denti.

 

(Spesso chi ha delle possibilità non se ne rende conto).

 

 

Che se möva dar fögu, perda u lögu.

 

Chi si muove dal fuoco, perde il posto.

 

(Nelle famiglie numerose di un tempo, con molte persone attorno al fuoco del focolare, chi si alzava perdeva il posto ed era sostituito da un altro componente la famiglia).

 

 

Che tropu se cùcia, ‘r cüu i mustra.

 

Chi si abbassa troppo, mostra il sedere.

 

(Non è prudente parlare dei fatti propri).

 

 

Che va ‘n lètu senza zena,

tüta a note i se remena.

 

Chi va a letto senza cena,

si rigira tutta la notte.

 

(In tempi di miseria era un invito a lasciare per la cena qualche cosa da mangiare per poter dormire tranquilli).

 

 

Che de vinti n’ en à,

de trenta i n’en pia.

 

Chi a venti (1) non ne ha (2),

a trenta non ne prende.

 

(1) anni

(2) di giudizio

(Erano tempi che a vent’anni occorreva essere già uomini).

 

 

Ne te fàe bèfa di recoti,

che duman ti ài tacà ai oci.

 

Non ti fare beffa della cispa negli occhi (1), perché domani potresti averla attaccata agli (2) occhi.

 

(1) degli altri

(2) tuoi

 

 

‘N po’ pe’ ün ‘n brazu àa ma.

 

Un po’ ciascuno (1) in braccio alla mamma.

 

(1) tra noi figli

(I vantaggi vanno ripartiti).

 

 

Pìa senpre a gente pe’ lu se vèrsu.

 

Prendi sempre la gente per il suo verso.

 

(Cerca di adattarti al carattere altrui).

 

 

Er pelandrun i cangeà

candu l’aiga la secheà ‘r fen.

 

Il pelandrone cambierà

quando l’acqua seccherà il fieno.

 

(Cioé mai).

 

 

Tristu ‘r poveu si deventa ricu.

 

Tristo il povero se diventa ricco.

 

(Il nuovo ricco è spesso più cattivo di chi ricco è nato).

 

 

L’enteressu i spartissa ‘r pae e ‘r fiu.

 

L’interesse divide il padre dal figlio.

 

 

 

Gli insetti e i bambini

Basaprete zünza e man

che senù i te mazeàn.

 

Mantide congiungi le mani

altrimenti ti ammazzeranno.

 

(La mantide religiosa si chiama così proprio per il modo in cui avvicina le zampe anteriori, come se si disponesse alla preghiera).

 

 

Viöa, viöa

‘nsegname a via pe’ andae àa scöa.

 

Maggiolino, maggiolino

insegnami la strada per andare a scuola.

 

(Il maggiolino (aiutato) prendeva la direzione della scuola).

 

 

 

Gli animali nei detti biassèi

Andàe ae pégue.

 

Pascolare le pecore.

 

 

Avée a pevìa.

 

Avere la pipita.

 

(Avere cioé sempre sete come le galline).

 

 

Avée ciü corne ca na panea de lümaghe.

 

Avere più corna che una cesta di lumache.

 

 

Avée ciü mai ca ‘r can du ciavain.

 

Avere più mali del cane del chiavarese.

 

(sette mali soltanto sotto la coda).

 

 

Avée i oci der farchetu.

 

Avere gli occhi del falchetto.

 

(Vedere molto bene).

 

 

Avée na simia che ne finissa ciü.

 

Avere una sbornia da non finire.

 

 

Avée ‘n büzu cume na sarpa.

 

Avere un buzzo (1) come quello di una salpa.

 

(1) grosso

 

 

Avée u sc-ciopu dae cane storte:

spaàe ai merli e ciapae i grili.

 

Avere il fucile con le canne storte:

sparare ai merli e colpire i grilli.

 

(Rivolto ai cacciatori che non sanno sparare).

 

 

Porcu cussì.

 

Porco così.

 

(I Biassèi erano bestemmiatori. Taluni adoperavano questo eufemismo).

 

 

Possa mangiate e furmigue russe.

 

Che ti mangiassero le formiche rosse.

 

 

Possa mangiate i bui.

 

Che ti mangiassero i calabroni.

 

 

Te me pai ‘r galu da “sia Checa”.

 

Mi sembri il gallo della signora Francesca.

 

(Che si riteneva più gallo dei galli).

 

 

Èsse a cavalu a l’ase.

 

Essere a cavallo dell’asino.

 

(Avere raggiunto il proprio scopo).

 

 

Èsse der gatu.

 

Essere de gatto.

 

(Sentirsi debole fisicamente o moralmente).

 

 

Èsse gnuànte cume na pégua.

 

Essere ignorante come una pecora.

 

 

Èsse ‘n piòciu refatu.

 

Essere un pidocchio rifatto.

 

(Un morto di fame che per aver visto qualche soldo si crede un Creso).

 

 

Èsse pèzu de na furmìgua russa.

 

Essere peggio di una formica rossa.

 

(Per dare fastidio sa il fatto suo).

 

 

Èsse svertu cume ‘n gatu de ciùngiu.

 

Essere svelto come un gatto di piombo.

 

(Chissà che corse!…).

 

 

Fae i gatin.

 

Fare i gattini.

 

(Dare di stomaco).

 

 

Ne fae l’ase che ‘r fen i custa cau.

 

Non fare l’asino che il fieno costa caro.

 

 

Ne lu tröva mancu u luvu.

 

Non lo trova nemmeno il lupo.

 

(Tanto è imbacuccato).

 

 

Nun èsse nì oca nì useu.

 

Non essere né oca né uccello.

 

(Non avere carattere).

 

 

Pistae cume ‘n purpu.

 

Pestare come un polpo.

 

(Deriva dall’abitudine che vi era di pestare un polpo con una bacchetta di fico per anticiparne la cottura).

 

 

Rümegae cume l’ase de Ligera.

 

Ruminare come l’asino di Ligera.

 

(Personaggio di Biassa degli anni ‘20 -’30).

 

 

Scrinciàe cume ‘n grilu.

 

Saltare come un grillo.

 

 

Stae stencu cume ‘n tucafissu.

 

Stare rigido come uno stoccafisso.

 

 

Èsse pèzu ca ‘n ossu de bissa.

 

Essere peggio di un osso di biscia.

 

(Che si divincola anche dopo morta).

 

 

Gh’en è per l’ase e che lu mena.

 

Ce n’è per l’asino e per chi lo guida.

 

(Ce n’è per tutti).

 

 

L’ase i porta ‘r vin e i beva l’aiga.

 

L’asino porta il vino e beve l’acqua.

 

(Si dice del viticultore astemio).

 

 

Mangiae ‘r cunigiu cun l’arfèu e tütu.

 

Mangiare il coniglio con il fiele e tutto.

 

(Essere avaro al massimo).

 

 

Nasae tütu cume ‘n can da tartüfi.

 

Odorare tutto come il cane da tartufi.

 

(Essere schizzinoso nel mangiare).

 

 

Parla candu pissa a gaìna.

 

Parla quando piscia la gallina.

 

(Cioè: mai).

 

 

Porcu netu i n’è stà mai grassu.

 

Porco pulito non fu mai grasso.

 

(La pulizia non è tutto, occorrono anche altre virtù).

 

 

Er cucü i fa i öve ‘n tru nidu di àutri.

 

Il cuculo fa le uova nel nido degli altri.

 

(Chi approfitta per insediarsi nelle proprietà di altri).

 

 

Trotu d’ase pogu i düa.

 

Trotto d’asino poco dura.

 

(Chi vuol fare tutto e subito smetterà presto).

 

 

T’èi ‘n ase cauzà e vestì.

 

Sei un asino valzato e vestito.

 

(Non vali niente).

 

 

 

Versi scherzosi

Derdentadu muru de vezza

i pioci ‘n tra cavezza,

derdentadu muru de ruca

i pioci ‘n tra capucia.

 

Sdentato muso di veccia

i pidocchi nella cavezza,

sdentato muso di rocca

i pidocchi nella capoccia (1).

 

(1) testa

 

 

Bagadan i ava ‘n custüme

a cagae, i purteva u lüme.

 

Bagadan (1) aveva un costume

per cagare, portava il lume.

 

(1) personaggio immaginario

(Uomo prudente che voleva vederci chiaro anche al gabinetto).

 

 

 

Invettive

Possa vegnite ‘n cancau.

 

Che ti venisse un cancro.

 

(Tremendo anatema).

 

 

Possa vegnite ‘n carbunciu.

 

Che ti venisse un carbonchio.

 

(Anche questa maledizione, come la precedente, era pronunciata quando queste malattie erano poco conosciute e di conseguenza poco curabili).

 

 

Posti abrüsae.

 

Che tu possa bruciare.

 

(Pronunciata quasi esclusivamente in tono scherzoso).

 

 

Posti desfunduate cume na riza.

 

Che tu possa sfondarti come un riccio (1).

 

(1) di castagno

(Rivolta a chi fa suoni… sconvenienti).

 

 

Posti èsse a bèi menizzi.

 

Che tu possa essere fatto a pezzettini.

 

 

Posti esse tridu cume a Macüba.

 

Che tu possa essere tritato come la Macuba (1).

 

(1) il tabacco

 

 

Posti muìe.

 

Che tu possa morire.

 

 

Posti ‘ncechìe.

 

Che tu possa acceccare.

 

 

Posti runpite ‘r colu.

 

Che tu possa romperti il collo.

 

 

Posti sgarate cume ‘na riza.

 

Che tu possa spaccarti come un riccio (1).

 

(1) di castagno.

(Ci si può “spaccare” dal pianto come dal riso).

 

 

Posti stucate ‘r colu.

 

Che tu possa spezzarti il collo.

 

 

Te vègna na saìta.

 

Ti colga una saetta.

 

 

Possa mangiate u diavu.

 

Possa mangiarti il diavolo.

 

(Si dice a chi ha paura di tutto, anche della sua ombra).

 

 

Posti èsse santu.

 

Che tu possa essere santo.

 

 

Posti èsse orbu.

 

Che tu possa essere orbo.

 

 

 

Detti per ogni occasione

Avée ‘r magun ‘n su stömegu.

 

Avere il magone sullo stomaco.

 

(Avere qualche problema senza poterlo esprimere).

 

 

Avée rètu.

 

Essere stato padrino (1) di battesimo.

 

(1) o madrina

 

 

Avée ‘r capèu a l’orza.

 

Avere il cappello all’orza.

 

(Darsi delle arie).

 

 

Avée ‘r cöe strùbedu.

 

Avere il cuore torbido.

 

(Avere risentimento con qualcuno).

 

 

Avée ‘r fangotu.

 

Avere il fagotto.

 

(Essere incinta senza essere sposata).

 

 

Avée ‘r gotu.

 

Avere il bicchiere.

 

(Essere ubriaco).

 

 

Avée ‘r marchese.

 

Avere le mestruazioni.

 

(Essere di luna traversa).

 

 

Avée poüa che a tera ghe manca.

 

Avere paura che terra gli manchi.

 

(Preoccuparsi eccessivamente).

 

 

Büfae cume ‘n stantüfu.

 

Soffiare come uno stantuffo.

 

(Chi ansima durante una salita).

 

 

Caciàe aa ranfa.

 

Buttare a caso.

 

(Per essere arraffato, come i confetti degli sposi).

 

 

Ciantàe ciòdi.

 

Piantare chiodi.

 

(Contrarre debiti).

 

 

Custàe l’ociu da tèsta.

 

Costare come l’occhio della testa.

 

(Una cifra spropositata).

 

 

Dàe al’aia ‘r caru.

 

Dare all’aria il carro.

 

(Rompere un accordo o piantare lì un lavoro per stanchezza o insofferenza).

 

 

Dàe a màma.

 

Dare a balia.

 

 

Dàe a se camisa ai autri.

 

Dare la sua camicia agli altri.

 

(Incolpare gli altri delle proprie colpe).

 

 

A te sun grà.

 

Te ne sono grato.

 

 

Auzae ‘r gömedu.

 

Alzare il gomito.

 

(Ubriacarsi).

 

 

Avee a lüna storta.

 

Avere la luna storta.

 

(Non essere di buon’umore).

 

 

Amigu o nun amigu,

china zü dar pé der figu.

 

Amico o non amico,

scendi dalla (1) pianta di fico.

 

(1) mia

(Non occupare senza permesso la mia proprietà).

 

 

Andae ai spusi.

 

Essere invitati ad un matrimonio.

 

 

Dua anime ‘n tre ‘n nuciu.

 

Due anime in un nocciolo.

 

(Essere compari nelle cattive azioni).

 

 

Sta zìtu, galüzu.

 

Stai zitto, stronzo.

 

 

Dae a stanghéta.

 

Dare la passatina.

 

(Un piccolo sfottò).

 

 

Dae a tàcia.

 

Dare la colpa.

 

(In modo subdolo, a chi colpa non ha).

 

 

Dae i cauzi àa rasun.

 

Dare i calci alla ragione.

 

(Non sapere né parlare né stare zitto).

 

 

Dae lòi da cumuniùn.

 

Dare urla da comunione.

 

(Chissà perché! Comunque, urlare al massimo).

 

 

Dae na man de giancu.

 

Dare una mano di bianco.

 

(Caricare di bòtte).

 

 

Dae n’ ucià.

 

Dare un’occhiata.

 

(Tenere d’occhio qualche cosa o qualcuno).

 

 

Dae recatu a na dona.

 

Accudire ad una donna.

 

(In ogni senso).

 

 

Dae rèta.

 

Ubbidire.

 

 

Dae ‘r mendu.

 

Dare la passata.

 

(Sfottere).

 

 

Dàghele sutu àa cua.

 

Dagliele sotto la coda.

 

(Dagliela vinta).

 

 

Digeìe anca i ciòdi.

 

Digerire anche i chiodi.

 

 

Dasse ‘r gavin.

 

Mettersi il nodo scorsoio.

 

(Impiccarsi).

 

 

Destrüze ‘r fèru.

 

Distruggere il ferro.

 

(Consumare in poco tempo tutto ciò che si indossa).

 

 

Dessuteràe i morti.

 

Dissoterare i morti.

 

(Implorare, chiedere, pretendere in modo ossessivo).

 

 

Diu i t’ en renda mèitu.

 

Dio te ne renda merito.

 

 

Èsse a fin der mundu.

 

Essere la fine del mondo.

 

(Piovere a dirotto. Essere qualche cosa di eccezionale).

 

 

Èsse ai ürtimi stremiti.

 

Essere allo stremo.

 

(Stare per morire).

 

 

Èsse a pan fissu.

 

Essere a pane fisso.

 

(Avere un lavoro stabile).

 

 

Èsse a pé de bun padrun.

 

Essere ai piedi di un buon padrone.

 

(Avere un buon impiego).

 

 

Èsse bèu resemà.

 

Essere bello riempito.

 

(Di cibo e di bevande).

 

 

Èsse bun cume ‘n tocu de pan.

 

Essere buono come un pezzo di pane.

 

(Una persona con un buon carattere).

 

 

Èsse de lüna.

 

Essere di luna buona.

 

 

Èsse bursu cume na züca.

 

Essere vuoto come una zucca.

 

(Senza cervello).

 

 

Èsse destanti mili mia.

 

Essere distanti mille miglia.

 

(Dall’argomento di cui si parla o con il pensiero).

 

 

Èsse fàussu cume a muneda de ramu.

 

Essere falso come la moneta di rame.

 

 

Èsse fàussu cume Giüda.

 

Essere falso come Giuda.

 

 

Èsse gnècu cume ‘r mau de panza.

 

Essere noioso come il mal di pancia.

 

 

Èsse levà a brüsàie de pan.

 

Essere allevato a criciole di pane.

 

(Cioè con una attenzione ed una cura certosina, con pignoleria).

 

 

Èsse l’övu du l’Ensensiùn.

 

Essere l’uovo dell’Ascensione.

 

(Figlio unico coccolato e viziato).

 

 

Èsse magru cume ‘n ciòdu.

 

Essere magro come un chiodo.

 

 

Èsse ‘na buna furcina.

 

Essere una buona forchetta.

 

(Un buongustaio e un gran mangiatore).

 

 

Èsse ‘na pèsta.

 

Essere una peste.

 

 

Èsse ‘na schena drita.

 

Essere una schiena dritta.

 

(Senza voglia di lavorare).

 

 

Èsse ‘n bacücu ‘nbacücà.

 

Essere un baccucco imbacuccato.

 

(Una persona da ridere, senza ragionamenti seri).

 

 

Èsse ‘nbriagu pèrsu.

 

Essere ubricaco fradicio.

 

 

Èsse ‘n brütu sügètu.

 

Essere un brutto soggetto.

 

(Un poco di buono).

 

 

Èsse ‘n buleta.

 

Essere in bolletta.

 

(Non possedere nemmeno un centesimo).

 

 

Èsse ‘n mangiapan a tradimentu.

 

Essere un mangiapane a tradimento.

 

(Chi sfrutta la propria famiglia o il prossimo).

 

 

Èsse ‘n mèzu ai ravati.

 

Essere in mezzo a cose di poco conto.

 

 

Èsse ‘n susena.

 

Essere in ghingheri.

 

 

Èsse ‘n tichéta.

 

Essere vestito secondo l’etichetta.

 

 

Èsse ‘n tra brata.

 

Essere nella melma.

 

(Cioè in una situazione da cui è difficile venir fuori).

 

 

Èsse nüdu crüdu.

 

Essere nudo crudo.

 

(Non avere ricambi di vestiario).

 

 

Èsse ‘nzücà.

 

Essere tonto o raffreddato.

 

 

Èsse passà ar crövélu.

 

Essere passato al crivello.

 

(Essere il migliore).

 

 

Èsse pecenin de zervèu.

 

Avere poco cervello.

 

 

Èsse renicià dàa freva.

 

Essere rannicchiato per la febbre.

 

 

Èsse rentrunà cume ‘n zücu.

 

Essere rintronato come una zucca.

 

(Rimbambito).

 

 

Èsse segnà da Cristu.

 

Essere segnato da Cristo.

 

(Per le deformità fisiche).

 

 

Èsse stencu cume ‘n mortu.

 

Essere rigido come un morto.

 

 

Fae ‘na resuadüa.

 

Fare una risuolatura.

 

(Accoppiarsi con una donna).

 

 

Fae ‘n grossu résegu.

 

Fare un grosso rischio.

 

 

Fae ‘n stràiu.

 

Fare un disordine.

 

(Anche averla vinta picchiandosi con più persone).

 

 

Fae pàia a Tramunti.

 

Fare paglia (1) a Tramonti.

 

(1) dormire

 

 

Fae ‘r mànegu.

 

Fare il manico.

 

(Sfottere).

 

 

Fae ‘r panetu.

 

Fare il panetto.

 

(Mettere in mostra il bicipite del braccio sinistro).

 

 

Fae stridàe.

 

Fare arrabbiare.

 

 

Fae vegnie l’agru ai cuiùn.

 

Fare venire l’acidità ai coglioni.

 

(Rompere pesantemente le scatole).

 

 

Fate véde!

 

Fatti vedere!

 

(Dal neurologo. Rivolto a chi ha atteggiamenti strani).

 

 

Frasca de mazu.

 

Frasca di maggio.

 

(Persona volubile che cambia facilmente parere).

 

 

Fümae cume ‘n türcu.

 

Fumare come un turco.

 

(Smodatamente).

 

 

Gastae i tratati.

 

Guastare i trattati.

 

(Rompere i rapporti con parenti o amici).

 

 

Issàe ‘r cüu daa carega.

 

Alzare il sedere dalla seggiola.

 

(Smettere finalmente di poltrire).

 

 

La ghe stà.

 

Ci stà.

 

(Riferito a una ragazza...)

 

 

Làssalu bùie ‘n tru se brödu.

 

Lascialo bollire nel suo brodo.

 

(Che risolva da solo i suoi problemi).

 

 

Mancàe anca ‘r banbàsu

per zende u lüme.

 

Mancare pure la bambagia

per accendere il lume.

 

(Estrema miseria).

 

 

Mangiàe de strangussùn.

 

Mangiare in fretta e furia.

 

 

Mangiàe l’erba tacà ai pozi.

 

Mangiare l’erba attaccata ai muri.

 

(Piuttosto che abbassarsi a certi compromessi sul lavoro).

 

 

Menàe sbàru.

 

Fare ingombro.

 

 

Mete a pustizu.

 

Mettere a posticcio.

 

(Sistemare provvisoriamente).

 

 

Mete i scüi aa fenèstra.

 

Mettere gli scuri alla finestra.

 

 

Mete ‘nseme a zéna cun u desinàe.

 

Mettere insieme la cena e il desinare.

 

(Riuscire a stento a mangiare due volte al giorno).

 

 

Mete ‘r ganciu adossu.

 

Mettere il gancio addosso.

 

(Scegliersi una vittima per poter esercitare soprusi e umiliazioni).

 

 

Molu cume ‘n figu.

 

Molle come un fico.

 

(Detto di solito di chi ha superato una malattia).

 

 

Muru de muzza.

 

Muso di mozza.

 

(Offesa scherzosa a chi si da troppe arie).

 

 

‘Na manega de ladri.

 

Una manica di ladri.

 

(Una combutta di disonesti).

 

 

Nasse ‘n tru banbasu.

 

Nascere nella bambagia.

 

(Nascere fortunati).

 

 

‘Nfina che la düa.

 

Finché dura.

 

 

Nun dae mancu de püa.

 

Non dare nemmeno la polvere.

 

(Essere avaro).

 

 

Nun esse bun da ‘n belin.

 

Non essere buono a fare niente.

 

 

Nun fae na pàa de ben.

 

Non fare nulla di bene.

 

(Sbagliare tutto).

 

 

Nun vurete mancu ‘n tra stala

a fae u ledeme.

 

Non volerti nemmeno nella stalla

a fare il letame.

 

(Rivolto a una persona grama, poco affidabile).

 

 

Ociu stranbu.

 

Occhio strabico.

 

(Chi ragiona uscendo dal tema).

 

 

Paàe a man.

 

Porgere la mano.

 

(Chiedere l’elemosina. Chiedere qualche cosa a tutti).

 

 

Paée na baanzèla ‘n mezu ar mae.

 

Sembrare una bilancella in mezzo al mare.

 

(L’andatura tipica dei primi passi di un bambino).

 

 

Paée na trepezina.

 

Sembrare un piccolo treppiede.

 

(Una bimba che fa i capricci e batte i piedi).

 

 

Paée ‘nbausamà.

 

Sembrare imbalsamato.

 

(Rimanere esterrefatto davanti a una improvvisa notizia).

 

 

Paée ‘n gaavùn

che regüa a mèrda.

 

Sembrare uno stercorario (1)

che rotola lo sterco.

 

(1) scarabeo

 

 

Paée ‘n magnàn.

 

Sembrare un fabbro.

 

(Quando qualcuno era tutto sporco di fuliggine).

 

 

Paée u retratu da salüte.

 

Sembrare il ritratto della salute.

 

(Essere in piena forma).

 

 

Pesàe e paoe cun ‘r baanzìn.

 

Pesare le parole col bilancino.

 

(Essere prudenti nell’esprimersi).

 

 

Piàe burdeghi e baleti.

 

Prendere mondine e ballotte.

 

(Prendere tutto ciò che capita).

 

 

Piàe carcò ‘n tre chelu der barba abrétiu.

 

Prendere qualche cosa nel terreno dello zio abretiu (1).

 

(1) era lo zio immaginario di tutti che si sentivano, grazie a questa improbabile parentela, ironicamente autorizzati ad impadronirsi dei beni altrui.

(Rubare nei terreni altrui).

 

 

Piàe de pica.

 

Prendere per ripicca.

 

(Impuntarsi).

 

 

Piàe ‘na pata.

 

Prendere un colpo (1).

 

(1) per terra

 

 

Piàe ‘na storta.

 

Prendere una storta.

 

(Una slogatura al piede o alla caviglia).

 

 

Piàe pé a manécia.

 

Prendere per la maniglia.

 

(Per il manico. Sfottere).

 

 

Piàe u rescàudu.

 

Prendere il riscaldo.

 

(Avere qualche infiammazione. Ammalarsi di

blenorragia).

 

 

‘Nciantàe baraca e buratin.

 

Lasciare baracca e burattini.

 

(Piantare lì tutto).

 

 

Piàne na furcinà.

 

Prenderne una forchettata.

 

(Un po´ di sesso alla svelta).

 

 

Piàe senpre e géntie pe´ lu se vèrsu.

 

Prendere sempre la gente per il suo verso.

 

(Cercare di adattarsi al carattere altrui).

 

 

Piasse ‘n rescaudamentu.

 

Predersi un riscaldamento.

 

(Caricarsi di una incombenza non strettamente necessaria).

 

 

Restàe a lèrfi süti.

 

Restare a labbra asciutte.

 

(A bocca asciutta. Spalancata. Rimanere senza niente).

 

 

Reziàe i descursi cume e giachete.

 

Rigirare i discorsi come fossero giacche.

 

(Mancanza di coerenza).

 

 

Runpìe e cùie.

 

Rompere i coglioni.

 

 

Runpìsse i stinchi.

 

Rompersi le gambe.

 

 

Savée de bòia.

 

Puzzare di fogna.

 

 

Schizzàe i calai.

 

Schiacciare i calli.

 

(Dare noia a qualcuno).

 

 

Sc-ciancàe a suga.

 

Strappare la corda.

 

(A forza di rompere …, la corda si strappa).

 

 

Si avesse e püme i vueàve.

 

Se avesse le piume (1) volerebbe.

 

(1) con l’importanza che si dà

 

 

Si tröva chelu c’ à ‘nventà u lavùu,

prima i lu turtüa e po´ i lu mazza.

 

Se trova quello che ha inventato il lavoro, prima lo tortura e poi lo ammazza.

 

(Detto di chi è proprio uno scansafatiche).

 

 

Spaàe a l’orba.

 

Sparare a casaccio.

 

(Incolpare qualcuno senza avere le prove).

 

 

Spaàe rüci cume canunà.

 

Sparare rutti come cannonate.

 

 

Sucede ‘n desessète.

 

Succedere un diciassette.

 

(Succedere un finimondo, qualche cosa di tragico).

 

 

Spazzase ‘r cüu cu’ ‘n curiandolo.

 

Pulirsi il sedere con un coriandolo.

 

(Il colmo dell’avarizia).

 

 

Stàe ‘nseme.

 

Stare assieme.

 

(Convivere senza essere sposati).

 

 

Strénze a cureza.

 

Stringere la cinghia.

 

(Fare la fame).

 

 

Sügàe ‘r mae cun ‘n cüciau.

 

Prosciugare il mare con un cucchiaio.

 

(Fare una cosa senza senso).

 

 

Tacàe ‘r capèu.

 

Attaccare il cappello.

 

(Sposarsi per interesse).

 

 

Tiàe ‘r birociu.

 

Tirare il birroccio.

 

(Mantenere la famiglia).

 

 

Tremàe cume ‘na foia d’arbuèla.

 

Tremare come una foglia di pioppo.

 

(Chi ha paura di tutto e trema ad ogni alito di vento).

 

 

Trövàe a scarpa pe´ lu se pé.

 

Trovare la scarpa adatta al suo piede.

 

(Il prepotente prima o poi trova sempre qualcuno che lo mette al suo posto).

 

 

U dinàu da nùse.

 

Il danaro della noce.

 

(Era una mancia che, soltanto a Natale, veniva data ai bimbi. Oltre ai pochi soldi, venivano date ai bambini noci, fichi secchi, arance, ecc.)

 

 

U tenpu i ciòzza.

 

Il tempo chioccia.

 

(Le nuvole si addensano e la pioggia si avvicina).

 

 

U tenpu i è àa macaìa.

 

Il tempo è umido ed instabile e la pioggia probabile.

 

 

Vede de còtu.

 

Vedere di cotto.

 

(Avere la speranza di poter mangiare un pasto caldo).

 

 

Vencìe l’ociu.

 

Riempire l’occhio.

 

(Farsi notare od essere notato, a seconda dei punti di vista).

 

 

Vencìe ‘r bancau.

 

Riempire la cassapanca.

 

(Con le provviste per l’inverno).

 

 

Vegnie l’aigheta ‘n buca.

 

Venire l’acquolina in bocca.

 

 

Vegnie n’aiga a delügi.

 

Piovere a dirotto.

 

 

Zéndese cume n’azzain.

 

Accendersi come un acciarino.

 

(Chi è impulsivo e prende fuoco per un nonnulla).

 

 

Cunsümàsse cume ‘r banbasu ‘n tru lüme.

 

Consumarsi come la bambagia nel lume.

 

(Deperire fisicamente per malattia, per fame o per pressanti preoccupazioni).

 

 

Èsse cativu cume a pèsta.

 

Essere cattivo come la peste.

 

 

Finìe sutu ai cipressi.

 

Finire sotto ai cipressi.

 

(Al camposanto).

 

 

Avée i bochi ‘n tra staca.

 

Avere le spine in tasca.

 

(Essere avaro).

 

 

Avée u limu au stömegu.

 

Avere languore allo stomaco.

 

 

Che g’ à ciù giüdiziu lu dùvea.

 

Chi ha più giudizio lo adoperi.

 

 

Cianze cume na vigna taià.

 

Piangere come un tralcio di vite tagliato.

 

(in primavera quando la vigna è “in sugo”).

 

 

Che Diu te ‘n renda mèitu.

 

Che Dio te ne renda merito.

 

(Dell’aiuto che mi hai dato).

 

 

Ciöva cume Diu la manda.

 

Piove come Dio la manda.

 

(Piove a dirotto).

 

 

I è cume u diavu e a cruse.

 

È come il diavolo e la croce.

 

(È l’opposto di tutto ciò che è normale).

 

 

Pan per pan, i fradi i gh’en àn.

 

Pane per pane, i frati ne hanno.

 

(Disse un vagabondo a chi gli aveva offerto un lavoro in cambio di pane e alloggio).

 

 

Se disa ‘r pecatu, nun ‘r pecadùe.

 

Si dice il peccato, non il peccatore.

 

 

Se e carte l’èn caànta…

 

Se le carte sono quaranta…

 

(Se non ci sono imbrogli o imprevisti...)

 

 

Trövàe u Signue ‘ndurmì.

 

Trovare il Signore addormentato.

 

(Avere la fortuna di fare ciò che si vuole).

 

 

Tütu chelu che l’omu i mücia,

u diavu i lu arüfa.

 

Tutto quello che l’uomo ammucchia,

il diavolo lo sparpaglia.

 

 

U diavu i ghe meta a cua.

 

Il diavolo ci mette la coda.

 

 

U Signue i è giüstu.

 

Il Signore è giusto.

 

(Nelle dispute infantili la frase veniva pronunciata a carico di chi, dopo avere fatto una marachella, inciampava e cadeva: era il castigo di Dio).

 

 

A beve l’aiga, la nassa e rane ‘n tra panza.

 

A bere l’acqua, nascono le rane nella pancia.

 

(Così si giustifica il beone).

 

 

A te cugnussu gatu russu.

 

Ti conosco gatto rosso.

 

(So bene chi sei!)

 

 

Avée l’anàstegu cume ‘r can da càcia.

 

Avere il fiuto come il cane da caccia.

 

(Intuire subito un pericolo o un tranello).

 

 

Ciucàe cume a müa der Meneghin.

 

Dare di testa come la mula di Domenico.

 

(Che non doveva essere molto docile).

 

 

Èsse ciü semu ca a mae de l’agneu.

 

Essere più scemo della madre dell’agnello.

 

(Della pecora).

 

 

Èsse ladru cume ‘na bèlua.

 

Essere ladro come una faina.

 

 

Savée de bestin.

 

Odorare di bestia.

 

(Avere addosso un odore sgradevole, da persona poco pulita).

 

 

A voùte i se ciapu, a voùte i scapu.

 

A volte si prendono, a volte scappano (1).

 

(1) i pesci

(Diceva un pescatore di frodo, che passava le giornate ad osservare le cernie, sulla rocca del Muntunau, e non sempre riusciva a catturarle).

 

 

Ghe passa u giüstu pe´ lu pecatùe.

 

Ci passa il giusto per il peccatore.

 

 

I fidé de Tramunti.

 

La pasta di Tramonti.

 

(Fatta in fretta e furia (per poter mettere qualche cosa di caldo nello stomaco, dicevano i contadini) con un po´ di verdura, tanta acqua ed un pochino di pasta, fidé. Certo non un gran piatto!)

 

 

La g’ à a se cà a Biassa e ‘n Tramunti,

u se fùu denanzi e dendaré.

 

Ha la casa a Biassa e a Tramonti,

il suo foro davanti e di dietro.

 

(È la sposa ideale!)

 

 

 

 

 

Favole

 

Pursemulina

La gh’ea ‘na vòuta ‘na dona ‘n stati ‘nteressanti che la vedete ‘n tre n’ ortu der bèu pursemu e la ghe vegnite voia de piassene ‘n pò.

Mentre la lu cuiva la la trövete a Fada cativa, che l’ea a padruna de l’ortu. Per punila d’aveghe rubà er pursemu, la se la vureva mangiae. “Ne me mangiae, la ghe disete, sa g’aveò carcün a te lo daò; se la saà fémena a la ciameò Pursemulina, se i saà mas-ciu a lu ciameò Pursemulin.

La g’avete na fantèla e la la ciamete Pursemulina.

Candu Pursemulina la deventete grandeta, a Fada cativa la la vurete lé, cume l’ea remasa d’acòrdiu cun se mae che, anca se la ne ghe l’aveave ciü vussü dae, l’ea sta custreta a daghela datu che cun e fade, speciarmente chele cative, ne se ghe schèrza.

La passete i agni e a fada la deventete giùsa de chesta zuveneta che l’ea bèla, ar cuntrariu de lé che l’ea vècia e brüta.

Per levasela davanti ai oci, la decidete de fala mangiae da n’autra fada, cativa cume lé, che la steva destante e che per arivaghe la duveva passae tanti periculi.

‘N tre ‘n modu o ‘n tre n’autru, la pensete, la ne turneà ciü. La ghe dete na scatua cena de balain d’ou, disendughe de nun ravila e de purtala àa se amiga fada.

Pursemulina, che l’ea cüusa, pe’ la via la ravite a scatua per miae cuse la gh’ea drentu. I balain d’ou i surtitu tüti e lé la zercheva de remeteli drentu ma candu la ’n ciapeva ün, la gh’en scapeva dui, ‘nsuma l’ea despeà.

Mentre l’ea li che la cianzeva ar penseu de cuse la g’aveave fatu a fada per avela desubedì, se ghe avisinete ‘n bèu zuve ben vestì chi se ciameva Memé.

Lü i ghe disete che se la ghe deva ‘n basu i g’aveave remissu tuti i balain d’ou drentu àa scatua. “Anziché da Memé esser baciata piuttosto dalla fata strangolata”, la ghe respundete. Alua Memé cun ‘n gèstu da se bacheta magica i fete reentrae i balain ‘n tra scatua, anca se la ne g’ava datu ‘r basu.

Candu la ghe disete che la duveva andae a purtae a scatua dàa fada ‘n tre chelu palaziu destante, Memé i capite che chi ghe l’ava mandà i vureva fae der mau a Pursemulina e sicume i vedete che l’ea bèla e ‘ngenua e i se gh’éa zà ‘nnamuà i decidete de agiütala. I ghe disete:

“Per arivae daa fada, lüngu a via te tröveai dui can cativi ch’i se danu tra de lùu e candu t’arivi i te vurean mangiae, alua te ghe daài stu tocu de pan e lùu i te lassean passae. Dopu te tröveai ‘n scarpau chi cüsa e scarpe cun i se cavei; te ghe daài chestu spagu e i te faà passae. Te camineai anca ‘n pò e te tröveai dua porte che la sbatu üna cuntru l’autra e la te ‘npedian de passae: te le ünzeai cun sta sünza e lùu la smetean de sbate e la te faàn passae. T’ariveai ar palaziu e te vedeai che per muntae daa fada ghe saà ‘na scàa de védeu; aia l’ociu de nun runpìe i scain. Candu te entreai ‘n tra canbea, se a fada la g’à i oci ravèrti vö die che la dorma (e fade la dormu cussì) e se la i à sarà, stà ‘n guardia perché alua l’è sveia...”

Cussì la fete.

Ai can la ghe dete ‘r pan e i la fetu passae, anzi i ghe disevu:

“Corri, piccina, corri, che non ti facciamo niente”; u scarpau candu i avete u spagu i ghe disete: “Corri, piccina, corri”; la ünzete per ben e porte cun a sünza tanto che la remanetu bèle ravèrte e mentre la passeva la sentiva ‘na vuse che la ghe diseva: “Corri, piccina, corri”.

Aa fin la arivete ar palaziu da fada e ciancianin la muntete a scaa de vedeu e la entrete ‘n tra canbea. A fada la g’ava i oci raverti e la durmiva. Pursemulina la pusete ‘n ser cumudin a scatua di balain d’ou e daa poüa la scapete.

A scaa de vedeu la se runpite ma Pursemulina la ne se fete gnente, e porte la se ravitu per fala passae, u scarpau senpre gridandughe “corri, piccina, corri” i la fete passae, i can turna e la arivete unde la ghea Memé ch’i l’aspeteva. A fada der palaziu, au rumue da scàa ruta, la se sveiete e la g’andete adaré ma la ne arivete a ciapala perché la trövete e porte sarà, u scarpau i ne la vureva fae passae, i can i se g’abrivetu.

Pursemulina che l’ea riusì a scanpala bèla per mèitu de Memé, la ghe dete chelu basu chi vureva e dopo pogu i se spusetu.

 

 

 

 

Prezzemolina

C’era una volta una donna in stato interessante che vide in un orto del bel prezzemolo e le venne la voglia di prenderne un pò.

Mentre stava cogliendo il prezzemolo, arrivò la fata cattiva che era la proprietaria dell’orto. Per punire la donna di averle rubato il prezzemolo, voleva mangiarsela.

“Non mi mangiare, le disse, se avrò qualcuno te lo darò; se sarà femmina la chiamerò Prezzemolina, se sarà maschio Prezzemolino”.

Ebbe una femminuccia e la chiamò Prezzemolina.

Quando Prezzemolina divenne grandicella, la fata cattiva la reclamò, secondo gli accordi e la madre, anche se non avrebbe più voluto mantenere il patto, si vede costretta a dargliela dato che con le fate, specialmente cattive, non si scherza.

Passarono alcuni anni e la fata divenne gelosa di questa giovanetta che si faceva ogni giorno più bella, al contrario di lei che era vecchia e brutta.

Per non vederla più, decise di farla mangiare da un’altra fata, cattiva come lei, che abitava lontano. Per arrivare alla casa di costei avrebbe dovuto attraversare molti pericoli.

In un modo o nell’altro, pensò, non tornerà più. Le consegnò una scatola piena di ballerini d’oro, raccomandandole di non aprirla e di consegnarla alla sua amica fata.

Prezzemolina, che era curiosa, per strada aprì la scatola per vedere cosa c’era dentro. I ballerini d’oro uscirono tutti e lei cercava invano di rimetterli dentro: quando riusciva ad acchiapparne uno, gliene scappavano due. Era disperata.

Mentre stava piangendo per la paura della punizione della fata alla quale aveva disobbedito, le si avvicinò un giovane, bello e ben vestito, che si chiamava Memé.

Il giovane le disse che in cambio di un bacio, le avrebbe fatto ritornare i ballerini d’oro dentro la scatola. “Anziché da Memé esser baciata, piuttosto dalla fata strangolata” gli rispose. Però Memé con un gesto della sua bacchetta magica, fece rientrare i ballerini nella scatola, anche se Prezzemolina non gli aveva dato il bacio.

Quando Prezzemolina gli raccontò che avrebbe dovuto andare a portare la scatola dalla fata in quel palazzo lontano, Memé capì subito che chi l’aveva mandata voleva sbarazzarsi di lei e siccome il giovane si era già innamorato di quella giovane così bella e ingenua, decise di aiutarla. Le disse:

“Per raggiungere la fata, lungo la strada troverai due cani cattivi che si azzannano tra di loro e quando arrivi, ti vorranno divorare, allora gli darai questo pezzo di pane e loro ti lasceranno passare. Dopo troverai uno scarpaio che cuce le scarpe con i suoi capelli, gli darai questo spago e vedrai che ti farà passare. Camminerai ancora un pò e troverai due porte che sbattono l’una contro l’altra e ti impediranno di passare: le ungerai con questa sugna e loro la smetteranno di sbattere e ti faranno passare. Arriverai al palazzo e vedrai che per salire dalla fata ci sarà una scala di vetro; fai attenzione a non rompere i gradini. Quando sarai nella sua camera, se la fata ha gli occhi aperti significa che dorme (le fate dormono così), se invece li ha chiusi, stai attenta perché allora è sveglia”.

Prezzemolina fece come le disse il giovane.

Ai cani diede il pane e la fecero passare, anzi la incoraggiavano dicendogli:

“Corri, piccina, corri che non ti facciamo niente”; lo scarpaio quando ebbe lo spago le disse: “Corri, piccina, corri”; con la sugna unse per bene le porte che rimasero aperte e mentre passava sentiva una voce che la incitava: “Corri, piccina, corri”.

Infine arrivò al palazzo dove abitava la fata e piano piano salì la scala di vetro e entrò nella sua camera. La fata aveva gli occhi aperti e quindi dormiva. Prezzemolina posò sul comodino la scatola dei ballerini d’oro e scappò piena di paura.

La scala di vetro si ruppe ma Prezzemolina non si fece alcun male, le porte si aprirono per farla passare, lo scarpaio sempre gridandole “corri, piccina, corri” la fece passare, i cani fecero la stessa cosa e tornò sana e salva dove stava aspettandola Memé. La fata del palazzo, al rumore della scala che si rompeva si svegliò e le corse dietro, ma non arrivò a prenderla perché trovò le porte chiuse, lo scarpaio non voleva farla passare e i cani lei si avventarono contro.

Prezzemolina che era riuscita a scamparla bella, grazie all’aiuto di Memé, gli diede quel bacio che gli aveva chiesto prima e dopo poco si sposarono.

 

 

 

 

U giüdiziu

‘N’anu, per san Martin, che l’è a festa ciü grande de Biassa, i omi der paese i pensetu ben che per fae na bèla festa la ghe vureva ‘n pò ciù de giüdiziu de l’anu prima perchè per curpa der vin bun de Tramunti, i s’eu ‘nbriagà e pò i s’eu pistà cume purpi. Alua carche giurnu prima de san Martin i mandétu dua persune che la ghe paevu e ciü ‘ndicà a Munterussu da ün che, standu a chei che ghe li mandeva, i g’ava u giüdiziu da vende.

‘Nfati i partitu e i andetu a Munterussu da chela persuna che, candu la sentite cuse i vurevu la capite d’aveghe a che fae cun dui semaciùn e la ghe cighete ’n tre ‘n pò de papeu, ‘n ratu che l’ava aciapà anca vivu n’ tre ‘n rataöu.

Tüti cuntenti, i dui biassèi i repietu a strada per turnae ar paese cun u giüdiziu cigà ‘n tru papeu.

Candu i arivetu daa Madone der Muntau, surve Rimazue, i se mietu ‘n pò ‘n tra facia e i disetu: - Fra pogu a semu a cà e a ne savemu mancu cume i è fatu u giüdiziu. Ravimu ‘r papeu e demughe n’ucià!

Cussì i fetu, ma u ratu candu i lu des-cighetu dar papeu, i scapete cume ‘n fürmine e i andete a ‘nfiasse ‘n tre na müaia.

I dui puveraci, daa paüa de arivae a Biassa senza u giüdiziu i se metetu a derivae a müaia per zercae de reciapalu.

Mentre chi eu cussì ‘ndafarà, passete dui cuntadin chi andevu ‘n tre tère e i ghe disetu cuse i zerchevu ‘n tre chela müaia.

- U giüdiziu. - i ghe repundetu lùu.

- Ne paa anca a nui autri! - i ghe disetu i rimazuoti, e i se n’andetu.

 

 

Il giudizio

Un anno, per san Martino, che è la festa più importante di Biassa, gli uomini del paese pensarono che per fare in modo che la festa riuscisse bene, ci voleva più giudizio dell’anno precedente quando per colpa del buon vino di Tramonti, si erano ubriacati e se le erano date tra di loro di santa ragione. Così qualche giorno prima di san Martino, mandarono due persone, a loro modo di vedere le più indicate, a Monterosso, da uno che secondo chi lo conosceva, aveva giudizio da vendere.

Partirono e si recarono a Monterosso da quella persona la quale, appena sentì la richiesta, si immaginò di avere a che fare con due sciocchi e consegnò ai due un pezzo di carta con un topo che aveva catturato ancora vivo con una trappola.

Tutti contenti, i due biassèi ripresero la strada per tornare al loro paese con il giudizio ben incartato.

Arrivati nei pressi della Madona der Muntau (Madonna di Montenero), sopra Riomaggiore, si guardarono tra di loro e dissero: - Fra poco siamo a casa e non sappiamo nemmeno come sia fatto il giudizio. Scartiamolo e diamogli almeno un’occhiata!

Così fecero, ma non appena spiegarono la carta, il topo scappò come un fulmine e si infilò in un muro.

I due poveretti, per la paura di arrivare a Biassa senza il giudizio, si misero a sfare il muro per cercare di riprenderlo.

Mentre erano così tanto indaffarati, passarono due contadini di Riomaggiore che si recavano a lavorare nelle loro proprietà e incuriositi gli chiesero cosa cercassero in quel muro.

- Il giudizio. - gli risposero.

- Ci pare anche a noi! - risposero i riomaggioresi, e se ne andarono.

 

 

 

I taiaìn

‘N maì i disete a se muiée de cöseghe dui taiaìn e le la ’n fete dui de nümeu. La i bütete ‘n tre l’aiga buiente per cöseli. Pé miàe si éu coti, la ’n tastete ün e l’autru la lu metete ‘n tru piatu pé dalu da mangiae a se maì.

Candu i vedete cussì, i ghe trövete da die, a se muiée: “Cume, te pàa de cöse dui taiain de nümeu! N’ autra vouta fane de ciù!”

A vouta dopu, candu la refete i taiain, la ’n fete tanti, che ‘n tüti i löghi da cà la ghea taiaìn: ‘n su descu ghea taiaìn, ‘n tra piatélea la ghea taiaìn, ‘nfina ‘n su lètu, la n’ava missu…

 

 

Le tagliatelle

Un marito disse a sua moglie di cuocergli due tagliatelle e lei ne preparò due di numero. Le buttò nell’acqua bollente per cuocerle e per assicurarsi che fossero cotte, ne assaggiò una e l’altra la mise nel piatto per darla a mangiare a suo marito.

Quando vide così, l’uomo disse a sua moglie: “Come, ti sembra di cuocere due tagliatelle di numero! Un’altra volta fanne di più!”

La volta seguente, quando rifece le tagliatelle, ne fece talmente tante che da tutte le parti c’erano tagliatelle: sul tavolo c’erano tagliatelle, nella piattaia c’erano tagliatelle, persino sul letto, ne aveva messo…

 

 

 

 

Bèlafrùnte

Na vouta gh’ea ‘n zuve, fiu de ‘n re, ch’i vureva andae a ziae ‘r mundu. I se fete dae e palanche da se pae e i partite. I arivete ‘n se n’isula dunde la gh’ea n’omu mortu che nessun la vureva purtalu ar canpussantu perché i ea poveu e cen de debiti. Candu i savete de cuse se trateva, Bèlafrùnte i piete na decisiùn e i disete a cheli de l’isula:

“Che g’à polizze e scritüe da mustrae, me, pé lu mortu, a sun pruntu a pagae.”

E i se metete a pagae tüti i debiti der mortu, pagandu anca cheli che ne g’ava diritu perché tüti i se fetu avanti a reclamae palanche.

La andete a finie chi spendete tüti i sodi che g’ava atu se pae e i duvete returnae a cà pulitu cume ‘n man.

Candu u re i savete ‘n che mainea i ava spesu i catrin i ghe disete:

“Privu de ‘ntelètu e malacortu... t’ai

spesu i me dinai ‘n se ‘n omu mortu...”

 

 

Bellafronte

C’era una volta un giovane, figlio di un re, che voleva andare a girare il mondo. Si fece dare i soldi da suo padre e partì. Arrivò su un’isola dove trovò un uomo morto che nessuno voleva portare al cimitero perché era povero e pieno di debiti. Quando seppe di cosa si trattava, Bellafronte prese una decisione e disse agli abitanti dell’isola:

“Chi ha polizze e scritture da mostrare, io, per il morto, sono pronto a pagare.”

E si mise a pagare i debiti del morto, pagando anche quelli che non ne avevano diritto perché tutti si fecero avanti a reclamare quattrini.

Andò a finire che in quel modo spese tutti i soldi che gli aveva dato suo padre e dovette ritornare a casa pulito come in mano.

Quando il re seppe in che maniera aveva speso i soldi gli disse:

“Povero di intelletto e malaccorto… hai speso i miei denari su un uomo morto …”

 

 

 

I taiaìn

‘R cunpae i andete a trövae se cumae.

A cumae la steva bulando a pasta per fae i tiaìn.

La g’ava u rafredue e cun e man ‘npegnà ‘n tra faina ‘npastà la ne pudeva sufiasse u nasu e la g’ava ‘r guzzu.

- Cunpae, a fagu i taiaìn, a ghe sté a mangiae cun nui? - la ghe disete.

- Se ‘r guzzu i ne caia, si, ma si caia,nu! - i ghe respundete.

 

 

Le tagliatelle

Il compare si recò a trovare la sua comare.

La comare stava lavorando la pasta per fare le tagliatelle.

Aveva il raffreddore ma con le mani impegnate nella pasta non poteva soffiarsi il naso per cui aveva il goccio sulla punta del naso.

- Compare, faccio le tagliatelle, volete fermarvi a mangiare con noi? - chiese.

- Se la goccia non cade, si, ma se cade, no.

- rispose.

 

 

 

Bacicia

Bacicia era uno di Biassa, in prigione con l’accusa di avere ucciso un uomo. Di fronte alla sua reticenza ad ammettere il delitto, fu messo in cella con un carabiniere che, facendosi passare per galeotto, aveva l’incarico di carpire la confessione della sua colpevolezza.

Dopo alcuni giorni, visto che Bacicia non si lasciava andare a confidenze, il carabiniere escogitò uno stratagemma per farlo parlare, proponendogli di fare assieme un’ultima cantata, dato che presto lui sarebbe stato liberato.

Sull’aria di una canzone del tempo, il carabiniere in incognito, con frasi inventate magnificava Bacicia il quale compiaciuto ripeteva, cantando, le parole del suo compagno:

 

- E Bacicia i è ‘n bèl’omu...

- E Bacicia i è ‘n galantomu...

- E Bacicia i à mazzà chel’omu...

- E Bacicia i ne canta ciü!...

 

 

Bacicia è un bell’uomo...

Bacicia è un galantuomo...

Bacicia ha ucciso quell’uomo... (1)

Bacicia non canta più!... (2)

 

(1) intonò ad un tratto l’infiltrato

(2) completò Bacicia

 

 

 

Preghea

‘N lètu, ‘n lètu a me ‘n vagu

a me anema a Diu a la dagu

a la dagu a Gesü Cristu

ch’i la segna e i la maìstra.

Ch’i la meta ‘n buna via

‘nseme aa vergine Maìa.

Che u nemigu i ne ghe sia

nì de giurnu, nì de note

nì ‘n tru püntu da morte.

Signue ò da muie e a ne sò candu,

catru grazie a ve dumandu:

Cunfessiùn, Cumeniùn e Oiu Santu

e l’anema meia a ve la racumandu.

 

 

Preghiera

A letto, a letto me ne vado

la mia anima la dò a Dio

La dò a Gesù Cristo

che la segni e la ammaestri.

Che la metta sulla buona via

assieme alla vergine Maria.

Che il nemico non ci sia

né di giorno né di notte

né nel punto della morte.

Signore, devo morire ma non so quando

quattro grazie vi domando:

Confessione, Comunione e Olio Santo

e l’anima mia a voi raccomando.

 

 

 

 

 

 

 

Trascrizione del cd-audio

 

 

Tisbe

 

La Tisbe e suo marito Manfredo hanno gestito per tanti anni l’osteria “Da Manfredo” al Sarecchio a Biassa e poi, quando è stata aperta la Litoranea, sono andati a vendere sopra Campi a Riomaggiore. Avevano panini con le acciughe, la mes-ciüa, frittelle di baccalà, lupini salati, torta di riso salata, sgabèi, insomma tutti cibi che aiutavano a bere tanti bicchieri di vino. Delle Cinque Terre, naturalmente!

Adesso Tisbe ha ottantasette anni, ha messo da parte il grembiule ma ha mantenuto il modo allegro di sempre.

- Devo togliere delle cose (dal tavolo)?

- No.

- Deve parlare in italiano o di Biassa?

- Di Biassa...

- Ah, devo parlare in biassèo.

- Certo.

- Allora una volta c’era Batistùn e a Maìa...

- Aspetti un attimo, signora, aspetti un attimo: lei aveva l’osteria qui... Allora: oggi è il 27 dicembre 2001, siamo a Biassa in casa della signora Tisbe che era la padrona dell’osteria di Biassa...

- Manfredo...

- Osteria Manfredo...?

- Da Manfredo.

- Cos’era quella storia che voleva dire...?

- Ah, raccontavo le canzonette di Biassa e dicevo... Batistùn e a Maìa sono laggiù nell’Arsenale, dentro al... come si chiama... al Museo. Allora... Batistun era con le calze e con i pantaloni alla zuava, tutto... era vestito di mezzalana e la Maìa aveva una gonna larga larga... Gli disse: “O Batistu andiamo sino a Pegazzano?” e lui le rispose “andiamo”. Lei prese la sua rocca e andò giù... lui prese la chitarra. Quando furono a Pegazzano, lui si mise a suonare e lei a filare e allora tutta la gente si radunò: lei aveva un cavagno, tutti gli diedero un po’ di soldi e alla sera Batistùn e a Maìa avevano cantato a tutti i bambini e giovani che si erano riuniti. Alla sera nel cavagno c’erano dei soldi, e disse: “Batistùn, sarà meglio andarcene su a Biassa” “Andiamo...”. Allora vennero su a Biassa, a casa, dove avevano un tavolino e si misero a contare i loro soldini. Diceva lei: “Eh, Batistu, quanti bei soldi abbiamo raccolto, domani ci ritorniamo?” “E ritorniamoci...!”.

Ritornarono anche il giorno dopo e raccolsero ancora un mucchietto di soldi. Poi andarono a casa, si sedettero al tavolino e lei disse: “Batistu, servono per aggiustare il tetto,... ci facciamo aggiustare il tetto con questi bei soldini?” “Va bene...”

Si fecero aggiustare il tetto e così se ne vissero contenti nella loro casetta con il tavolino, grazie a quei soldini che avevano guadagnato filando e suonando...

San Martino venne a Biassa con la sua cappa e la sua corazza e il suo cavallo. Passò dai monti, per venire a Biassa. Quando fu a Biassa, vedendolo così bello, tutti lo guardavano e gli si accostavano. Andavano tutti da lui con il fiasco e il bicchiere pieno di vino e dicevano: “Che bel giovane che è san Martino” e tutti gli davano da bere. E diceva: “Brava gente, è quella di Biassa; io resto qui e non andrò più via, resterò sempre qui a Biassa”.

Infatti san Martino restò per sempre a Biassa a bere bicchieri di vino.

- Infatti la chiesa è dedicata a San Martino.

- Si.

- Qualche canzone vecchia se le ricorda?

- Me le ricorderò, ma non capisco cosa volete dire...

La canzone della Baiunèla...


- Stornelli ce n’erano qui? Tipo botta e risposta...

- Ce n’erano ma ci vorrebbe uno che... La Scrincia-cüo... Era una che gli piaceva lui... e nella notte gli è venuto male e l’hanno portata all’ospedale e la toccavano tutti...

- Perché era bella?

- Si, era bella... Non avevamo neppure un carro ambulanza come si deve. Avevamo un carro con due ruote, aveva due ruote e bisognava spingerlo a mano, da una parte e dall’altra, e la Scrincia-cüo era dentro, perché dentro al carro c’era andato uno a tenerla... che non si sentisse male, invece... e chi spingeva diceva: “Come pesi... come pesi Maìa!..”. Invece c’era un altro uomo, assieme a lei... che gli massaggiava la pancia.

- Erano in due anziché una...

- Invece erano in due...

- Quanti anni ha tenuto l’osteria?

- Cinquanta anni. Eravamo in nove, a vendere il vino. Nove, e tutti vendevano, adesso ne è rimasto uno e non riesce a ricavare le spese.

- Ma i nove chi erano? Ce n’erano tre sulla Piazza del Monumento. C’era Bagun...

- C’era l’Arfù e Derna sua moglie, Maria di Dimare, poi... c’era l’Argentina, lo vendeva il Checco, lo vendeva la Gemma, poi lo vendevo io, Rinaldo e tutti ne vendevano...

- Oltre a bere, cosa facevate da mangiare?

- Facevamo il minestrone, stoccafisso, ballotte, io facevo la torta di riso, tanta torta di riso perché ne vendevo una al giorno...

- Di quelle dolci o salate?

- Salate: da noi non si usano dolci, si fanno se ne abbiamo bisogno noi. Poi sulla Litoranea ho sempre fatto la mes-ciüa, ne facevo dei sacchi... Allora, la ricetta della mes-ciüa: si prende (in biasseo!...), cosa? (in biassèo), cosa? Marcello? (in dialetto...) si prendono i ceci (no... devi parlare in dialetto... in biassèo...)... allora si prendono i ceci, si mettono nell’acqua, si fanno stare un po’ e i fagioli, perché sono più teneri, si mettono da parte...

- E qualche fatto che è successo nell’osteria?...

- Ognuno ha chiuso per conto suo...

- No, no, qualche fatto che è successo nell’osteria...

Quando qui si picchiarono il Meneghìn con Bulacu...

- Ne sono successi tanti: una volta c’erano due: Ivo e Meneghìn. Ivo (si chiamava Baldi) erano qui... paga te, pago io... e... tu ne hai bevuto tre bicchieri, io ne ho bevuto due. Allora a causa di questi bicchieri, all’ultimo sono iniziati i cazzotti, boum, cazzotti, boum, si sono presi a pugni... uno è finito sotto e uno è andato sopra, uno gli ha tirato i capelli che il pavimento sembrava quello di una barbieria. Per le botte, facevano tutti e due sangue. Quando hanno finito si sono abbracciati... si sono abbracciati e baciati.

- Ma chi ha pagato poi?

- Mia madre!

- Chi ha pagato... io... perché più nessuno mi ha dato i soldi.

- Cosa cantavano?

- Cantavano “Quel mazzolin di fiori”... cantavano di quelle canzoni lì... “A Biassa c’è un camin che fuma”...

- Quella lì...

- A Biassa c’è un camin che fuma

è il cuore del mio amore che si consuma.

Se si consuma lascialo consumare

è il cuore del mio amore che vuol bruciare.... Aspettate che prendo la chitarra...

- È capace di suonare la chitarra?

- Prendo la chitarra...

- È capace di suonare...

- Si, con le dita... la suonano tutti...

 

 

 

 

 

Fernanda

 

Fernanda è del ‘21. Non si è mai sposata e ha mantenuto vivi i ricordi dei suoi genitori. Da loro ha imparato le antiche canzoni che accompagnavano i gesti dei biassèi nei campi di Tramonti.

 

- Diceva mia mamma che quando la cantavano lei (nel canto di Maggio) sul Groppo, quando passavano per tutte le strade, dicevano: A voi Assuntina

giovane della casa maggior di voi

Dio vi mantenga, Maggio a voi venga.

Se mi deste un uovo della vostra gallina

Dio ve la salvi dalla faina,

se mi deste una formaggetta della vostra cassapanca

Dio ve lo salvi (il contenuto) per questo santo Natale... Dopo di questa per ora non mi viene in mente nulla.

- Degli stornelli che cantavano a dispetto, ne conoscete alcuni...

- Si, qualcuno si:

Il mio amore me l’ha mandato a dire

se non son morta che possa morire,

io gliene ho mandato a dire una più bella

se non è morto fosse sotto terra.

Il mio amore non vuole più che canti

perché gli è morta la cavalla bianca

ma se gli fosse morta la vacca e il bue

voglio cantare per dispetto suo.

Poi c’è la canzone della marina: 

Alla marina c’è un camino che fuma

è il cuore del mio amore che si consuma.

Se si consuma lasciatelo consumare

è il cuore del mio amore che vuole bruciare.

Poi: Il ramo del peschetto è un bel ramo

è ancora più bello il viso della mia dama,

il ramo del peschetto è un bel fiore

ma è più bello il viso del mio amore.

O che fortuna hai avuto Maria

che da Biassa sei andata a Campiglia,

o che fortuna hai avuto Angelina

che dalla montagna sei andata alla marina.

- Io sono qui in Reboi a fare l’erba

Simone è a scalpellare all’Acqua Fredda. Simone era un giovane che la corteggiava, lei cantava nei campi di Rebui, lui non poteva sentirla dall’Acqua Fredda, ma facevano finta di sentirsi...

 

 

 

 

 

Ada

 

Ada è una biassèa nata nel 1914: ha buona memoria perché si ricorda ancora tutte le poesie imparate alla scuola elementare a Biassa. Il racconto delle “Dodici parole della Verità”, di antica memoria, Ada lo recita con sentimento, convinta che possa essere di aiuto sul modo di morire perché alla fine dice: “Chi sa le dodici parole della verità e chi le sta a sentire, di una brutta morte non potrà morire”.

 

Le dodici parole della verità... allora, si dice:

Ton, ton. - Chi picchia?

- Amici, amici son le una.

- Un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.

Ton, ton. - Chi picchia?

- Amici, amici son le due.

-Due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.

Ton, ton. - Chi picchia?

- Amici, amici son le tre.

- Tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.

Ton, ton. - Chi picchia?

- Amici, amici son le quattro.

- I quattro Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.

Ton, ton. - Chi picchia?

- Amici, amici son le cinque.

- Cinque le piaghe del Signore, quattro gli Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.

Ton, ton. - Chi picchia?

- Amici, amici son le sei.

- Sei le strade che vanno a Gerusalemme, cinque le piaghe del Signore, quattro gli Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.

Ton, ton. - Chi picchia?

- Amici, amici son le sette.

- Sette le lampade di Betlemme, sei le strade che vanno a Gerusalemme, cinque le piaghe del Signore, quattro gli Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo Regno e sempre sia laudà.

- Ton, ton. - Chi picchia?

- Amici, amici son le otto.

- Otto i libri di Mosè, sette le lampade di Betlemme, sei le strade che vanno a Gerusalemme, cinque le piaghe del Signore, quattro gli Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.

Ton, ton. - Chi picchia?

- Amici, amici son le nove.

- Nove i cori degli angeli, otto i libri di Mosè, sette le lampade di Betlemme, sei le strade che vanno a Gerusalemme, cinque le piaghe del Signore, quattro gli Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.

Ton, ton. - Chi picchia?

- Amici, amici son le dieci.

- Dieci i Comandamenti del Signore, nove i cori degli angeli, otto i libri di Mosè, sette le lampade di Betlemme, sei le strade che vanno a Gerusalemme, cinque le piaghe del Signore, quattro gli Evangelisti, tre sono o Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.

Ton, ton. - Chi picchia?

- Amici, amici son le undici.

- Undicimila verginelle, dieci i Comandamenti del Signore, nove i cori degli angeli, otto i libri di Mosè, sette le lampade di Betlemme, sei le strade che vanno a Gerusalemme, cinque le piaghe del Signore, quattro gli Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.

Ton, ton. - Chi picchia?

- Amici, amici son le dodici.

- Dodici gli Apostoli del Signore, undicimila verginelle, dieci i Comandamenti del Signore, nove i cori degli angeli, otto i libri di Mosè, sette le lampade di Betlemme, sei le strade che vanno a Gerusalemme, cinque le piaghe del Signore, quattro gli Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.

Ton, ton. - Chi picchia?

- Amici, amici son le tredici.

- Con i dodici ti ho pagato, vattene che sei dannato.

- San Bartolomeo, San Bartolomeo, non ho mai potuto fare un piccolo bucato che tu non gli abbia messo una piccola pezza!

Diceva mia mamma: Sono andata a Roma per il Giubileo

dal Papa sono andata a confessarmi,

la prima cosa che ebbe a dirmi

mi chiese se facevo l’amore.

Gli risposi “Padre, signorsì al mio paese fanno tutti così”

Mi disse “Ragazza beata

se non la smetti sarai dannata”

Mi disse “Ragazza di Dio,

fallo l’amore, che l’ho fatto anch’io”.

Lazzarino di Francia

che sale per la Lanza

per la Lanza e per i pini

chiamando san Martino

san Martino non c’era

c’era Diana

che suonava la campana

la campana era rotta

tre donzelle c’erano sotto:

una filava

l’altra annaspava

una faceva i cappelli di paglia

per mandarli alla battaglia

la battaglia di San Michele

era giusta e ben pesata

e beato chi lo sarà.

È morta la mia vecchia moglie

ho sposato una giovanetta

Gli ho detto di farmi il letto

mi ha risposto brutto vecchio

gli ho detto di scopare la casa

mi ha risposto vattene in là

gli ho detto di cuocere la cena

mi ha tirato la catena

gli ho detto di cuocermi la focaccia

mi ha tirato la lastra.

 

Esmeralda, dalla voce calda e ridente, racconta:

 

Una formica andò al forno,

scarabeo gli và dintorno.

Scarabeo dove vai?

Gamba bianca voglio toccare.

Gamba bianca non toccherai

finchè sposa non mi avrai.

Te l’ho detto, vecchia barca

di non partire di sera,

ti hanno rotto la ciminiera

e la nave non parte più.

La zoppa di Codeglia

l’hanno portata a Montenero

quando è arrivata a Lemmen

l’hanno gettata nel canale.

Aveva un ombrellino

che si è rotto in tre pezzi

quando è arrivata alla Madonna

faceva il verso agli zoppi.

Bertolino, non fare il ricco

hai portato in sette inverni

a Tramonti, uno stoccafisso.

Mi sono innamorato di due sorelle

dell’una o dell’altra non so chi scegliere

una mi sembra un poco più bella

dall’altra non mi posso allontanare

la Caterina mi sembra più fine

ma lo spasso del mio cuore è la Marina.

 

 

 

 

 

Maria

 

Maria della Ricciola è del 1912. Ne avrebbe tante cose da raccontare...! È rimasta vedova che era giovane e ha vissuto con ciò che le dava Tramonti: i cestini d’uva da tavola, asparagìne, violacciocche, che andava a vendere alla Spezia e poi puliva nei vigneti, zappava e faceva tutti i lavori nelle terre. Una vita di fatiche...

 

- Quando arrivava il carbone, che eravamo qui a Tramonti... con il mio Candido sono stata fidanzata sei anni... e vedeva arrivare la nave... sai quelle navi da demolizione... era lì che dall’allegria mangiava...: - Stasera mangio più contento, diceva...

- Andava al carbone...?

- Alla demolizione, sai al porto. Quando arrivava quel tipo di navi lì per un mese o due aveva il lavoro, poi magari restava disoccupato un anno, Giancarlo, ma bisogna mangiare ogni giorno. Non era mica soltanto mio marito, che faceva quella vita.

- Allora c’era Tramonti e si davano da fare un po’ a Tramonti.

- A Tramonti, lui si adattava a fare di tutto: era buono a fare i muri a secco, era buono a zappare... aveva due mani d’oro.

- Anche nelle cave andava a quell’epoca

- Anche nelle cave, si. Il nonno nelle cave ha fatto la vita.

- Allora vostro padre ha sempre fatto il cavatore.

- Sempre lo scalpellino.

- È stato anche in Arsenale ma c’era stato poco.

- Da quando aveva dodici anni a quando ha smesso di lavorare. Mio fratello andava a scuola, Giancarlo, e a scuola non imparava, voleva persino picchiare la maestra, un giorno... lui che non ha nemmeno il coraggio di... e mio padre gli disse: “Stai a sentire, ora te la canto...”, mio padre era serio, severo, “vuoi andare a scuola o nella cava?”.

Lui era nella cava Schiappacasse e al mattino doveva salire Vallicella... all’inverno, sai, con quel freddo. - Nella cava, nella cava... Allora lo portava su tutte le mattine: gli faceva indossare una giacchetta delle sue che gli arrivava ai piedi, andava lassù e stava tutto il giorno lì a lavorare a una piccola pietra, poi lo aiutava un poco anche mio padre. Gli volevano bene tutti, a mio padre, perché aiutava tutti passando loro le pietre ben capezzate (ritagliate), al Pinetu, al Lué di Tabaciu... e quelli dicevano: “aiutiamo Emilio, così quando Agostino capezza (ritaglia) i tacchi ce li aggiusta meglio e noi li rifiniamo prima”. Ha fatto la vita sempre nelle cave.

- E laggiù in Argentina cosa faceva?

- Nelle cave.

- Anche in Argentina?

- Si, sempre. Adesso non lavora più.

- Sai, io a Biassa, ho gli stipiti...

 

 

 

 

Quando la vita era più semplice e non c’erano uomini in divisa che in televisione prevedevano il tempo, la gente seguiva ciò che gli avevano insegnato i vecchi. Per conoscere le previsioni del tempo bastava che si affacciassero alla finestra e guardassero verso il Parodi: se aveva il “cappello” entro poco sarebbe piovuto. Se vedevano che le nuvole andavano verso il monte, ritornavano a letto, se andavano verso il mare, andavano a zappare; se i gabbiani stridevano era prevista acqua e se si dirigevano verso la Palmaria, c’era la certezza della pioggia per l’indomani. Si servivano anche dei proverbi che, con poche parole in rima, spiegavano tutto.

La burrasca del mattino

porta il sereno; La brinata non è bugiarda

chiama sempre neve o acqua; Se vuoi vedere il tempo fino

maestrale alla sere e levanto al mattino.

Conoscevano le previsioni del tempo con molto anticipo perché:

Natale nel tizzone Pasqua sul balcone;

e: Se marzo non fa i capricci
aprile fa pensare male... e tanti altri.

Cosa volete, i tempi sono cambiati e per farli tornare come prima, non servono né dottori né chirurghi.

Sono messe dette e vesperi cantati... .


angelo