Giancarlo
Natale
L’èn messe
ite
e vèspei cantà
Biassa: i nomi, i luoghi, le
voci del passato
Biassa nella
toponomastica
Oggi gran parte dei campi di Biassa sono incolti; i castagni prima
coltivati si sono ora inselvatichiti, arrivando a lambire il paese e
occupando i rigogliosi orti di un tempo. Il leccio ha invaso le piane
nella parte alta di Tramonti, mentre le bassure stanno franando a mare.
Questi stessi boschi sono stati invasi dai rovi e da cespugli e
divenuti impraticabili a causa della folta vegetazione che ha
cancellato i sentieri.
Da questi boschi un tempo si ricavava la stramaglia, essenziale per
l’allevamento animale e per la concimazione dei terreni di Tramonti,
per questo erano tenuti puliti, anzi, la gente di Biassa e Campiglia
aveva in affidamento anche i terreni di proprietà comunale dato che una
buona parte dei 208 ettari di proprietà del Comune della Spezia si
trovano nel territorio di Biassa e Campiglia.
I “termini” di confine, spesso due semplici pietre infisse nella terra,
una a fianco dell’altra, dividevano le proprietà ed erano tenuti sempre
sotto controllo perchè poteva succedere che qualcuno tentasse di
spostarli in proprio favore. La costituzione del “Circolo Contadini
Riuniti” i cui soci vigilavano sui terreni di proprietà tramite due
canpai (le guardie campestri), avvenne proprio per evitare che fossero
commesse infrazioni nei terreni privati e per provvedere alle sanzioni
in caso di abuso. Ogni proprietà era riconoscibile da un numero che
l’intestatario provvedeva a segnalare chiaramente con la calce. Nel
1946 il Circolo contava centotrentadue soci con due guardie giurate:
Umberto Bianchini, Agnelun, e Rinaldo Natale, Romano. Le infrazioni più
frequenti erano il tentato spostamento di confine, la raccolta della
legna, della stramaglia, delle castagne nelle proprietà altrui.
Talvolta le pecore o le capre sconfinavano e anche questo era motivo di
multa.
I boschi comunali erano invece controllati dai guardaboschi municipali.
Il “Circolo Contadini Riuniti” ha svolto la propria attività fino al
marzo 1958 quando per mancanza di interesse verso i boschi, dovuto ad
un certo progresso sociale, non fu più in grado di funzionare. I
guardaboschi comunali rimasero in servizio sino ad esaurimento per
limiti di età. I componenti del gruppo operante nei boschi di Biassa e
Campiglia dalla fine della guerra al 1988 furono: Nando Maccione,
Renato Dauscio, Giulio Gianardi, Mario Sturlese e Carlo Melli, l’ultimo
a lasciare il servizio, nel 1989.
Ogni località di Biassa e Tramonti aveva un nome che la
contraddistingueva; molti di questi sono andati perduti sia a causa
delle frane sia perché assorbiti o soppiantati da altri toponimi. Ma
alcuni ancora si ricordano:
Lato Monte
Fraschi, Monte Madonna, Telegrafo
Mùnte
Santantògnu
Mùnte Màgru
Castèu
Nagruföa
Feétu
Dèbiu
Funtanèla
Scòiu
Paràdi
Pelücu
Casòtu da
zìtua
Canpussàntu
vèciu
Sànta Maìa
Madaléna
Castèu de
Cuderùni
Dàa Tùre
Lìmu
Begaìna
Càva rùssa
‘N se canàe
Canivèla
Furnàse
Cà di Sassèi
Cà der
Curunèlu o Pòzzo
Càva négra o
Cubiòla
Dar bìlicu
Telefèrica
Puléta
Muntemadòna
o Mùnte Rosàrio
Turiùn
Vaisèla
Curezöu
Ròca der
Curezöu
Funtanèu
Dài òrti
Madunéta
Fràschi
Scòiu de
Bàciu
Scuiaìn
Pòsa
Crùse de fèru
Crùse de
légnu
Aigaìn
Dàe pùle
Piàzza der
monuméntu
Spedàu
Vìa di spùsi
Àa de Zàn
Cartelùn
Àa du
Gianchétu
Dar fùrnu
Pràdu
Tassunàu o
Capèla
Puntétu Növu
Buzétu
Lato Monte
Santa Croce
Sànta Crùse
Pìlua
Gesiöa
Purcaézzi
Bàle da fùrca
Ròca di
stòrti
Còsta de
Sarùn
Canàu du
diàvu
Giàa
Fòssu
Tascàn (Tère
de Venànzio)
Bàrsi
Custèla de
Miòli
Custèla di
mòrti
Custèla de
Muntisèi
Ròca giànca
Ròca de strìe
Lato Monte
Verrugoli
Verügua
Sàn Martìn
Vèciu
Paradìsu
Vàsca der
Bertèlu
Perélu
Ciòsa
Fatùe
Còsta da sèra
Savìna
Canpudùrmu
Culétu
Còla vècia
Cànpu
Lùpiu
Lato Monte
Bramapane
Bramapàn
Càva de
Bertàn
Merdaöa
Càva Bùti
Càva der
Préte
Ròca du trùn
Zìu du ciapàu
Ciapàu
Piàzu
Castàgni
gràndi
Zìu de férse
San Ròcu
Gròpu
Àa de Capùna
Àa da pinèla
Piazzàu da
gése
Àa der Bàle
Bàle
Còde
Casavècia
Dàa piàna
Muntàu
Valéta
Ciighèu
Balaèu
Àa grànde
Vìa növa
Còsta
Deghiùn
Gòbu
Dàu lanpiùn
Fussadèu
Custèu
Saéciu
Làgu
Bòzu di sète
funtanèi
Capustàbile
Dài muìn
Balaèu
Lato Monte
Parodi
Paròdi
Da Gòri
Abetàia
Canaùn
Mùnte Biàssa
o Castelàna de Biàssa
Pianèla
Ròche da
Maiùna
Còsta di
canèi
Piàza d’usèu
Piàza survàna
Piàza sutàna
Còsta da
Piàza
Buzùn
Redemé
Redemé sutàn
Ruchéte
Cumiàgu
Pèzzu di
Sassèi
Mùnte
(Monte) - La strada mulattiera che collega Biassa con Tramonti
raggiunge il passo dove si trova l’oratorio di S. Antonio abate (510
m.s.l.m.) Muntàe ‘r
mùnte significava raggiungere il passo partendo da
Biassa o da Tramonti.
Santantògnu
(Sant’Antonio) - La chiesetta posta in cima al Mùnte. La
porta della chiesa restava sempre aperta per dare modo ai passanti di
ripararsi in caso di pioggia.
I biassèi chiamavano e chiamano tutt’ora Santantògnu questa
chiesetta
(e il passo), intitolato a S. Antonio Abate; Santantugnìn è
invece S.
Antonio da Padova venerato nell’oratorio di Schiara.
Mùnte Màgru
(Monte Magro) - È il monte che da S. Antonio prosegue verso
Campiglia.
Castèu
(Castello) - Seguendo la strada sterrata che da S. Antonio
arriva a Campiglia, nella parte più alta del monte si incontra il luogo
noto con questo toponimo. Nelle sue vicinanze un largo sentiero
acciottolato e un tratto di strada che faceva parte dell’antico
collegamento S. Martino Vecchio (Biassa) - Portovenere. Scendendo verso
il lato a mare, una scalinata di grandi proporzioni - che parte da una
piccola cava di pietra arenaria - conduce nei pressi della fontana di
Nozzano.
Nagruföa
- Sotto il Castèu
lato Biassa, confinante con la Giàa.
Feétu.
- Luogo boscato a castagni alla sinistra della strada mulattiera
che da Biassa sale al Mùnte.
Sul territorio vi erano numerose cave di
arenaria servite da una strada carraia, che raggiungeva le cave più
importanti della Posa, poco sopra.
Dèbiu
(Debbio) - Tra il Curezöu
e Feétu.
Al centro della località una
sorgente forma un laghetto. Molte famiglie di Biassa vi attingevano,
portando a casa quest’acqua ritenendola pura e “leggera” (di facile
digeribilità); sgorgava dalla sorgente talmente fredda che in estate
era abitudine immergere nel secchio colmo il fiasco di vino, per
renderlo più fresco.
Funtanèla
(Fontanella) - Poco sopra Paradi, all’inizio della mulattiera
di arenaria che porta al cimitero e continuando, alla Giàa, Campiglia e
Persico, dove molta gente di Biassa possiede terreni e cantine. Una
sorgente dà il nome a questa località e molte generazioni di donne
biassèe
hanno usato i lavatoi coperti per il loro bucato.
Scòiu
(Scoglio) - Rione di Biassa posto nella parte più ombreggiata del
paese nei pressi della Funtanèla.
Paràdi
- Confina con lo Scòiu.
Era coltivato a orti e castagni.
Attualmente vi sono alcune case di recente costruzione e un piccolo
campo sportivo.
Pelücu
- Castagneto situato tra Paràdi e Begaìna.
Casòtu da
zìtua - Il termine Zìtua
indica la civetta; la piccola
costruzione, che si trovava in località Paràdi, è scomparsa con la
costruzione del campo sportivo.
Canpussàntu
vèciu (Camposanto vecchio) - Con l’editto napoleonico
degli
inizi dell’Ottocento che imponeva la tumulazione dei morti al di fuori
dei centri abitati, i defunti di Biassa furono sepolti nel Castello di
Coderone, nell’attesa della costruzione dell’attuale cimitero. Per
molti anni, il castello fu ricordato con il nome di Canpussàntu vèciu,
per distinguerlo da quello successivamente costruito.
Sànta Maìa
Madaléna - Una chiesa a pianta rettangolare sorgeva a
levante del castello di Coderone, in prossimità delle costruzioni di
cui sono ancora identificabili i ruderi.
L’intitolazione della chiesa rivela la vicinanza delle importanti vie
di pellegrinaggio lungo le quali si diffuse il culto verso questa santa.
Le mura perimetrali della chiesa, peraltro molto vicina al precipizio
della sottostante cava Limo, sono ancora oggi visibili.
Castèu de
Cuderùni (castello di Coderone) - Posto sul breve crinale
che
da Biassa si incunea fra il monte Santa Croce e il Parodi, è stato
edificato forse nel 1251 dalla Repubblica genovese nel territorio della
comunità che aveva collaborato alla distruzione di Carpena, passata ai
nemici pisani. Fu ampliato dalla famiglia Biassa nel XVI secolo che ne
fece la propria residenza. Abbandonato in seguito dai Signori e dagli
abitanti, cadde in rovina.
Secondo Ubaldo Mazzini i Biassa, che portavano il nome del paese di cui
erano Signori, discendevano dalla famiglia dei Viano i quali a loro
volta provenivano dai Bianchi d’Erberia, antichissimi Signori della Val
di Magra.
Lo stemma della comunità di Biassa scolpito su una pietra di arenaria
si trova murato, all’interno, presso l’ingresso della chiesa di San
Martino e reca in campo una torre con la scritta latina Nec vi nec dolo
(Né con la forza né con l’inganno).
Dàa Tùre
(dalla torre) - È ancora vivo nella memoria popolare questo
toponimo che indica il castello Coderone, forse in ricordo della
primitiva costruzione che era a forma quadrangolare.
Lìmu
- Cava di pietra calcarea coltivata sino ad una quindicina di anni
fa, posta lungo la strada carrozzabile che sale a Biassa, sottostante i
resti della chiesa di Santa Maria Maddalena.
Begaìna
- Vasto castagneto alle pendici del Coderone attraversato dalla
mulattiera in pietra arenaria che da Biassa scende alla Spezia.
Càva rùssa
(Cava rossa) - Dal colore della pietra che vi si estraeva ed
è all’inizio della scalinata della Begaìna.
‘N se canàe
(Sulle canale) - Località lungo la mulattiera per Biassa,
poco sopra Casa Cuffini. Vi era una “posa” ed era luogo di riposo,
all’ombra dei castagni, per chi saliva dalla Spezia nelle ore calde.
Canivèla
- Poco dopo le fornaci di Biassa. Nel 1953 fu inaugurata la
prima linea di corriere pubbliche che dalla Spezia raggiungevano Casa
Cuffini (daa Linda),
in località Canivèla.
Da lì, a piedi, si
attraversavano le Canàe,
Begaìna, Paràdi e si arrivava a Biassa.
Furnàse
(Fornaci) - Le fornaci di Biassa sono rimaste in funzione sino
alla fine degli anni Cinquanta. Il calcare della cava Pacioselli era
un’ottima pietra, adatta alla cottura per diventare bianchissima calce.
Cà di Sassèi
- Poco dopo Casa Cuffini, di fronte alla fornace, abitava
una famiglia soprannominata Sassèi da cui prendono nome anche i
numerosi campi che, al di la della strada, sovrastano la casa (Pèzu di
Sassèi). A questa casa, un tempo, era annesso un mulino.
Cà der
curunèlu (Casa del colonnello) o Pòzzo - Lungo la
carrozzabile
per La Spezia, poco dopo le fornaci di Biassa e nelle adiacenze della
cava Negra. Deve il nome al fatto di essere stata di proprietà, e
abitata, da un colonnello dell’esercito, Romolo Sturlese, padre di
Paolo Sturlese, negli anni Sessanta noto primario del reparto di
medicina nell’ospedale civile della Spezia. Il luogo è chiamato anche
Pòzzo a causa dello sfiatatoio della sottostante galleria che collega
La Spezia con Riomaggiore, posto nei pressi della casa.
Càva Négra
(Cava nera) o Cubiòla
- È al confine con Pegazzano, dove
inzia la via Vècia
di Biassa e il nome è dovuto al colore della pietra.
Al centro vi è la grotta dove il geologo spezzino Giovanni Capellini
trovò resti fossili di Ursus
spelaeus (Orso delle caverne).
Dar bìlicu
(Dal bilico) - Sulla strada di Biassa, nei pressi della Cà
der Curunèlu. Serviva alla pesa del materiale lapideo
delle vicine cave
trasportato dapprima con i carri e poi con i mezzi meccanici.
Telefèrica
- Tra ‘r Bìlicu
e la Puléta
durante la seconda guerra era
stata costruita una teleferica che trasportava sia gli uomini sia il
materiale nella soprastante zona fortificata di Santa Croce.
Puléta
(Piccola polla) - Poco sopra le ultime case di Pegazzano (il
Quartiere), è sempre attiva una sorgente che ha dissetato per anni i
biassèi che a piedi tornavano alle loro abitazioni di Biassa.
Mùnte Madòna
(Monte Madonna) o Monte Rosario - Mùnte
Madòna (528
m.s.l.m.) si estende dal Turiùn,
all’oratorio di S. Antonio abate.
Anche questa località era stata fortificata durante l’ultima guerra e
vi si possono ancora vedere alcune opere murarie fatte costruire dai
tedeschi. Su crinale del monte passa l’antica via che collegava Porto
Venere con l’alta Via dei monti mentre a ridosso, verso Biassa, corre
la via aperta dai tedeschi per facilitare la ritirata e che è ora
utilizzata dai cittadini per recarsi nella “Palestra nel verde” e a
Tramonti.
Turiùn
(Torrione)- Toponimo indicante un antica torre di guardia a
protezione delle invasioni saracene. Sulle sue fondamenta è stato poi
costruita una casa per dare riparo ai cantonieri demaniali addetti alla
manutenzione della strada militare di accesso ai forti Bramapane e
Parodi. Successivamente il luogo è stato ribattezzato Telègrafo perché
dal 1849 sino alla fine del 1853, era stato installato su questa altura
un ripetitore del telegrafo ottico inventato dall’ingegnere francese
Claude Chappe (1763 -1805). La linea Genova-Sarzana di questo
telegrafo, che funzionava “a vista” e che attraverso l’interpretazione
di un codice permetteva un rapido inoltro di informazioni, aveva
diverse stazioni intermedie fra le quali Portofino, Capo Manara, Capo
Mesco, Torrione e La Spezia.
Sembra che anche Guglielmo Marconi abbia utilizzato il Torrione per
alcuni esperimenti sulla telegrafia da bordo della nave Elettra
ancorata nel golfo della Spezia.
Vaisèla
- Vecchio sentiero molto battuto sia dai cavatori che si
recavano nelle numerose cave di arenaria in quota, sia dai
riomaggioresi che portavano l’uva da tavola al mercato della Spezia. Il
sentiero, scendendo dal Turiùn,
arriva al Curezöu.
Numerosi erano anche
i biassèi che, possedendo terreni e cantine in località Pinéda (che si
trova nel comune di Riomaggiore) erano costretti ad un lungo tragitto,
dovendo dapprima salire per il sentiero di Vaisèla, poi
scendere per il
versante opposto sino alle loro proprietà sul mare.
Curezöu
- Posto sull’omonimo canale, nelle cui vicinanze sono le ultime
case di Biassa, prima di intraprendere la salita per Tramonti. Anche
qui si coltivava una cava, che essendo vicina al paese, forniva le
pietre occorrenti alla costruzione di molte delle case di Biassa.
Funtanèu
(Piccola sorgente) - Si trovava sul greto del canale Curezöu
poco sopra il piccolo ponte che attraversa il canale sulla strada di
Tramonti. Sino alla fine dell’ultima guerra, quando le abitazioni erano
ancora sprovviste d’acqua potabile, molta gente attingeva acqua a
questa fonte. Alcune decine di anni fa la portata d’acqua diminuì e
qualcuno pensò che con un po’ di esplosivo avrebbe risolto il problema.
Invece, dopo lo scoppio, l’acqua scomparve completamente.
Dài òrti
(Dagli
orti) - era indicata una località nei pressi del
Curezöu
ed erano ampie fasce coltivate ora sepolte dalla vegetazione.
Ròca der
Curezöu (Roccia del Correggiolo)- Appena sopra il canale
in
margine alla scalinata del Mùnte. È una grossa roccia di colore
rossiccio nei cui pressi si divertivano a giocare i ragazzini di molti
anni fa.
Madunéta
(Madonnetta) - Poco sopra la Pòsa:
una piccola edicola
racchiude una statuina della Madonna del Rosario.
Fràschi
- Ampia zona boscata sul lato destro dell’ultimo tratto della
scalinata del Mùnte,
a partire dalla Pòsa
sino alla sommità.
Scòiu de
Bàciu - Sulla scalinata del Mùnte
poco dopo la Madunéta.
Scuiaìn-
Scòiu de
Bàciu e Scuiaìn
sono contigui.
Pòsa
- Attigua alla scalinata che sale a Mùnte
e di cui è a
metà
cammino. Una sosta a questa Pòsa
era d’obbligo per chi si recava a
Tramonti o ne tornava.
Crùse de fèru
(Croce di ferro) - Il luogo prende il nome da una croce
di ferro infissa in un grande blocco di arenaria lungo la mulattiera
per Tramonti, poco dopo l’abitato di Biassa.
Crùse de
légnu (Croce di legno) - Poco sopra il Curezöu, era
infissa
nell’arenaria.
È rimasto il toponimo.
Aigaìn
- il toponimo indica un bosco di castagni che si trova prima di
Feétu,
vicino alla Crùse de
Fèru.
Dàe Pùle
(dalle polle) - L’attuale via delle Polle inizia dall’incrocio
con la strada che porta al cimitero ed alla strada Litoranea e termina,
con una piccola scalinata, nei pressi della Scuola Elementare. Il nome
la dice lunga in fatto di acqua. Lungo il tragitto sono ancora presenti
numerose sorgenti, alcune delle quali un tempo erano utilizzate come
fontane pubbliche e lavatoi.
Piàzza der
Monuméntu - Nel centro della piazza è ancora sistemato la
base del monumento ai caduti della guerra del ‘15 - ‘18, inaugurato nel
1924. La statua in bronzo, opera dello scultore spezzino Angiolo Del
Santo, rappresentava un nudo guerriero romano in atteggiamento da
combattimento, con il gladio in una mano e lo scudo nell’altra. Durante
la guerra fu asportato e fuso per motivi bellici.
Spedàu
(Ospedale) - Via dell’Ospedale sale dalla piazza del Monumento e
arriva sino a San Rocco. È probabile che questo toponimo ricordi
l’epidemia di tifo scoppiata nel 1817 quando per contrastare la
malattia, fu traformata la canonica (vicina alla strada) in ospedale.
Secondo la testimonianza del già citato don Antonio Rossi “… dal
gennaio al 17 agosto i morti a Biassa furono 125”. Nella
fase più acuta
dell’epidemia “… in
Biassa in 11 giorni… 24 sono stati li trapassati, a
segno che non si suonano più l’Ave Maria…”
Questa strada è indicata anche via
di spùsi (via degli sposi): infatti
è tradizione che essa non sia percorsa dai funerali, destinandola
invece al gioioso corteo degli sposi.
Àa de Zàn
(Aia di Giovanni) - Salendo l’attuale scalinata di via
dell’Ospedale, si incontra una piazzetta circondata da alte abitazioni.
È l’àa de Zàn.
Pràdu
(Prado) - Al di sotto del Saèciu
sino all’inizio del canale di
Biassa un tempo ricco di acqua. È una vasta zona con ampi campi
coltivati.
Tassunàu
o Capèla
(Tassonaro o Cappella) - È un bosco di castagni che
si incontra scendendo il canale di Biassa, sotto al Pràdu. Durante
l’ultima guerra in questo luogo si costruì un piccolo rifugio
antiaereo, ritenuto sicuro e molto utilizzato durante le incursioni
aeree, anche se si trovava piuttosto lontano dall’abitato.
Puntétu Növu
(Ponticello nuovo) - La scalinata Biassa - La Spezia nel
primo tratto, abbandonata la strada carrozzabile incontra il canale che
scende dallo Scoglio. Il Puntétu
Növu attraversa questo canale.
Buzétu
(Laghetto) - Sotto il Puntétu
Növu, nel canale che scende dallo
Scoglio, detto Canàu da
Mìna, una sorgente formava un bozzo sulle cui
pietre affioranti le donne andavano a lavare i panni.
Sànta Crùse
(Santa Croce) - È un monte a sud - est di Biassa. Durante
l’ultima guerra è stato fortificato ponendolo a guardia del sottostante
Arsenale Militare. Dalle sue alture si gode una vista quasi aerea sulla
Spezia. Sono ancora visibili sulle piazzole all’interno della zona
fortificata le canne e parti di cannoni abbandonati.
Pìlua
(Pillora) - Scendendo dalla batteria verso la Gesiöa, si incontra
un pianoro, er pianùn
de Pìlua. Sul lato più lontano di questa piana
rettangolare, una sorgente, ormai esausta, forma un letto di fanghiglia
dove vanno a sguazzare i cinghiali. Un tempo al suo posto si estendeva
un piccolo specchio d’acqua sufficiente ad irrigare gli orti e le
coltivazioni della piana. Dalla parte verso Campiglia vi è una grande
costruzione, il cui ultimo abitante è stato Rafò de Pìlua,
contadino
del Pianùn de Pìlua.
Attualmente sia la costruzione (nota come Castello
Doria) sia la piana sono in completo abbandono.
Gesiöa
(Gesirola) - Alla fine della ripida scalinata, che sale dalla
Giàa
per Campiglia. Prima di iniziare il pianoro di Purcaézzi, tenendo
sulla destra, le Bàle
da Fùrca e poco più sopra la Ròca
di Stòrti, una
roccia piana da cui si vede il mare di Tramonti.
Purcaézzi
- Inizia al passo della Gesiöa e prosegue alla sinistra sulla
strada mulattiera che conduce a Campiglia.
Còsta de
Sarùn - È il versante di Biassa del Monte Santa Croce, che
arriva sino al canale sopradetto. A metà costa corre un sentiero che
sale da Fabiano, il cui percorso si snoda attraverso il Monte Coregna,
il Monte Santa Croce e giunge a Biassa.
Canàu du
Diàvu (Canale del diavolo) - Al di sotto dell’attuale
strada
Litoranea, tra il Coderone e le pendici di Santa Croce, si incontra il
canale che si immette nel più grande Canale di Biassa all’altezza delle
Fornaci e che a sua volta dà vita al Lagora. Il luogo è molto
inospitale e forse questo gli ha meritato il sinistro nome. Il breve
corso d’acqua scorre nelle vicinanze della cava Limo; per poter
utilizzare l’area per la discarica dei detriti di risulta della cava
stessa, fu coperta parte del canale e la superficie così ottenuta si
adoperò per l’accumulo dei materiali. Una diffusa leggenda narra che
nel Castello di Coderone sia sepolta una chioccia con dodici pulcini
d’oro. Chi ebbe la ventura di vederla si ritrovò malconcio sul greto
del Canàu du Diàvu,
sotto al Castello.
Giàa
(Ghiaia) - Un tempo vi era coltivata una grande cava di pietra
arenaria (Cava Ghiaffa) e vi si trovava un rigoglioso castagneto. Da lì
inizia la ripida scalinata che sale alla Gesiöa e che,
proseguendo,
porta a Campiglia.
Fòssu
(Fosso) - È la strada sterrata che dal cimitero raggiunge la Giàa
e attraversa un tratto di castagneto fosco e impervio.
Tascàn
o Tère de Venànzio
- Nelle vicinanze del cimitero, sopra la
strada carraia che conduce alla Giàa
ed era un terreno coltivato con
annessa una piccola casetta di proprietà di Venanzio.
Bàrsi
- Sulla sinistra della strada Litoranea, prima dell’incrocio
della strada per Biassa. Il toponimo indica un castagneto che, lato
monte, confina con la Giàa.
Custèla di
Mòrti, de Muntisèi e de Miòli - Sono tre collinette di
terra
rossiccia che si susseguono l’una all’altra. Su quella centrale,
Muntisèi,
si trova il cimitero di Biassa; quella di Mòrti si prolunga
verso il castello Coderone ed è coperta di cedui di castagni. Il tratto
iniziale si presenta spoglio di vegetazione; qui tradizionalmente,
nella ricorrenza dei defunti, erano accesi dei fuochi che producevano
intenzionalmente molto fumo, cosa che contribuiva a rendere ancora più
triste la ricorrenza. In questa giornata, i ragazzi del paese correvano
con rudimentali turiboli ricavati da barattoli di latta i quali erano
fatti volteggiare in aria per mantenere accese le braci al loro
interno. La custèla de
Miòli era invece coltivata a patate, grano e uva
e confinava con la Giàa.
Ròca giànca
(Roccia bianca) - località nelle vicinanze della Giàa, così
denominata per una grossa roccia di quel colore.
Ròca de Strìe
(Roccia delle streghe) - Si trova nei pressi della Giàa,
verso la Còsta de Sarùn,
in un bosco di castagni. Il nome suggestivo
indica una strana roccia solitaria.
Verügua
(Verugoli) - È il monte più alto di Biassa con i suoi 741 m
s.l.m. Poco sotto si incontrano le rovine della chiesa romanica di San
Martino Vecchio. La tradizione narra di un castello denominato
Roccanégra
costruito nei pressi dell’antico borgo di Biassa. Se questo
avesse un fondamento di verità, la posizione scelta - sulla sommità del
Monte Verugoli - era veramente una delle migliori.
Sàn Martìn
Vèciu (San Martino Vecchio) - Sul Monte Parodi; era la
chiesa dell’antico nucleo di Biassa. Ora in completo abbandono, mostra
ancora parte dell’abside e i resti delle tre porte di accesso alla
navata. Da ciascuna porta entravano i fedeli di diverse comunità: dalla
prima quelli di Biassa, dalle altre rispettivamente quelli di Carpena e
di Riomaggiore. Probabilmente l’edificio sacro fu officiato sino al
1758 epoca in cui l’attuale chiesa di Biassa, inizialmente intitolata
ai santi Giacomo e Martino, divenne arcipretura con il solo titolo di
San Martino.
Vàsca der
Bertèlu - Una sorgente incanalata e raccolta in una vasca
nella proprietà di Bertèlu
di Biassa posta sopra Còde.
Fu costruita dai
militari del forte Bramapane per la raccolta di acqua potabile.
Perélu
- Piccolo contrafforte del Monte Verugoli, caratterizzato da un
terreno rosso, ricco di minerale di ferro. Si trova sotto la località
Còde.
Còsta da Sèra
- Il sentiero che porta al Paradìsu
nei pressi
dell’acquedotto si biforca: quello pianeggiante attraversa dapprima il
Canàu da
Ciòsa, poi un bosco un tempo regno del bòcu franzése, dal
fiore giallo e dalle spine acuminate, per arrivare infine alla Piàza
d’usèu. Questo bosco è la Còsta
da sèra,
caratterizzato dalla presenza
dell’arida pietra rossa. Da alcuni anni sono pressochè scomparsi anche
gli arbusti spinosi del bòcu
franzése (Ulex
europaeus L.)
Savìna
- Lungo il canau da Ciòsa, sulla destra, un limitato numero di
campi un tempo coltivati a fagioli rampicanti, si trova questo luogo
dal delicato nome di Savìna
ma circondato dagli aculei dei bòchi
franzési.
Canpudùrmu
- Sopra la Còsta da Sèra,
nell’ampio canalone che formerà
più sotto il Canàu da
Piàza, attraversato dal sentiero per la Pianèla,
larghe piane coltivate un tempo a castagni formano il Canpudùrmu.
Cànpu
- Terreno delimitato da due canali: quello del Ciighèu e quello
della Ciòsa.
La parte inferiore è chiamata Cànpu,
la parte superiore
Lùpiu.
Càva de
Bertàn (Cava dei Bertano) - Ampia cava di pietra arenaria
di
proprietà della famiglia Bertano, un tempo benestante famiglia biassèa,
sul monte Bramapane, sopra la Ròca
du trùn.
Merdaöa
- Oltre a segnalare un bosco di castagni il toponimo indica
anche una cava di pietra arenaria che si trova tra Còde e la cava di
Bertàn.
Altra cava nei pressi era la cava Buti, dal nome del
proprietario.
Càva der
préte - Don Andrea Natale detto der Menegùn (di
Domenico), di
Biassa, fattosi prete e poi abbandonata la tonaca, nel dopoguerra aprì
una cava lungo il sentiero di Còde.
Vicina a tante cave di arenaria la
sua era di calcare ma ebbe poca fortuna perché i massi squadrati,
estratti dalla cava, rimasero sul piazzale della cava, invenduti.
Ròca du trùn
(Roccia del tuono) - Sul margine della strada che conduce
al Turiùn,
prima del Torrione. Anfratto roccioso a cuneo, con un
piccolo cunicolo che si apre nella parte inferiore e dal quale sembra
uscire un rumore di ruscellamento.
Zìu du Ciapàu
(Curva del Ciapàu)
- È un tornante sopra la Ròca
du trùn.
Ciapàu
- Costa ora abbandonata, ma un tempo coltivata generalmente a
grano e patate.
Piàzu
- Sopra S. Rocco, confina al nord con il Ciapàu. Essendo
vicina
al paese è sempre stata ben coltivata. Ora tutto è coperto dalla
vegetazione selvatica.
Castàgni gràndi - Località appena sopra il paese, un tempo frequentata
dai ragazzi che ai rami dei giganteschi castagni appendevano robuste
corde per giocare ad una pericolosa altalena.
Zìu de férse (Curva delle felci) - Da questa curva della strada, vicina
al paese, si può ammirare Biassa nella sua completezza e, in
lontananza, il golfo della Spezia.
Sàn Ròcu
(San Rocco)- Sembra sia la parte più antica di Biassa nuova,
con un piccolo oratorio e piazzali lastricati. Si racconta che sul
piazzale più grande siano state fuse le campane della chiesa di S.
Martino Nuovo e che le donne di Biassa facessero a gara nel buttare nei
crogioli di fusione il poco oro e argento che possedevano. Questo oro e
argento ha fatto sì che il suono delle campane sia tra i migliori del
vicinato.
Negli anni del dopoguerra San Rocco era luogo di incontro di suonatori
biassei che nelle serate estive facevano radunare molta gente ad
ascoltare la chitarre di Angiulè
(Nello Vanni) e il mandolino di Grigò
(Adriano Bertano) che si esibivano in mazurche, tanghi, valzer…
Piazàu
(Piazzale) - Si tratta del sagrato della chiesa di San Martino:
Ubaldo Formentini stima la costruzione della chiesa, con le prime due
navate, al XV secolo, aggiunta ad un più antico oratorio dedicato a San
Giacomo ed ampliata nel 1849 della terza navata.
Nel 1875 la Giunta Municipale della Spezia aveva stabilito di
acciottolare detto piazzale ma agli esperti scalpellini di Biassa
questa soluzione non piaceva. Chiesero attraverso il consigliere
Antonio Rossi (Pio Nono), all’Amministrazione comunale, di poterla
lastricare in arenaria, allo stesso prezzo, molto più basso, concordato
per l’acciotolamento, con una sola condizione: poter ricavare
gratuitamente le lastre in una delle cave di proprietà comunale. In
data 4 ottobre 1875, con delibera, il Comune autorizzava il lastricato
del piazzale alle condizioni espresse dagli scalpellini di Biassa i
quale, eseguito il lavoro a regola d’arte, per valorizzare maggiormente
il piazzale, innalzarono di fronte alla porta laterale della chiesa,
una colonna ottagonale di arenaria finemente lavorata, sormontata da
una croce di ferro.
Successivamente, all’interno della chiesa “L’anno del Signore
milleottocentottantanove agli 8 giugno fu fatto il lastrico della
chiesa di marmo di Carrara dal signor Garibaldi a lire 8,30 al metro
quadrato”, come è annotato nel manoscritto iniziato da don
Antonio
Rossi ma continuato con appunti a lui successivi.
Dietro l’abside della chiesa, con la facciata su via Fabio Filzi, è la
Compagnia, un tempo sede della Confraternita di Santa Croce.
Dal piazzale della chiesa, di fronte all’entrata principale parte il
selciato che, seguendo un tratto di via delle Polle, conduce all’Àa da
Pinèla (Aia della Pinella), da cui proseguendo verso
destra, un’ampia
scalinata porta all’Àa
der Gròpu (Aia del Groppo), vasta piazzetta dove
è sistemata una fontana pubblica, da cui continuando per un breve
tratto alla sua sinistra, si trova l’Àa
de Capùna,
adiacente vecchie
abitazioni ormai crollate.
Salendo invece dalla scalinata a sinistra dell’Àa da Pinèla dopo
essere
passati sotto i porticati di via del Cartellone, si arriva all’incrocio
con via della Piazza.
Bàle
- Si trova sul lato destro del Canàu
der Curezöu sino al sentiero
che, arrivato al Curezöu
prosegue per il Mùnte.
Le larghe piane erano
coltivate sino a pochi anni fa ed ora sono quasi tutte abbandonate.
Còde
- Proprio sotto il forte Bramatane, lato Biassa, attraversato dal
vecchio e importante sentiero che salendo da Biassa e passando per
Casavècia,
arrivava allo spaccato del Culétu
sul Verrugoli. Còde è
famoso per la “frana di
Còde”. Nel maggio del 1936 dopo un lungo
periodo di pioggia, una grossa frana si staccò da Còde appena sotto
il
forte Bramatane trascinando nel lontano e sottostante canale di Biassa
centinaia di metri cubi di rocce, fango e alberi senza arrecare, per
fortuna, gravi danni al territorio e agli abitanti di Biassa.
Non era la prima volta che dal Verrugoli si staccassero frane. Infatti
nel manoscritto lasciato da Costantino Rollandi di Manarola e
pubblicato dal comune di Riomaggiore a cura di Attilio Casavecchia alla
data del 6 novembre 1898 si legge: “Riomaggiore
ebbe molto danno; portò
via 3 molini. La causa per Riomaggiore fu che sotto il monte della
Verrugola scoppiò un gran sbocco d’acqua che fece una grossa frana
portando via rocce, alberi di castagno ed altri”.
Còde
era coltivato in parte a castagni, mentre al di sotto del sentiero
era coltivato a grano e patate.
Culétu
(Colletto) - Luogo dove confluiscono più strade, posto a 625
metri di altezza. Qui sboccava il sentiero che partendo da Biassa
attraversava Còde;
attualmente vi transita la strada Telegrafo -
Parodi. Dal Culétu
parte la strada che conduce al forte Bramapane,
quella per il sovrastante monte Verrugoli e quella per la dismessa cava
di arenaria Ferrando. Da questa località, attraverso la suggestiva
forma a V formata dai due scoscesi lati del monte Santa Croce e dal
Monte Parodi, si osserva un inconsueto scorcio del Golfo, mentre alle
spalle, attraversato lo spaccato da cui inizia la strada per la cava
Ferrando e per il Monte Capri, si gode lo spettacolo incomparabile
delle Cinque Terre.
Casavècia
(Casavecchia) - È probabile fosse uno dei piccoli agglomerati
di casolari sparsi sull’antico territorio di Biassa, quali, ad esempio
Salegio (Saéciu),
Balano (Bàle),
Prato (Pràdu), Gropo (Gròpu). Questi
sono infatti alcuni dei toponimi con cui si identificano i vici di
Biassa e citati già nel 1251, in un documento dell’abbazia di S.
Venerio. Casavècia
è posta al di sotto di Còde
e anche questo luogo è
attraversato dallo stesso sentiero che conduce al Parodi.
Dàa piàna
- Vicino a Biassa, coltivata a orto; nel dopoguerra sono
state costruite alcune abitazioni.
Muntàu
- Collinetta di friabile pietra calcarea color rosso scuro sopra
l’Àa Grànde,
dove prosperano la gialla ginestra e il timo.
Valéta
- Piccola porzione soleggiata di terreno di fianco al Muntàu,
lato ovest.
Ciighèu
- Esisteva un’altra antica strada che saliva da Biassa Nuova
verso il Parodi. Partiva dall’Àa
Grànde, attraversava dapprima il
Ciighèu,
luogo ricco di acqua e quindi intensamente coltivato, poi la
Ciòsa
- nota per la coltivazione dei cipollini, indi raggiungeva il
Fatùe,
nel cui terreno rosso cupo venivano coltivate le vigne
d’albarola. La strada saliva attraversando i coltivi sino ad arrivare
alla Còla
- che con la Còla Vècia,
confinava con la chiesa di San
Martino Vecchio e con il Paradìsu
che era la parte più alta del
sentiero dal quale, svalicando, si poteva raggiungere Carpena. Dal
Paradiso, il sentiero si immetteva nella vecchia “via dei monti”, che,
transitando sul crinale, superava le Cinque Terre per spingersi sino a
Ventimiglia e oltre.
Balaèu
- Salendo verso la Ciòsa
è alla sinistra del Ciighèu.
Anche
questa è una località dove l’abbondanza di acqua ha sempre favorito
buoni raccolti.
Àa Grànde
- L’etimo indica chiaramente un’aia spaziosa: vi si trovava
una fontana pubblica con acqua proveniente dalla Ciòsa a cui
attingevano tutte le famiglie della Còsta
e del Deghiùn, dato che
sino
a qualche anno dopo la fine della guerra non esistevano famiglie di
Biassa che avessero l’acqua corrente in casa.
Vìa Növa
(Via Nuova) - Sino ad alcuni anni dopo la guerra, il transito
di questa strada era proibito ai mezzi non autorizzati che volevano
recarsi ai forti militari. Per impedirne il transito, sull’Àa Grànde,
che si apriva all’inizio della via, erano infisse due pesanti colonne
di arenaria con una catena.
Còsta
- Importante rione sovrastante le attuali scuole elementari, ben
esposto al sole; qui era uso per la gente di Biassa- nelle belle
giornate d’inverno - recarsi per scaldarsi al tiepido sole.
Deghiùn
- È il versante della Còsta,
che vede sorgere il sole e che al
pomeriggio delle giornate estive diventava il luogo di ritrovo e di
chiacchiere della gente della Costa, che veniva quì a “piàe ‘r frescu”.
Fussadèu
- Orti vicini alla scuola, attraversati da un sentiero, ‘r
viaöu der fussadèu che dalla scuola porta al Gròpu, vecchio
rione
interno al paese.
Custèu
(Costella) - Dal Saéciu
parte il sentiero per la Piàza.
Il
Custèu
è formato dal gruppetto di case che si affacciano sul panorama
della Spezia e del bosco di castagni poco distante.
Làgu
(Lago)- I campi abbandonati e i castagneti in margine al Canàu da
Piàza, prendono il nome di Làgu
in
considerazione dell’abbondanza di
acqua che portava questo canale e che formava numerosi bòzi (laghetti).
Bòzu di sète
funtanèi (Laghetto delle sette sorgenti) - Nella località
Làgu,
lungo il Canàu da Piàza,
si formava un laghetto alimentato da
sette sorgenti. Era un richiamo per i ragazzi che in estate si recavano
a bagnarsi in quell’acqua gelida. Oggi le sorgenti sono scomparse.
Capustàbile
(Capostabile) - Il toponimo si riferisce a una torretta
quadrata a due piani di cui ancora restano le rovine. È situata lungo
il sentiero che dal Custèu
scende alla Begaìna.
Come i due mulini poco
distanti è di proprietà della famiglia Rossi, eredi di Pio Nono.
Intorno al 1870, durante la costruzione della galleria ferroviaria
Pegazzano - Riomaggiore, denominata “galleria Biassa”, al piano basso
di questa piccola costruzione erano sistemati i motori degli argani
usati per il sollevamento della terra nella costruzione di uno degli
sfiatatoi della galleria. Con la terra di risulta si era ottenuta una
estesa piana, nota come ‘r
pianùn di Rossi. Purtroppo, a causa di
calcoli errati, l’incontro della galleria verticale (sfiatatoio) con la
galleria ferroviaria, in quel punto, non è mai avvenuto…!
Dài muìn
(Dai mulini)- L’abbondanza di acqua delle sorgenti di Biassa
ha sempre alimentato numerosi mulini, dislocati lungo il canale di
Biassa, iniziando dalla località Pràdu.
Il loro abbandono fu
determinato dallo scavo della galleria Biassa, per la costruzione della
linea ferroviaria La Spezia - Sestri Levante inaugurata nel 1874, che
deviò da Biassa gran parte dell’acqua.
Antonio Rossi (sopranominato Pio Nono) fece causa alla Società
costruttrice della galleria ferroviaria per il mancato funzionamento
dei mulini e fu risarcito con 6.000 lire. In un manoscritto, don
Antonio Rossi, nativo di Biassa ma rettore a Pegazzano e avo di Pio
Nono, annota che il loro mulino aveva iniziato a macinare il 21 gennaio
1798 e a frangere il 21 gennaio 1808.
Saéciu
(l’antico Salegio ora Sarecchio) - È il gruppo di case attorno
alla carrozzabile (via Filzi) che dopo l’ampia curva (du Saéciu), si
arriva dàe scöe
(dalle scuole). Le scuole elementari erano costituite
da un grande edificio con immense aule che ospitavano la numerosa prole
dei biassei di un tempo. Furono ristrutturate nel 1925 ampliando le già
esistenti costruite nel 1904 ma pochi anni fa sono state chiuse per
mancanza di alunni. Oggi una nuova ristrutturazione le ha trasformate
in un ostello per i giovani. Oltrepassata la piazza delle scuole si
raggiunge il Gòbu,
altro gruppo di case da cui si può ammirare il golfo
della Spezia e si ha un gradevole colpo d’occhio su Biassa.
Dàu Lanpiùn
(dal lampione) - È un toponimo comune a Biassa: sta ad
indicare il luogo dove - precedentemente all’installazione della luce
elettrica - si trovava un lampione per rischiarare i luoghi più
frequentati.
Paròdi
- È il monte sulla cui sommità è stato costruito un grande forte
a difesa della città militare, mantenuto in attività sino alla fine
della guerra. La costruzione dei forti sulle alture del golfo avevano
dato lavoro, durante la guerra, a molti scalpellini locali. Le loro
opere si potevano notare negli rifiniture degli acquartieramenti
militari, nei pavimenti in lastre squadrate di calcare, scalpellinate
“di fino”, negli intarsi e incastri realizzati nell’arenaria degli
stipiti delle porte. Dalla fine della guerra ad oggi tutte queste
testimonianze di maestrìa artigiana sono quasi scomparse; la causa
dipende in parte dalle distruzioni provocate dalle esercitazioni
militari, in parte dall’ asportazione indebita del materiale lapideo
per abbellire case private. Ciò che non è stato possibile asportare è
l’incomparabile bellezza che lo sguardo abbraccia nella sua maestosità:
il golfo, le Alpi Apuane, le vallate, i corsi d’acqua.
Gòri
- Antica osteria sul Monte Parodi, dapprima, durante la guerra,
situata nei pressi dell’abetaia, poi in località Paradìsu, dove
scendeva il sentiero per Biassa.
Abetàia
- Nel 1894 fu sperimentata la piantagione di abeti nei pressi
delle Cà rùsse
di proprietà demaniale, ora sede delle colone estive
comunali, sul Monte Parodi. L’attecchimento della specie vegetale ebbe
un tale successo, che ancor oggi si può ammirare e godere della
bellezza e del rigoglio di queste piante.
Canaùn
(Canalone) - È il canale formatosi nel versante di Biassa del
Monte Parodi, all’altezza della Pianèla. Canale profondo e scuro per
l’intensa ombra delle piante. Durante la guerra, qualche fortezza
volante lasciò per sbaglio il suo carico di morte in quel luogo.
Durante gli incendi del dopoguerra, numerosi furono gli scoppi uditi da
Biassa provenienti dai boschi in fiamme.
Mùnte Biàssa
o Castelàna de Biàssa
- Un po´ più in basso del Monte
Parodi si trova il Monte Biassa i cui versanti boscosi, purtroppo più
volte incendiati, accolgono varietà di pini e - più in basso - il luogo
denominato Redemé.
Pianèla
- La zona era un tempo ricca di enormi pini. Gli incendi e il
progredire delle acacie ha fatto di questo territorio una zona
selvaggia e cespugliosa. Dal Monte Parodi scendono bellissime scalinate
costruite in bozze di calcare sepolte dai cespugli che raggiungono la
Pianèla nel suo pianeggiante sentiero che da una parte conduce alle
alture della Foce e dall’altra scende alla Ciòsa di Biassa.
Ròche da
Maiùna (Rocce della Mariona) - Guardando la montagna del
Parodi dal borgo di Biassa, alla sinistra del Canaùn si trova
questo
toponimo che indica un luogo roccioso di proprietà della Maiùna, una
delle antiche donne di Biassa e nelle cui vicinanze è la Còsta di
Canèi, sito dove il ceduo di castagno raggiungeva un tempo
altezze
considerevoli.
Piàza
- È il versante del Monte Parodi al di sotto della Pianèla. Alla
sua destra confina con il Canàu
da Piàza, il cui terreno vicino era
coltivato ed era chiamato Buzùn,
perchè si trovava in prossimità dei
grossi ristagni di acqua che si formavano dopo piogge particolarmente
abbondanti, che facevano “avviare” il canale. Alla sua destra,
confinante con Redemé
era la Còsta da Piàza
che con le sue rocce
bianche emergenti segnava il confine con Redemé. A sua volta
la Piàza,
si divideva in tre località: Piàza
d’usèu, in alto ai confini con la
Pianèla;
Piàza survàna,
situata sopra il sentiero che longitudinalmente
attraversava tutta la Piàza
e che portava alla Foce;
Piàza sutàna
che
dal sentiero scendeva sino al canale sottostante della Piàza, nei
pressi di Làgu.
Redemé
- Alle falde del monte Biassa, località soleggiata con un
terreno sciolto e pietroso simile a quello di Tramonti, per cui oltre
al grano che qui maturava presto era coltivata pure la vite il cui
frutto rivaleggiava con quello di Tramonti. Nella zona più
pianeggiante, sopra il sentiero che da Biassa raggiungeva il Vignale,
vi era un gruppo di piccole case, costruite a somiglianza di quelle di
Tramonti.
Redemé sutàn
- Dal sentiero sopracitato, i campi scendevano verso le
Fornaci ed erano attraversati da una ripida scalinata.
Ruchéte
- Tratto del sentiero verticale che dalla Còsta da Piàza
immetteva in Redemé.
Piccoli campi vignati e bianche rocce calcaree che
affiorano tra la terra rossa.
Cumiàgu
- Ombrosa località sita al di sopra del sentiero di Redemé e
confinante da un lato con le Ruchéte
e dall’altro con il canale di
Redemé.
In alto il sentiero che dalla Pianèla
porta alle alture della
Foce. Tra questi confini, all’esteso bosco di castagni, era stata
strappata in tempi non recenti, una vasta zona destinata alla
coltivazione di grano e patate.
Tramùnti
(Tramonti) - Con questo nome si indica il territorio nel
comune della Spezia che inizia al Canàu
de Perazzìna (Fosso della
Parassina), al confine con Riomaggiore e termina all’Albana, che
confina con Porto Venere. Gli agglomerati più consistenti formati dalle
cosiddette “cantine”, un tempo di proprietà esclusiva della gente di
Biassa e Campiglia, sono: Fòssua
(Fossola), Munestaöi
(Monesteroli),
Schiàa
(Schiara), Navùn
(Navone), Pèrsegu
(Persico).
Tra-monti, “di là da’ monti” come è scritto negli atti notarili sino
alla fine del 1800. Non è raro, negli stessi documenti, trovare
indicata Biassa “di qua da’ monti” unendo così le due località in
un’unica entità separata da un confine riconosciuto e riconoscibile da
tutti.
Nella vecchia cartografia, Tramonti era indicato come “Ville di
Biassa”; questo luogo è stato per secoli fonte di vita per i Biassei.
Lì la gente aveva le “cantine” che, oltre alla propria comune funzione,
servivano anche come ricovero nella stagione della lavorazione nei
vigneti. L’uva da tavola e il vino che vi producevano erano la maggiore
risorsa economica. Nel 1905, nel suo studio su I viticultori di
Tramonti, Giovanni Sittoni, stimava in duemila ettolitri
di vino la
produzione ottenuta dai terreni di Tramonti di Biassa e milletrecento
ettolitri quella di Tramonti di Campiglia mentre le famiglie occupate
risultavano essere, rispettivamente, 160 e 90.
Le proprietà dei biassèi sul versante a mare comprendevano, oltre a
Fossola, anche Monesteroli, Schiara e gran parte dei terreni e delle
cantine poste al di sotto Campiglia e cioè Persico e Navone,
sconfinando anche, nella parte opposta, nel territorio del comune di
Riomaggiore, dove avevano case e poderi a Campi e alla Pineda.
Nei lunghi soggiorni a Tramonti, per adempiere alle cure religiose, la
gente del posto aveva costruito dei piccoli oratori come quello di
Schiara, dedicato a sant’Antonio da Padova (13 giugno); quello di
Monesteroli doveva essere consacrato a S. Pantaleone (S. Pantelè) ma
per contrasti sorti fra i proprietari dei terreni su cui doveva sorgere
l’edificio, non se ne fece nulla. La storia della piccola chiesa della
Fossola, intitolata all’Angelo Custode (2 ottobre) ce la racconta
invece don Antonio Rossi (1759 - 1835) in un manoscritto:
“Del 1805 27 Settembre
per Decreto di Monsignore Giulio Cesare
Pallavicino vescovo di Sarzana, il Reverendo Don Antonio Rossi d’Andrea
Sacerdote di Biassa Rettore di Pegazzano ha benedetto l’Oratorio sotto
il titolo dell’Angelo Custode (forse per errore di Sarzana sotto il
titolo di Gesù nell’orto come si vede dal rescritto favorevole di
benedire detto Oratorio) quale fu benedetto in sudetto giorno e vi
cantò la messa”.
Copia del
decreto di Fondazione:
Illustrissimo
e Reverendissimo Monsignore
Più di
cinquanta famiglie di Biassa nei mesi di Settembre, Ottobre,
Gennaio e Febbraio abitano di là da monti nel quartiere della Fossola e
sue adiacenze, luoghi di mare posti nel distretto di detta Parrocchia
al fine di coltivare i loro terreni, introitare, ed esitare i prodotti.
Ora li
medesimi riverenti oratori desiderando il comodo di sentire in
detti tempi almeno nei dì festivi di precetto la S. Messa, supplicano
l’innata bontà di Vostra Illustrissima e reverendissima del ben dovuto
permesso ed intesa facoltà di costruirsi al detto oggetto un oratorio
ossia cappella in luogo decente sotto il titolo del S. Angelo Custode,
o come meglio. Il che come giusto sperano di ottenere da Vostra
Illustrissima e Reverendissima la detta grazia.
Oggi Tramonti è cambiato: molti vigneti sono stati abbandonati e le
vecchie cantine in parte acquisite dai forestieri che le hanno
destinate a residenza per le vacanze. Un tempo non lontano, soltanto
nel 1955, il pittore Renato Birolli, milanese ma amante delle Cinque
Terre, definì Tramonti “Patagonia a sud delle Cinqueterre” tanto sembrò
a lui di una bellezza selvaggia questo territorio e dura la vita degli
uomini che vi abitavano.
VERSANTE
TRAMONTI (TRAMÙNTI)
ZONA SCHIARA (SCHIÀA)
Castèu
Crùse de
Schiàa o Pòsa
Maupàssu
Véu
Paradìsu de
Véu
Casòti de Véu
Ciàn de Véu
Crùse de
Nasèca
Rüta
Lavasöu
Zzèri
Ròca der
mùnte
Vignöi
Ròca de
Vignöi
Sc-ciànca
Pòza
Canpudònegu
Cìan der
Canpudònegu
Nuzzàn
Funtàna de
Nuzzàn
Canàu de
Nuzzàn
Castàgni de
Nuzzàn
Agréta
Buiùn
Laméta
Michéu
Fùndega
Rebòlu
Cantunèu
Cantùn
Ciàza di
Cantùn
Lizzadèu
Zzése
Güzzerné
Còsta da
Gaiàda
Gaiàda
Ròca da
Gaiàda
Lavasöu
Préde
Fundeghéta
Burdàiu
Làma du Scàu
Scàu
Schiàa
Schiaéta
Santantunìn
Còsta
Zziburèi
Scàu de
Bertàn
Ciazzéta
Aenèlu
Calànte
Luvàu
Canàu du
luvàu
Scaìnciu
Strìa
Növu
Lìzze
Lànza
Canàu de
Canpanèla
Canaàzzu
Custèla de
nàche
Bèlavìta
Butàu
Calanòta
Francanése
Custèla
Löghétu
Pùzza grànde
Scòiu de
Ciatìna
Pünta
Canàe
Àiga dùze
Scàu vèciu
Bechéti
Càva de
Picùlu
Mèzu scàu
Scòiu da
baléna
Picuzzìn
Galée
Scòiu de
Bagnéta
Scòiu der pìn
VERSANTE
TRAMONTI (TRAMÙNTI)
ZONA DI
MONESTEROLI (MUNESTAÖI)
Caròpi
Puséte
Pitùn
Gaitaöa
Rùncu
Rebùi
Canàu du
Rùncu o de Rebùi
Puzài
Pèzzu
Canàu der
pèzzu
Cà vècie
Sùrchi
Custèla de
uìve
Uìve
Aéna
Naché
Ciàza du
Naché
Pùla du Naché
Sàn Pantelé
Cà da Ciupìna
Cà de Vèli o
du Sargu
Predaèle
Püntàzza
Lögu
Valéta
Fundeghéta
Predaòtu
Dàu sèuzu
Muntunàu
Ròca der
Muntunàu
Galerìa der
Muntunàu
Casòtu der
Bràica
Pünta
Scòiu da
Ninìna
VERSANTE
TRAMONTI (TRAMÙNTI)
ZONA DI
FOSSOLA (FÒSSUA)
Dàa lìzza
Via stòrta
Büti
Fùndega de
Büti
Ciàn de Büti
Custelìn
Cravaézza
Nuséciu
Canàu de
Nuséciu
Lumenàdi
Làma
Làma sutàna
Ruchéte
Custèla
Cravìu
Casòti
Tuétu
Bàuzu
Ganbàzza
Cùnca
Scàu da
Fòssua
Àiga fréda
Pascaòta
Magadàgnu
Còste
Cuunbàa
Custiöa
Làma scrösa
Bernardèla
Pèzzi vèci
Dàa crùse
Perazzìna
Canaéta
Bisùn
Merlìn
Ròca der
Merlìn
Spelàdu
Landàn
Grimàudu
Capèu da
préte
Bucunétu
Scòiu de
Gianmàia
Mainèlu
Ciapédu
Scàu vèciu
Spedalée
Bùcua
Àngelu
custòdiu
Fòssua sutàna
Pünta de
Manuèlu
Làma di Bùzzi
Pinèlu
Fratàzza
Due parole
dell’Autore
Questa è una raccolta di voci: la memoria dei vecchi nell’epoca dei
software, delle immagini che dopo un lungo viaggio percorso in un tempo
brevissimo, arrivano ai nostri occhi su appositi schermi che
impoveriscono la fantasia, adattata a immagini scelte da altri.
Un tempo la memoria era la linfa essenziale alla quale attingevano i
giovani per affrontare la vita. Il proverbio raccoglieva l’esperienza
dei molti anni vissuti, le massime popolari descrivevano con poche
parole, spesso con ironia, il modo a cui ci si doveva uniformare per
vivere in quel tempo ma molte di esse continuano ad essere attuali
anche adesso.
Biassa, paese contadino e chiuso, teneva in gran conto gli usi del
passato e ignorava il progresso. Le medicine erano inutili: si
ritenevano sufficienti gli infusi di erbe o le fatture. Il primo medico
che prestò servizio a Biassa in modo continuativo dal primo giorno di
luglio del 1890 fu il dott. Luigi Spezia, giunto in paese a seguito di
un “patto di abbonamento” stipulato con quaranta capifamiglia suddivisi
in 1°, 2° e 3° categoria, i quali si erano imposti di pagare, secondo
la categoria, 20, 16 o 12 lire. Il dottore, da parte sua, si impegnava
a recarsi a Biassa due volte la settimana, e pernottarvi, per assistere
eventuali ammalati abbonati.
Una parte delle cose raccontate in questo libro le avevo più volte
ascoltate da mia nonna Netina, perché, maggiore di età di mio fratello
e di mia sorella, avevo modo di riascoltarle ogni volta che lei le
ripeteva a loro. Altre me le hanno raccontate gli anziani a cui mi sono
rivolto per ascoltare la “voce della memoria”, che era stata trasmessa
loro da una “memoria” più antica e così via.
I testimoni a cui appartengono le voci di questo volume e che hanno
vissuto in quell’epoca, contrappongono ai ricordi di allora il tempo di
oggi ma, secondo il loro modo di vedere, i video-games dei giovani e i
cartoons con le violente battaglie stellari imposte ai bimbi attraverso
la televisione, non possono reggere il confronto con il loro passato,
semplice e genuino. Raccontano gli anni della loro gioventù, episodi e
aneddoti lontani con lo sforzo di tirare fuori dalla memoria impigrita
le ninne nanne della loro infanzia, i motteggi dell’adolescenza e le
canzoni della gioventù.
Le donne hanno ricordato in particolare il tempo in cui giovani del
paese, divisi in due gruppi, cantavano “i dispetti”. Si rilanciavano
l’uno e l’altro, pungenti stornelli, talvolta improvvisati al momento,
aventi per oggetto la fanciulla corteggiata da uno di loro. Ed erano
ancora le donne le depositarie delle ninne nanne, delle favole, perché
spettava loro allevare i neonati che, imprigionati e frignanti in
strette fasciature, avevano bisogno di essere consolati dalla
rassicurante voce della mamma. E poi, grandicelli, dalle favole.
La lingua usata era il dialetto, oggi impoverito per la perdita dei
molti oggetti non più in uso e per la sopravvenuta consuetudine di
esprimersi in lingua italiana. Le persone che mi hanno aiutato in
questo lavoro sono ancora custodi (forse gli ultimi) delle vecchie
tradizioni, della parlata e della conoscenza delle storie del nostro
antico paese. Bruno Sommovigo, nato nel 1912 (e purtroppo mancato
qualche tempo fa) aveva memoria lucida e carattere metodico e pacato:
mi ha narrato fatti accaduti a Biassa fino dal 1921 con ricchezza di
particolari ancora ben chiari nella sua mente. Ideale Gianardi, “quasi”
maestro, classe 1922, da un luogo privilegiato, la bottega, ha raccolto
molto materiale al quale ho potuto attingere. Nei ritagli di tempo che
gli lasciava libero la sua attività, ha svolto una ricerca approfondita
sul dialetto biasséo raccogliendo in un ricco e preciso vocabolario
ancora inedito oltre tremila vocaboli. Maria Scaglione, altra fonte
preziosa di antiche tradizioni, nata nel 1912, ben rappresenta anche il
simbolo della donna biasséa, forte e coraggiosa: rimasta vedova a 23
anni si è dedicata ai lavori dei campi a Tramonti sino all’età di 85
anni, poi si è ritirata… per sopraggiunti dolori reumatici.
Ma ho ricevuto aiuto da molti altri biassèi che incalzati dalle mie
domande hanno rievocato ricordi sepolti da anni, come Ada Natale che,
oltre ai ricordi che più mi interessavano, riguardanti Biassa, mi ha
recitato poesie imparate alle elementari nei primi anni del 1920 (Ada è
del 1914); e ancora Fernanda Bertano, una cordiale “signorina” del 1921
che con immutata vivacità ha intonato canzoni in biassèo, imparate dai
genitori.
Folclore
Biassèo
Pentin
Pentin i
spazzeva ‘r camin
e i trövete
‘n catrin.
Aua, i
disete, cu a me ghe catu?
S’a ghe catu
i fighi sechi
me tuca
bötaghe i picùli;
s’a me ghe
catu e nuse
a ghe devu
bötae a güssa;
s’a me ghe
catu i pumi
a ghe devu
bötae u rusiùn.
Dopu tantu
pensae i decidete:
a me ghe
cateò i fighi sechi
e a mangeò
picùlu e tütu…
Pentin
Pentinpuliva il camino
e trovò un soldo.
Adesso, disse, cosa ci compro?
Se ci compro i fichi secchi
devo buttare il picciòlo;
se compro le noci
devo buttare la buccia;
se compro le mele
devo buttare il torsolo.
Dopo tanto pensare decise:
mi comprerò i fichi secchi
e mangerò picciòlo e tutto…
La volpe e il
lupo
Raccontava la nonna: la volpe e il lupo erano molto assetati, ma il
pozzo era ad un livello basso. Decisero perciò di calarsi uno alla
volta, trattenuto dall’altro per la coda. Arrivata al livello giusto la
volpe bevve e tornò al suo posto.
Si calò il lupo, trattenuto per la coda dalla volpe. Raggiunta l’acqua
il lupo disse: “Cumae, a
lapu (Comare, bevo)”. E la volpe pronta:
“Cunpae, pe’ la cua a ve
lassu (Compare, per la coda vi lascio)”. E se
ne andò mentre il lupo precipitava nel pozzo.
Sui Gianardi
Dei componenti della famiglia Gianardi, cognome molto diffuso a Biassa,
si racconta che, nel passato, dopo la morte, venivano scrollati per tre
volte, per avere la certezza che fossero veramente morti.
Nello “sfottò” paesano avevano inventato questa canzonetta:
E purtelu
bassu bassu
che e rame
la ne lu ciapu,
ch’i ne faga
da chel’anu
ch’i è
remasu tacà ar castagnu.
Portatelo basso basso
che i rami non l’acchiappino,
che non faccia da quell’anno
che è rimasto appeso al castagno.
(Nel trasportare la salma al cimitero).
A
stoia de ma zeia veceta
L’ea de
Carlevà
i raviöi i
vureva fà.
S’te vöi fae
i raviöi
va a zercae
cuse ghe vö.
I s’è missu
a caminae
e ben prestu
a galupae.
Candu i è
stà ‘n zima àa ligia
schiaghe ‘r
pé e vatelu a pigia.
I se n’è
andà drentu a ‘n fossu
tütu
crövertu de merda adossu.
I è passa ‘n
tre na via streta
e i à persu
a se bereta.
La l’à trövà
se zeia veceta.
I è andà da
se zeia veceta
che
la ghe daga a se bereta,
a bereta la
ne ghe vö dae
se ‘r pan i
ne ghe và a piae.
- Dunde a
vagu per pan?
- Te vai ar
furnu.
- Furnu,
dame der pan.
- A ne te
dagu de pan
se n’ te me
dai a pasta.
- Dunde a
vagu per pasta?
- Va daa
mastra.
- Mastra,
dame a pasta.
- A ne te
dagu de paste
se n’ te me
dai a faina.
- Dunde a
vagu per faina?
- Và ar muin.
- Muin, dame
a faina.
- A ne te
dagu de faina
se ne te me
dai de gran.
- Dunde a
vagu per gran?
- Te vai ar
canpu.
- Canpu,
dame ‘r gran.
- A ne te
dagu de gran
se ‘n te me
dai de ledame.
- Dunde a
vagu per ledame?
- Và dar
porcu.
- Porcu,
dame u ledame.
- A ne te
dagu de ledame
se ne te me
dai e giande.
- Dunde a
vagu per giande?
- Và au zèru.
- Zèru, dame
e giande.
- A ne te
dagu de giande
se ne te me
dai er ventu.
- Dunde a
vagu per ventu?
- Và ar mae.
Er mae i me
dete ‘r ventu, ‘r ventu a lu purtei au zèru. U zèru i me
dete e giande, e giande a le purtei ar porcu. Er porcu i me dete u
ledame, u ledame a lu purtei ar canpu. Er canpu i me dete ‘r gran, ‘r
gran a lu purtei ar muin. Er muin i me dete a faina, a faina a la
purtei aa mastra. A mastra la me dete a pasta, a pasta a la purtei ar
furnu. Er furnu i me dete ‘r pan, ‘r pan a lu purtei aa zeia veceta,
che la me dete a me bereta.
La storia di
mia zia vecchia
Era di carnevale
i ravioli voleva fare.
Se vuoi fare i ravioli
vai a cercare l’occorrente.
Si mise a camminare
e ben presto a galoppare.
Quando arrivò in cima alla frana
gli scivolò un piede e vattelo a pigliare.
È finito dentro ad un fosso
e si è coperto di merda addosso.
È passato in una strada stretta
dove ha perso la sua berretta.
L’ha trovata sua zia vecchietta.
Andò dalla zia vecchietta
che gli desse la sua berretta,
la berretta non gliela vuole dare
se non gli porta il pane.
- Dove vado per pane?
- Vai al forno.
- Forno, dammi il pane.
- Non ti dò il pane
se non mi dai la pasta.
- Dove vado per pasta?
- Vai dalla mastra.
- Mastra, dammi la pasta.
- Non ti dò pasta
se non mi dai farina.
- Dove vado per farina?
- Vai al mulino.
- Mulino, dammi la farina.
- Non ti dò farina
se non mi dai grano.
- Dove vado per grano?
- Vai al campo.
- Campo, dammi grano.
- Non ti dò grano
se non mi dai letame.
- Dove vado per letame?
- Vai dal porco.
- Porco, dammi il letame.
- Non ti dò letame
se non mi dai ghiande.
- Dove vado per ghiande?
- Vai al cerro.
- Cerro, dammi le ghiande.
- Non ti dò ghiande
se non mi dai vento.
- Dove vado per vento?
- Vai dal mare.
Il mare mi diede il vento, il vento portai al cerro. Il cerro mi diede
le ghiande, le ghiande portai al porco. Il porco mi diede letame, il
letame portai al campo. Il campo mi diede il grano, il grano portai al
mulino. Il mulino mi diede la farina, la farina portai alla mastra. La
mastra mi diede la pasta, la pasta portai al forno. Il forno mi diede
il pane, il pane lo portai a mia zia vecchietta, che mi diede la
berretta.
Canzoni
Gli adulti le cantavano ai piccoli tenendoli sulle ginocchia e
facendoli dondolare.
Chesta ganba
la ven da Ruma
se la ghe
turna la se vergugna;
chesta ganba
la ven de ‘n Spagna
se la ghe
turna la se bagna.
Questa gamba viene da Roma
se ci ritorna si vergogna
questa gamba viene dalla Spagna
se ci ritorna si bagna.
Carlevà i è
‘n bèl’umetu
i à e corne
cume ‘n becu
i à i oci
chi strapana
Carlevà i và
‘n tra tana.
Carnevale è un bell’ometto
ha le corna come un becco
ha gli occhi che bucano
Carnevale va nella tana.
Oppure:
Carlevà i è
‘n bèl’umetu
i à dui oci
chi strapana
ma siben chi
sia vecetu
i sauta là
cume na rana.
Carnevale è un bell’ometto
ha due occhi che bucano
ma sebbene sia un vecchietto
salta là come una rana.
La neva, la
ciöva
a faemu na
cà növa
de ciungiu,
de brunzu,
de merda de
cuunbu.
Nevica, piove
costruiremo una casa nuova
di piombo, di bronzo,
di merda di colombo.
Duman l’è
fèsta
‘r prete i
se vèsta
i beva ‘n
tre ‘n bucale
viva, viva
carnevale.
A vagu de
sutu
a fagu a
facenda
a tiu a tenda
e poi me ne
vò.
Domani è festa
il prete si veste
beve in un boccale
viva, viva carnevale.
Vado di sotto
faccio la faccenda
tiro la tenda
e poi me ne vado.
Baanzèa d’ou
che pesa ciù
ca l’ou
ou e argentu
che pesa ciù
de zentu…
Paranza d’oro
che pesa più dell’oro
oro e argento
che pesa più di cento…
Vöga vöga a
vögagna
andeemu
‘nfina ‘n Spagna
e de ‘n
Spagna e de ‘n spagnöu
‘n tre
l’ortu de l’Andreiöu.
Andreiöu i
ne ghe trovò
zinchezentu
i n’ amazò
senza dane
mancu ‘n po´
sulu i me
dete n’ussiöu
per purtae
ar me cagnöu.
Er cagnöu i
fà bau bau
a cutèla
atacà ar pau
e er pau
atacà ar cüu
Vatelo a
piae coozù ‘n tru müu.
Voga voga la vogagna
andremo sino in Spagna
e di Spagna e di spagnolo
dentro l’orto di Andreolo.
Andreolo ci trovò
cinquecento ne ammazzò
senza darne nemmeno un po’
solo mi diede un ossicino
da portare al mio cagnolino.
Il cagnolino fa bau bau
la coltella attaccata al gancio
e il gancio attaccato al culo
vattelo a prendere laggiù nel muro.
E l’anziano,
serio, recitava:
Giüsepe
Zanbotu
‘n tren curpu
i ‘n mazete
vintotu…
I bimbi con gli occhi spalancati, pensavano atterriti a chissà quali
delitti.
Ma erano solo… mosche.
Indovinelli
Tra mèzu a
dua muntagne
passa ‘n
cavalier cantandu.
I è ‘r petu.
In mezzo a due montagne
passa un cavaliere cantando.
È il peto.
A ne vagu a
lètu cuntentu
s’à ne ghe
lu metu ‘n parmu drentu.
I è ‘r
paletu.
Non vado a letto contento
se non glielo metto un palmo dentro.
È il chiavistello.
Gh’è na cosa
tra dua stanghe,
che la se
meta tramèzu ae ganbe;
la se mia a
se feìpa
se la l’à
storta o se la l’à drita.
L’è a
canpana.
C’è una cosa tra due stanghe
che si mette in mezzo alle gambe;
si guarda la sua feìpa (?)
se ce l’ha storta o se l’ha dritta.
È la campana.
N ser munte
gh’è Micheu
i à na ganba
senza peu,
i à ‘r
capèu, n’omu i ne l’è,
‘nduvina
cus’i è.
I è ‘r fünzu.
Sul monte c’è Michele
ha una gamba senza pelo
ha il cappello, ma uomo non è
indovina che cos’è.
È il fungo.
‘N cestin de
giancaìa,
i và denanzi
a chi che sia,
i và denanzi
a prenzepi e re
l’è roba de
cüu ma merda la n’è.
I è ‘n
cestin de övi.
Un cestino di bancheria,
va dinanzi a chicchessia,
va dinanzi a principi e re
roba è di culo ma merda non è.
È un cesto di uova.
‘N ser munte
de Lìfete e Lòfete
la ghe canta
merlin e merlòfete
i g’à a
ganba verdulina
‘ntenditor
che l’anduvina.
I è ‘r merlu.
Sul monte di Lìfete e Lòfete
ci canta merlin e merlòfete
ha la zampa verdolina
intenditor chi lo indovina.
È il merlo.
Quando la
pratica diventa…sapere.
Candu ciöva
se gadagna de ciù
a durmie ca
andae ‘n tre tère.
Quando piove si guadagna di più
a dormire che di andare (1) nelle terre.
(1) a lavorare
L’arelöiu
der canpanin
i dà a sveia
ar matin.
L’orologio del campanile
dà la sveglia al mattino.
La vaa ciü
n’ua de matin
ca tütu u
restu du giurnu.
Vale più un’ora del mattino (1)
che tutto il resto della giornata.
(1) per il lavoro nei campi
A burasca de
matin la fa vegnie u seenìn.
La burrasca del mattino fa venire il sereno.
A brinada la
n’è busarda:
la ciama
senpre o neve o aiga.
La brina non è bugiarda:
chiama sempre neve o acqua.
(Si dice quando d’inverno si vedono i campi di
Biassa bianchi di brina).
Candu canta
‘r cücu
l’è bun
stalu dapertütu.
Quando canta il cuculo
si sta bene dappertutto.
(È già tempo di primavera).
Candu tuca a
caanténa
ogni anu i
porta pena.
Quando arriva la quarantina
ogni anno in più porta ulteriori acciacchi.
Che vö vede
u tenpu fin
maistrale aa
sea e levantu aa matin.
Chi vuol vedere il tempo fine vento di
maestrale alla sera e di levante al mattino.
Che g’à ‘n
bèu zocu i se lu lassa de marzu.
Chi ha un bel ciocco (1) se lo lasci per marzo (2).
(1) per il caminetto
(2) Marzo è imprevedibile…!
Marzu
cagarzu fiu de ‘n cagadue te fai
paüa ai
povei e anca ciù ai pastue.
Marzo “cagarzo” figlio di un cacatoio fai
paura ai poveri e ancor di più ai pastori.
(Questo mese con la sua incostanza, è fonte di freddo e miseria, sia
per la improvvisa rigidità del clima che per le
piogge. Inoltre, narrano le favole, si fece prestare cinque giorni da
aprile, durante i quali, con diluvi e gelo, sterminò le greggi).
Se marzu i
ne marzeia,
avriu i
marpenseia.
Se marzo non fa i capricci,
aprile fa pensare male.
(Se marzo è calmo c’è da preoccuparsi per aprile).
Marzu, chi
ne pö andae cauzà,
vaga
descauzu.
Che ghe n’à
sulu ‘n pau, se ‘n cata n’autru.
Marzo, chi non può camminare calzato, vada scalzo.
Chi ne ha soltanto un paio (1) se ne compri un altro.
(1) di scarpe
(È riferito sempre all’incostanza di marzo).
Nì de mazu,
nì de mazun
ne te levae
u te gipun.
Nè di maggio (1), nè di “maggione” (2)
non ti togliere il tuo giaccone.
(1) inizio
(2) inoltrato
(Anche a maggio il freddo è sempre in agguato).
Er fögu i è
bun treze mesi l’anu.
Il fuoco è buono tredici mesi l’anno.
Nadau ‘n tru
tizzun Pasca ‘n se ‘r barcun.
Natale nel tizzone (1) Pasqua alla finestra.
(1) accanto al fuoco
Nadau senza
neve i ne vaa na grana de pévee.
Natale senza neve non vale un grano di pepe.
Per S.
Andrea ‘r fredu i spaca a prea.
Per S. Andrea (1) il freddo spacca la pietra.
(1) 30 Novembre
Frevau cürtu
i è pèzu ca ‘n türcu.
Febbraio corto è peggio di un turco.
(È il mese più freddo dell’anno).
S. Martin i
leva musche e muscuin.
S. Martino toglie (1) mosche e moscerini.
(1) col freddo
Santa
Cataina forte stela la ne pö stae
se ne se
rasseéna.
Santa Caterina forte stella (1) non può stare se non si rasserena.
(1) il tempo
Per S.
Luenzu l’à fatu a tenpu,
per San Rocu
l’è stà tropu.
Per (1) San Lorenzo (2) ha fatto in tempo,
per San Rocco (3) è stata troppo.
(1) la pioggia
(2) 10 agosto
(3) 16 agosto
(In ritardo per riparare i danni della siccità).
A pusae la
n’è vergugna
staghe tropu
ne bisugna.
Posare (1) non è vergogna,
però non bisogna starci troppo.
(1) un carico
Che g’à ciù
beu lin fa buna tea.
Chi ha il lino migliore fa buona tela.
Che g’à ‘n
bèu zocu i à ‘n bèu malocu.
Chi ha un bel ciocco ha un bel mucchietto.
(Se c’è l’accortezza di fare scorta di legna per l’inverno vi è
sicuramente la possibilità che in quella casa si risparmi qualche cosa).
Che n’à
tèsta i à ganbe.
Chi non ha testa ha gambe.
(Per tornare a recuperare ciò che ha dimenticato).
Cosa che ne
pö esse ‘n te la crede.
Cosa che non può essere non te la credere.
L’èn messe
ite e vèspei cantà.
Son messe dette e vesperi cantati.
(Son cose ormai passate).
Libertà de
cà sua la ghe scorla
‘r cüu e a
cua.
La libertà (1) nella propria casa fa agitare il culo e la coda.
(1) che si ha
(È bello scodinzolare quando si è liberi in casa propria).
Nfina che i
sassi i vagu ar fundu
i belinun i
guvernean ‘r mundu.
Finchè i sassi andranno a fondo,
gli imbecilli governeranno il mondo.
Per forza la
ne se fa mancu l’asé.
Per forza non si fa nemmeno l’aceto.
Pistae
l’aiga ‘n tru murtau.
Pestare l’acqua nel mortaio.
(Fare un lavoro inutile).
Pistae na
zidente ‘n tre ‘n zèru.
Sbattere una saetta in un cerro.
(Eventualità remota perché il cerro è di solito più
piccolo degli alberi circostanti).
Ne spetae a
mana dau celu.
Non aspettare la manna dal cielo.
(Datti da fare).
Miae e nun
tucae l’è na cosa da ‘npaàe.
Guardare e non toccare è una cosa da imparare.
Che ne se
cuntenta der pogu
ne se
cuntenta mancu de l’assè.
Chi non si accontenta del poco
non si accontenta nemmeno dell’assai.
(L’egoismo non ha limiti).
Che g’à menu
rasun, loia ciù forte.
Chi ha meno ragione, grida più forte.
(E spesso la ragione è la sua).
Che g’à a
testa, pö vegnighe a tigna,
che g’à ‘r
corpu, pö vegnighe a rugna.
Chi ha la testa, può venirci la tigna,
chi ha il corpo può venirci la rogna.
(Quindi non ti rallegrare del male altrui).
Per fae beve
n’ase ghe vurete tüta Ruma,
ma po´i
bevete sulu da na vècia bavùsa.
Per fare bere un asino ci volle tutta Roma, poi bevve solo da una
vecchia bavosa.
(A volte conta più il buonsenso di tutto il sapere degli “esperti”).
Na pissada
l’è na caminda.
Una pisciata è una camminata.
(Dopo bisogna darsi da fare per raggiungere i
compagni che si sono allontanati).
Ninne Nanne
Nina nana
curbeleta
che te mae
l’è andà aa messa
daa messa
l’è andà ar muin
la te purteà
u tetin
ün grossu e
ün pecenin.
Chelu grossu
te lu teteài
er pecenin
te lu lasseai…
Ninna nanna “curbeleta”
che tua mamma è andata a messa
dalla messa è andata al mulino
ti porterà la tetta
una grossa e una piccola.
Quella grossa la tetterai
quella piccola la lascerai …
De tina ‘n
tinèla
metemula ‘n
bèla
de bèla ‘n
belezza
metemula ‘n
frezza.
Di tino in tinella
mettiamola in bèlla
di bella in bellezza
mettiamola in fretta.
A curpa l’è
der ventu
ch’i à cacià
zü a cana
o Gigi fa a
nana
che ‘r pá i
vö durmì.
La colpa è del vento
che ha buttato giù la canna
o Gigi fai la nanna
che il babbo vuol dormire.
Bula, bula i
taiain
daa séa
‘nfina aa matin.
Aa matin i
èn bulà
ecu c’à te
l’ò tacà.
Spiana spiana le tagliatelle
dalla sera sino al mattino.
Al mattino sono spianate
ecco che te l’ho attaccato.
(Si diceva al piccino quando era sfasciato.
Recitando la strofa si portava la mano ai genitali del bimbo come se
lavorando la pasta per fare le tagliatelle si fosse fatto anche il
“bigulin” del bimbo).
Chi ‘n guzzu
d’öiu
chi na
pesèla …
tuca mincèla!
Qui una goccia d’olio
qui un pisello …
tocco il mento!
(Ai più piccini con un dito si toccava la fronte e il naso e si dava un
colpetto al mento).
Modi di dire
scherzosi
Cù’ ‘u südùe
di cantunéi
i g’an fatu
l’aiga benedeta.
Con il sudore dei cantonieri
hanno fatto l’acqua benedetta.
(Tanto era pregiato perché raro).
De chelu che
ghè ne manca gnente.
Di quello che c’è non manca niente.
(È ovvio).
Dopu chi àn
fàtu lù i àn bötà u stanpu.
Dopo aver fatto lui hanno buttato lo stampo.
Ne ghe sèrva
ciù nì medeghi nì ceüseghi.
Non gli servono più né medici né chirurghi.
(È spacciato).
Pe´ falu
sunae la ghe vö vinti citi,
pe´ falu
dermete la ghe vö vinti franchi.
Per farlo suonare ci vogliono venti centesimi, per farlo smettere ci
vogliono venti lire.
Er fümu i va
dai bèi.
Il fumo va dai belli.
È un detto che risale ai tempi in cui in inverno le famiglie si
riunivano davanti al focolare- senza canna fumaria - per scaldarsi).
Ventu futü,
si ne pö surtie daa buca,
i sorta dar
cü.
Vento fottuto, se non può uscire dalla bocca, esce dal culo.
Pe´ stae mèi
dar mau de panza,
mia che te
vaghi a cagae ‘n sa Lanza.
Per guarire il mal di pancia,
devi andare a cagare sulla Lanza.
(Località di Schiara).
Se te vöi
che a mautia la se sana,
vòuza l’ociu
der cüu aa tramuntana.
Se vuoi che la malattia guarisca,
volgi l’occhio del culo a tramontana.
A Mimuna la
bala e la suna,
la tia ‘n
petu, la maza ‘n galetu.
La Mimona balla e suona,
spara un peto, ammazza un galletto.
A ciù bèla
cosa der mundu l’è spazzasse
‘r cüu cu’
‘n sassu retundu.
La più bella cosa del mondo, è pulirsi
il sedere con un sasso rotondo.
(Un ciottolo di mare. Si contentavano di poco!)
A g’ò na
bèla fia tüti i la vönu
e nessun la
la pia.
Ho una bella figlia tutti la vogliono
e nessuno la prende (1) .
(1) in moglie
O´ zögà e ò
senpre vintu
ècu chì cume
a sun depintu.
Ho giocato e ho sempre vinto,
ecco qua come sono dipinto (1) .
(1) ridotto
Pipa, ’mue,
da Biassa a Rimazue.
Fuma, amore, da Biassa a Riomaggiore.
(Fuma in continuazione)
Tia sü merda
‘n castèu.
Tira su merda nel castello.
(A quei ragazzini che non si soffiavano il naso)
Beigö,
curdin curdèla
che te stai
aa Funtanèla.
Tizzone, curdin cordèla
che abiti alla Fontanella.
(Beigö è un
soprannome)
Beigö curdin
curdèla,
’n te levae
daa Funtanèla
che a vaca
l’à fatu ‘r bö.
Si è u tö a
te lu daemu,
si è u
nostru a lu tegniemu.
Tizzone curdin curdèla,
non ti togliere dalla Fontanella
perchè la mucca ha fatto il bue.
Se è il tuo te lo daremo,
se è il nostro ce lo terremo.
(È una variante della prima. Fontanella è una località di Biassa. La
filastrocca si recitava agitando un tizzone in cerchio).
’R castèu i
tia sassi.
Il castello tira sassi.
(Non c’è più nulla da mangiare.
Sembra che questo detto provenga dalla distruzione del castello di
Carpena.
Non avendo più nulla per contrastare l’assalto dei genovesi, gli
assediati tiravano contro di loro le pietre del castello).
Canzonette
biassèe
‘N ser munte
la gh’è ‘n camin che füma
i è ‘r cöe
der me amue che se cunsüma.
Si se
cunsüma làssau cunsümae
i è ‘r cöe
der me amue chi vö brusae.
Sul monte c’è un camino che fuma
è il cuore del mio amore che si consuma.
Se si consuma lascialo consumare è il cuore del mio amore che vuole
bruciare.
Altra variante:
‘N ser munte
la ghè ‘n camin che füma
i è ‘r cöe
der me amue che se cunsüma.
I se cunsüma
pogu a pogu a pogu
cume a legna
verde ’nturnu ar fögu.
Sul monte c’è un camino che fuma
è il cuore del mio amore che si consuma.
Si consuma poco a poco a poco
come la legna verde vicino al fuoco.
A ne me voi
levae da sta paànca
‘nfina che
‘r me amue i ne se vanza.
Non mi voglio togliere da questo palo
finché il mio amore non si affaccia.
Arba der
barcun, fusti ‘n tre ‘n furnu
che t’èi
senpre sarà de note e giurnu.
Anta della finestra, che tu fossi in un forno
perché sei sempre chiusa notte e giorno.
(Per cui io non posso vedere la mia bella).
‘N tru
chinae a scàa, t’ài rutu ‘n tèstu,
ruvina de cà
meia te l’èi sta prestu.
Nello scendere la scala hai rotto un testo, rovina di casa mia lo sei
stato presto.
(Al fidanzato)
Fela balae
che l’è chela dai pei
fela balae
che di pei la ghe n’à.
La n’à na
corba sutu au lètu
e na panea
sutu au scusà.
Fatela ballare che è quella dai peli (1)
fatela ballare che di peli (2) ne ha (3) .
Ne ha una corba sotto al letto (4)
e una cesta sotto al grembiule (5) .
(1) o dalle pere?
(2) o pere?
(3) tanti
(4) pere
(5) peli
(Doppi sensi)
Ai paenti
ghe scorla i
denti
de pulenta
i ne ‘n pön
mangià.
Cu’ i
mangeavu?
Sauzissa e
bacalà
carne de
porcu.
Ai parenti
scrollano i denti
di polenta
non ne possono mangiare.
Cosa mangerebbero?
Salciccia e baccalà
carne di maiale.
(Era una canzonatura sulle eccessive esigenze dei parenti stretti)
A me sun
‘nnamuà de dua suèle
de üna a
l’autra a ne sò chi piae:
üna la me
paa ‘n po’ ciü bèla
de l’autra a
ne me possu destacae.
A Cataina la
me paa ciü fina
ma u spassu
der me cöe l’è a Marina.
Mi sono innamorato di due sorelle
dell’una o l’altra non so chi scegliere:
una mi sembra un poco più bella
dell’altra non mi posso allontanare.
La Caterina mi sembra più fine
ma lo spasso del mio cuore è la Marina.
O che
fortüna t’ai avü Maìa
che da
Biassa t’èi andà ‘n Canpia,
o che
fortüna t’ài avü Angeina
che de ‘n
muntagna t’èi andà àa maìna.
O che fortuna hai avuto Maria
che da Biassa sei andata a Campiglia,
o che fortuna hai avuto Angelina
che dalla montagna sei andata alla marina.
Er me amùe i
me l’à mandà a die
sa ne sun
morta c’à possa muie;
me a ghe n’ò
mandà a die üna ciü bèla
che s’ì n’è
mortu i fùsse sutu tèra.
Il mio amore me l’ha mandato a dire
se non son morta che possa morire;
io gliene ho mandato a dire una più bella
se non è morto fosse sotto terra.
Er me amue i
ne vö ciü c’a canta
perchè gh’è
morta a se cavala gianca,
ma se ghe
fusse morta a vaca e ‘r bö
a voi cantae
pe´ despetu sö.
Il mio amore non vuole più che canto
perché gli è morta la cavalla bianca,
ma se gli fosse morta la vacca e il bue
voglio cantare per dispetto suo.
A rama der
perseghin la l’è na rama
l’è anca ciü
bèu ‘r visu da me dama,
a rama der
perseghin l’è ‘n bèu fiùe
ma l’è ciü
bèu ‘r visu der me amue.
Il ramo del peschetto è un bel ramo
è ancora più bello il viso della mia dama,
il ramo del peschetto è un bel fiore
ma è più bello il viso del mio amore.
Bèla, pe´ ’n
arepàu a te ghe tègnu
candu a ne
sò dunde andae da te a vegnu.
Bella, per un ripiego io ti tengo
quando non so dove andare vengo da te.
- Voia de
lavuae sautame adossu
lavua té,
padrun, che me a ne possu...
- Lavua te,
garzun, che me a te pagu.
- Lavua te,
padrun, che me a m’en vagu...
- Voglia di lavorare saltami addosso
lavora tu, padrone, che io non posso...
- Lavora tu, garzone, che io ti pago...
- Lavora tu, padrone, ch’io me ne vado...
Canzoni cantate dalla Maia che, assieme a Giuvanin, nei primi anni del
Novecento si recavano, vestendo i costumi Biassei con i nomi di
Battistun e Maia, al carnevale in città. Spesso erano invitati in una
sala da ballo in viale Garibaldi dove si esibivano in canti e balli
biassèi.
L’ea a festa
der paiese,
Carlevà da
festegiae
mentre i
stevo tüti ‘n pase
l’è cunparso
‘n grossu can.
Lì per lì
che gran spaventu,
che scapeva
de zà e de là
ma dopu,
tütu ‘n tre ‘n mumentu,
i s’ènu tüti
afratelà,
Batistun cun
a Maia,
a mazurca i
àn balà.
Era la festa del paese,
si festeggiava carnevale
mentre stavano tutti in pace
è comparso un grosso cane.
Lì per lì che gran spavento,
chi fuggiva di quà e di là
ma poi tutto in un momento
si sono tutti affratellati,
Battistone con la Maria,
hanno ballato la mazurca.
A prima note
ca durmìi cun er me amue
i me la fete
na poüa pütana:
i me fete
vede ‘n cosu lüngu e grossu
chi me
arivete ‘nfina ar canaozzu.
A note dopu
a ghe resegundei
ma ‘nvece de
patighe, a ghe gudei.
La prima notte che dormii con il mio amore mi fece una paura puttana:
mi fece vedere un coso lungo e grosso
che mi arrivò sino al gargarozzo.
La notte dopo replicai
ma invece di patire, godetti.
L’ea de
Biassa,
la fieva cun
a ruca
nessün la la
tuca,
che la faga
l’amù.
Era di Biassa,
filava nella rocca
nessuno la tocchi,
che faccia l’amore.
‘R me amue i
è de Vilafranca
i ne vö ní
ca m’arida ní ca canta
alua me a
ghe l’ò itu e a ghe l’ò mandà a die
si n’è anca
mortu ch’i possa muie.
Che me de
chesti pati a n’en voi fae,
chelu che me
basa i me deve spusae.
Il mio amore è di Villafranca
non vuole nè ch’io rida nè ch’io canta
allora gliel’ho detto e gliel’ho mandato a dire
se non è ancora morto potesse morire. Di questi patti io non ne voglio
fare, quello che mi bacia mi deve sposare.
La Caneta, una vecchia di Biassa, cantava e piroettava con le mani
sulle anche:
Tüte e bèle
la vanu e la venu
ma a me
Brüneta a ne la vedu mai,
la se l’è
purtà via ‘r fuesteu
a ne sò si
l’à purtà a san Veneu.
A san Veneu
a la devu andae a piae
che a me
Brüneta a nessun a la voi dae.
Tutte le belle vanno e vengono
ma la mia Brunetta non la vedo mai,
l’ha portata con se il forestiero
non so se l’ha portata a san Venerio.
A san Venerio devo andare a prenderla perchè la mia Brunetta non la
voglio dare a nessuno.
Altre canzoni:
Me a sun chi
‘n Rebui c’a fagu l’erba
‘u Simun i è
a picae a l’aiga freda.
Io sono qui in Reboi a fare l’erba
Simone è a scalpellinare all’acqua fredda.
L’innamorata era a Reboi (sopra Monesteroli) a fare l’erba per le
pecore; il suo innamorato era nella cava dell’Acqua Fredda (lo scalo di
Fossola).
O Bacicin
vatene a cà
o Bacicin
vatene a cà
o Bacicin
vatene a cà
te mae
t’aspeta.
La t’à lassà
u lüme ‘n sa scàa
la t’à lassà
u lüme ‘n sa scàa
la t’à lassà
u lüme ‘n sa scàa
e a porte
averta.
Se la
m’aspeta a g’andeò
se la
m’aspeta a g’andeò
se la
m’aspeta a g’andeò
duman matina.
O Bacicin vattene a casa
o Bacicin vattene a casa
o Bacicin vattene a casa
tua madre ti aspetta.
Ti ha lasciato il lume sulla scala
ti ha lasciato il lume sulla scala
ti ha lasciato il lume sulla scala
e la porta aperta.
Se m’aspetta ci andrò
se m’aspetta ci andrò
se m’aspetta ci andrò
domani mattina.
Candu l’omu
i è vèciu
i à persu e
se vertü,
e ganbe la
ghe fan fricheta
i cuiun i
ghe caiu zù.
Quando l’uomo è vecchio
ha perso le sue virtù,
le gambe gli tremano
i coglioni gli cascano giù.
‘N piatu de
menestra
e ‘n fiascu
de vin bun
vène o Nineta
ch’ à faemu
culaziun (o chel’aziun).
Un piatto di minestra
e un fiasco di vino buono
vieni o Ninetta
che faremo colazione (1) .
(1) o quell’azione
(Anche qui giochi di parole, allusioni).
A canzun de
Mazu.
A vui
Suntìna (Maìa, Chechìna, ecc.)
zùvena de la
casa “maggior di voi”
Diu ve
mantègna, Mazu ve vègna.
Sa me dessu
’növu da vostra gaina
Diu ve la
sarvi dàa lepurina,
sa me dessu
na furmaiéta
der vostru
bancàu
Diu ve lu
sarva stù santu Nadau.
La canzone di Maggio.
A voi Assunta (Maria, Francesca, ecc)
giovane della casa maggior di voi
Dio vi mantenga, Maggio a voi venga.
Se mi deste un uovo della vostra gallina
Dio ve la salvi dalla faina,
se mi deste una formaggetta
della vostra cassapanca
Dio ve la salvi (1) per questo santo Natale.
(1) il contenuto
A Biassa il “Canto del Maggio” si svolgeva seguendo un itinerario che
comprendeva tutto il paese, casa per casa. Numerosi uomini (per il
controcanto suddivisi in due gruppi) dedicavano il canto ad una delle
donne di ogni famiglia di Biassa. Dopo avere trascorso tutta la notte a
cantare, il mattino seguente passavano a raccogliere ciò che ogni
famiglia poteva offrire loro. Il ricavato serviva a preparare un pranzo
per i partecipanti alla festa, tradizione mantenuta con alcune
modifiche sino agli inizi degli anni ‘80. Dal dopoguerra il canto era
questo:
Vieni bel maggio vieni
vieni tutto fiorito
vieni bello e gradito
il mondo a rallegrar.
E se non ci credete
che maggio sia venuto
guardate dappetutto
in mezzo all’erba e ai fior.
Il contadin ritorna
ai campi abbandonati
le pecorelle ai prati
i pescatori al mar.
Or che maggio è venuto
salutiamo il padrone
che porti un bottiglione
di vin che fa cantar.
Tutti formiamo un circolo
armati di coraggio
cantiamo evviva, evviva maggio
viva la gioventù.
Portè pan e formaggio
qualche scudo d’argento
per fare il cuor contento
a questi cantator.
Ecco la bella fante
si affaccia alla finestra
con una rosa in testa
saluta i cantator.
Ecco le alleata
Cesira e Parmicella
... è la più bella
delle più belle ancor.
Minotu
Domenico Bertani detto Minotu (1876 - 1968) è stato l’ultimo dei poeti
dialettali di Biassa. Le sue canzoni ironiche prendevano di mira
principalmente le donne del paese delle quali cantava i pregi e i
difetti con parole semplici ma che colpivano nel segno. Era scapolo e
la sera, seduto sul muretto della “puzza” davanti alla sua cantina a
Schiara, cantava “alla distesa” le sue canzoni, portandosi la mano
all’orecchio, a imbuto, per cercare di sentire le sue stesse parole,
perchè era sordo. Era eccezionale nel costruire muretti a secco e
cisterne per la raccolta dell’acqua piovana, malgrado lo scarso
materiale esistente sul posto.
Sta zuventüa
muderna la va a netezae,
la tia sü a
fuieta
ma u sassetu
la u lassa stae.
Questa gioventù moderna va a nettezzare (1) ,
raccoglie la fogliolina
ma il sasso lo lascia stare.
(1) pulire i campi di Tramonti
(Fa troppa fatica a raccoglierlo!)
Tüte e bèle
de chestu cunturnu
la stanu sü
de ‘n lètu a mezugiurnu.
Dopu la
partu, la vanu per legne
la venu aa
sea ar ciaue de stele.
Tutte le donne quì d’intorno
si alzano da letto a mezzogiorno.
Dopo partono, vanno a raccogliere la legna
ritornano alla sera al chiarore delle stelle.
(Cosa avranno fatto durante questo tempo?)
L’ariva u
tenpu de zzapae
‘r carateo
da sbarazzae.
Te lu meteai
sutu aa grundaa
che se la
ciöva i se venci-à.
Inizia il tempo della zappatura (1)
occorre svuotare il caratello (2).
Lo metterai sotto alla grondaia
in modo che se piove si riempirà.
(1) a Tramonti
(2) vendere il vino
(L’acqua a Tramonti serviva più del vino)
Ne se pö ciü
parlae aa fia der me visin
da cando la
la vö ‘r Bertulin.
Bertulin, ne
fae da ricu
sète ‘nverni
‘n tucafissu!
Non si può più parlare alla figlia del mio vicino da quando è fidanzata
con il Bertolino.
Bertolino, non fare il ricco
sette inverni uno stoccafisso!
(Uno stoccafisso - pesce secco che si mangia generalmente in inverno -
gli durava sette anni!)
‘N tra note
de Nadau
aa
scrinciacüu gh’è vegnù mau.
A mezanote
l’è partì
cun ‘r
müateu de se maì.
Per fasse ‘r
curedin
l’è andà pe
sodi dau Luigin.
Candu u
Luigin i ghi à zzercà
la gà itu
che la ne ghe n’à.
“Se te vöi
‘n po’ de pisun
andemu ‘n
zzima au Turiun,
a l’aia fina
‘n mèzu ai pin
a faemu pari
di catrin”.
“Caa me dona
cheste cose la ne se fan
a g’ò i me
fanti au Tuetu senza pan,
se te senta
a Giucunda
cun dui
cauzi la te sfunda”.
Durante la notte di Natale
alla saltaculo è venuto male.
A mezzanotte è partita (1)
con il mulattiere di suo marito.
Per farsi il corredo
è andata per soldi da Luigino.
Quando Luigino glieli ha chiesti
gli ha detto che non ne aveva.
-Se vuoi un poco di pigione (2)
andiamo sul Torrione,
all’aria pura in mezzo ai pini
faremo pari dei quattrini-
-Cara donna queste cose non si fanno
i miei bimbi sono al Toetto (3) senza pane (4),
se ti sente Gioconda (5)
con due calci ti sfonda.
(1) all’ospedale
(2) un acconto
(3) località della Fossola
(4) niente da mangiare
(5) la moglie di Luigino
Questa canzone (della quale non rimane che una parte) era destinata ad
una donna che non voleva saperne di lui. Per vendicarsi si era
inventato questa ironica situazione…
“Nuova storia
del Gianberlù”
del Maestro Bertani Domenico
Il Gianberlù
du Scoglio
i sta sü aa
matina
e i à scritu
per posta
a na bèla
sartina.
E ci à
mandato a dire
che sta
troppo distante
per scendere
la Gaitarola
la ci fa mal
le gambe.
Io ho
sentito dire
che hai
comprà il fischietto
ma se hai
piacer che ti amo
scrivimi un
po’ più spesso.
O caro
Gianberlù
il nome
l’hai con te
ma cambia
quel pensiero
e non pensar
più a me.
Purtroppo me
ne infuto
non vò più
far lavori
ma quelli
che mi vuole
son tutti
suonatori.
Hai avuto il
coraggio
di scrivere
a me
ma tu sei
troppo brutto
cosa ne fò
di te.
Quando ti
vedo in viso
non ti posso
guardar
mi sembri un
brutto rizzo
che nasce
nel canal.
Ma vieni a
casa mia
che ti darò
quel foglio
non ho altro
che in mente
o Gianberlù
du Scoglio.
Ma venirà
Natale
per vuotare
bottiglioni
quello che
vuol dei fiaschi
vada da
Gianberloni.
Biassa, 3
marzo 1910
Poesie
A simia ch’è
n’piazza
la dà ‘r
mendu a chéi che passa
la se zia
denanzi e dendaré
la i à tüti
tacà a le.
La scimmia che è in Piazza (1)
sfotte quelli che passano
si gira davanti e di dietro
li ha tutti attaccati a lei.
(1) Cavour
A Rimazue la
gh’é na lizza
u diavu i se
g’adrizza
i se
g’adrizza dendaré
i venu tüti
tacà a me.
I se
g’adrizza ‘n ser barcun
u diavu i è
‘n pogu de bun.
A Riomaggiore c’è una quercia
il diavolo vi si erge
vi si erge dal didietro
vengono tutti attaccati a me.
Egli si erge sulla finestra
il diavolo è un poco di buono.
Variante della precedente
A
Rimazue la gh’è na lizza
u diavu i se
g’apizza
i se
g’apizza pe’ u timun
i porta via
cativi e bun.
A Riomaggiore c’è una quercia
il diavolo vi si attacca
vi si attacca per il timone
porta via cattivi e buoni.
‘R muin i
maseneva
e Patèla i
giastemeva,
sorta föa u
Lasagnin:
-Cuse gh’è
chesta matin,
la s’è gastu
‘r me muin. -
Dar burdèlu
ch’i àn fatu
s’è arestà
anca ‘r can e ‘r gatu.
Il mulino macinava
e Patèla (1) bestemmiava,
esce fuori (2) il Lasagnin (3):
-Cosa c’è questa mattina,
mi si è guastato il mulino.-
Dal chiasso che hanno fatto
si è svegliato anche il cane e il gatto.
(1) Gio Batta Cidale
(2) dal mulino
(3) Gaspare Callegari, proprietario del mulino
Oimemé c’a
sentu frize
l’è me mae
che fa i fressöi
la n’à fatu
‘n piatu e mèzu
oimemé ca ne
’n ò assè.
Oimemè che sento friggere
è mia mamma che fa le fritelle
ne ha fatto un piatto e mezzo
oimemè che non ne ho abbastanza.
Gunèla de
trei tei
carbun de
sassu
a testa
sparpaià
senza cuazzu.
Gonna di tre teli
carbone di sasso
la testa sparpagliata
senza cercine.
(Il senso dei versi è oscuro).
Candu me pae
i piete me
mae
banche e
bancheti
i fetu balae.
A me credeva
ch’i fessu i
gnocchi
‘nvece i eu
de sutu
ch’i fevu a
cazzoti.
Quando mio padre
sposò mia madre
panche e panchetti
fecero ballare.
Mi credevo
che facessero gli gnocchi
invece eran di sotto
che facevano a cazzotti.
Miseia e
puvertà
l’en dua
suele
cun a fame e
a sede
l’en catru
cose bèle.
Miseria e povertà
son due sorelle
con la fame e la sete
son quattro cose belle.
O cucü daa
barba gianca
canti agni a
cantu anca
se n’ te me
disi a veità
a te robu a
te cuà.
Cuculo dalla barba bianca
quanti anni campo ancora
se non mi dici la verità
ti rubo il nido.
(Quando in primavera il cuculo lanciava il suo canto dalla “Piaza” o da
altre località intorno a Biassa, i bimbi lo interrogavano gridando
questa cantilena ed il cuculo continuava il suo canto. In base ai
“cucù”, che alla fine dei versi gridati ad alta voce il cuculo
continuava a cantare, il bimbo “sapeva” quanti anni gli restavano da
vivere...!)
A zopa da
Cudèia
i l’àn purtà
ar Muntau,
candu l’è
stà a Leme
i l’àn cacià
‘n tru canau.
La g’ava
n’unbrelin,
i se gh’è
fatu ‘n trei tochi,
candu l’è
stà aa Madona
la feva ‘r
vèrsu ai zopi.
La zoppa di Codeglia
l’hanno portata a Montenero,
quando è arrivata a Lemmen
l’hanno gettata nel canale.
Aveva un ombrellino
che si è rotto in tre pezzi,
quando è arrivata alla Madonna
faceva il verso agli zoppi.
La Madona der Muntau
(Madonna di Montenero) è sopra Riomaggiore ed era
consuetudine che gli abitanti dei paesi al di là del Parodi e quindi
anche Codeglia nel comune di Riccò, nella ricorrenza della festa si
recassero al santuario scendendo la Scalinata Santa posta nel versante
a mare del Parodi. Evidentemente, per i biassei che pure partecipavano
a questa festa, la loro presenza era motivo di canzonatura.
Na furmigua
l’andete ar furnu,
gaavùn ghe
va d’enturnu.
-Gaavùn
dunde te vai?
-Ganba
gianca a voi tucae.
-Ganba
gianca ne te tucheai
‘nfina che
spusa te ne m’aveai.
Una formica andò al forno,
scarabeo gli va dintorno.
-Scarabeo dove vai?
-Gamba bianca voglio toccare.
-Gamba bianca non toccherai
finchè sposa non mi avrai.
A te l’ò
ditu, barca vècia
che te ne
staghi a partie de sea,
i te l’àn
ruta a ciminea
er vapure i
ne parta ciü.
Te l’ho detto, vecchia barca
di non partire di sera,
ti hanno rotto la ciminiera
e la nave non parte più.
La m’è morta
a me vecéta
a ’n ò pià
na zuvenéta
a g’ò itu
refame u lètu
la m’à itu
brütu vèciu
a g’ò itu
spazzame a cà
la m’à itu
vatene ‘n là
a g’ò itu
cösame a zena
la m’à tià a
cadena
a g’ò itu
cösame a fügazza
la m’à tià a
ciapa.
È morta la mia vecchia moglie
ho sposato una giovanetta
gli ho detto di farmi il letto
mi ha risposto brutto vecchio
gli ho detto di scopare la casa
mi ha risposto vattene in là
gli ho detto di cuocere la cena
mi ha tirato la catena
gli ho detto di cuocermi la focaccia
mi ha tirato la lastra.
A sun andà a
Ruma pe´ u Giubilèu
dar papa a
me n’andei a cunfessae,
a prima cosa
ch’i m’avete a die
i me lu
disete s’a fagu l’amue.
A ghe disei
“Padre signursì
ar me paiese
i fan tüti cussì”
i me lu
disse “Fantina beata
se te ne
lassi l’amue t’èi adanata”
i me lu
disse “Fantina de Dio
falu,
l’amue, c’a l’ò fatu anch’io”.
Sono andata a Roma per il Giubileo
dal papa sono andato a confessarmi,
la prima cosa che ebbe a dirmi
mi disse se facevo l’amore.
Gli risposi “Padre signorsì
al mio paese fanno tutti così”
mi disse “Ragazza beata
se non la smetti sarai dannata”
mi disse “Ragazza di Dio
fallo, l’amore, che l’ho fatto anch’io”.
Lazaìn de
Franza
ch’i munta
pe´ a Lanza
pe´ a Lanza
e pe´ i pin
i ciameva
San Martin
San Martin i
ne gh’éa
la gh’éa a
Diana
la suneva a
canpana
a canpana
tüta ruta
trei dunzèle
gh’éa sutu:
üna la fiéva
l’autra la
‘nnaspeva
üna la feva
i capèi de pàia
per mandali
àa batàia
a batàia de
san Michéu
l’ea giüsta
e ben pesà
e biadu che
lu saà.
Lazzarino di Francia
che sale per la Lanza
per la Lanza e per i pini
chiamando San Martino
San Martino non c’era
c’era Diana
che suonava la campana
la campana era rotta
tre donzelle c’erano sotto:
una filava
l’altra annaspava
una faceva i cappelli di paglia
per mandarli alla battaglia
la battaglia di san Michele
era giusta e ben pesata
e beato chi lo sarà.
Se ‘r papa i
me desse tüta Ruma
e i me
disesse “lassa andae che t’ama”
me a ghe
diai de “nu, sacra curuna”
la vaa ciü
‘r me amue ca tüta Ruma!”
Se il papa mi donasse tutta Roma
e mi dicesse “lascia andare chi t’ama”
io gli direi di “no, sacra corona,
vale più il mio amore di tutta Roma”.
Trei teguli,
trei teguli e ‘n madun,
l’arosto, ’n
tru furnu, i è ciü bun...
Tre tegole, tre tegole e un mattone,
l’arrosto (1) dentro al forno, è il più buono...
(1) cotto
A pigrizia
A pigrizia
la andò ar mercatu
e i coi la
li conprò.
Mezzogiurno
i ea sonato
cando a ca
lé l’arivò.
Rava
l’üssio, zenda ‘r fögu,
dopu la se
reposò
e ‘ntanto, a
pogu a pogu,
anca u sù i
tramuntò.
La pigrizia
La pigrizia andò al mercato
ed i cavoli comprò.
Mezzogiorno era suonato
quando arrivò a casa.
Apre l’uscio, accende il fuoco
poi si riposò
ed intanto a poco a poco,
anche il sole tramontò.
A
crucifissiun de Gesù
- Mae meia a
voi andae a spassu.
- Fiu meiu
ne ghe stae andae
che ghe saà
i giüdèi n’ mèzu àa via
chi te vuràn
ligae e purtae via.
- Me di
giüdèi a ne n’ò de paüa.
- Cangiate
alua ‘r vestidu pe´ andae
e dime l’ua
e ‘r menütu
che te devi turnae.
- Candu a
vedé a lüna auta andae
mae meia ne
me sté ciü aspetae.
A Madona la
vedete a lüna auta andae
ma se fiu la
ne lu vedete turnae.
Alua la
chinete e scae
e candu la
arivete visin a chele scüe porte
la piete ‘n
sassu e la le ciuchete forte.
- Che l’è
chela cagna che cioca àe me porte?
- A ne sun
nì cagna nì giüdea
a sun a ciü
dona buna ca ar mundu sia.
Alua chinete
zù ‘n giüdèu cun ‘n pau de fèru e i lu dete ‘n tru muru aa
Madona.
U nostru
Signue alua i disete:
- O cani o
cani, lassé stae ma mae,
sa chino zù
a ve fagu sprufundae.
- Ste fussi
chelu Diu che te ten d’èsse
te chineessi
zù e te lu faessi.
I destachete
‘n brazu daa cruse e in fete sprufundae zinchezentu.
Po´ a Madona
la andete ai pé de se fiu e la ghe disete:
- O fiu,
dime che grazia te vöi, basta che te te levi da chela cruse.
- Andé trei
giurni e trei noti ai pé der Pürgatoiu per me.
Candu la
revegnite la disete:
- O fiu meiu
te m’ài itu na grande busia: a ghe sun sta trentatrei
giurni e trentatrei noti.
- No, mae, a
ne v’ò itu nessuna busia, l’èn e pene che l’èn tante
lünghe.
La crocefissione di Gesù.
- Madre mia voglio andare a spasso.
- Figlio mio non andarci
che ci saranno i giudei in mezzo alla strada
che ti vorranno legare e portare via.
- Io dei giudei non ho paura.
- Allora cambiati d’abito
e dimmi l’ora
e il minuto di quando ritorni.
- Quando vedrete alta la luna
madre mia non state più ad aspettarmi.
La Madonna vide la luna salire in alto
ma non vide il suo figliolo tornare.
Allora scese le scale
e quando arrivò a quelle scure porte
prese una pietra e le picchiò forte.
- Chi è quella cagna che bussa alle mie porte?
- Non sono né cagna né giudea
sono la più buona donna che sia al mondo.
Allora scese un giudeo con un palo di ferro e lo diede sul viso della
Madonna.
Il nostro Signore disse:
- O cani o cani, lasciate stare mia madre,
se scendo dalla croce vi faccio sprofondare.
- Se tu fossi quel Dio di cui ti vanti di essere
scenderesti dalla croce e lo faresti.
Gesù staccò un braccio dalla croce e ne fece sprofondare cinquecento.
La Madonna si recò ai piedi di suo figlio e gli disse:
- Figlio mio, dimmi che grazia vuoi per farti togliere dalla croce.
- Andate tre giornie tre notti ai piedi del Purgatorio per me.
Quando ritornò lo rimproverò:
- Figlio mio mi hai detto una grossa bugia: ci sono rimasta trentatre
giorni e trentatre notti.
- No, madre, non vi ho detto nessuna bugia, sono le pene che sono tante
lunghe.
Maìa Madalena
Maìa
Madalena stoia bèla
de Marta e
de Lazau l’ea suèla.
Candu se pae
i vegnite a muìe
‘n bèu
palaziu i lassete a Madalena.
A cà d’ou e
d’argentu l’ea tüta cena
ma Madalena
la ne s’en procüpeva
e pe´ e se
cànbee la se spasseieva.
‘N giurnu la
vedete u Signue pe´ a via andae
e Madalena
la chinete e scae.
- O Maestru
a me perduné i me pecati?
- Madalena i
te pecati i èn zà perdunati.
- Cume a fe
a perdunae i me pecati
che a ghe
n’ò ciü me ca ’n animau?
- Madalena
ne fae ciù de pecati
che chei che
t’ài fatu i èn sta perdunati.
Cun e te
lagrime te m’ài lavà i pé
e cun e te
trezze te mi ài asügà.
Alua la se
n’andete e candu la arivete a n’autra via, la trövete se
suela Martuina.
La ghe
disete: - O Madalena, dunde t’èi sta cussì tantu, che l’è mortu
nostru frè Lazzau? Se te gh’éi tè forsi i ne muiva. Alua la se fete
‘nsegnae a seportüa e
cun i se
cianti e i se lamenti
la fete
cianze Diu uniputente.
U Signue pe´
daghe u se cunfortu
i fete
suscitae Lazzau ch’i ea mortu.
Mentre che
ar mundu Lazzau i steva,
autru che
cianze i ne feva.
Alua u
Signue i ghe disete: - Cume mai te cianzi senpre, Lazzau?
I ghe fete:
- A voi savée Signue cante voute a devu ancua muie.
U Signue i
ghe respundete: - Na vouta sula.
U Signue i
spieghete a l’Avangéu mai ciù morti a faò suscitae.
Maria Maddalena.
Maria Maddalena storia bella
di Marta e di Lazzaro era sorella.
Quando morì suo babbo
lasciò un bel palazzo a Maddalena.
La casa era piena d’oro e d’argento
ma Maddalena non ne ne preoccupava
e per tutte le camere passeggiava.
Un giorno vide il Signore nella strada
e Maddalena scese le scale.
-Maestro, mi perdonate i miei peccati?
-Maddalena, i tuoi peccati sono già perdonati.
-Come fate a perdonare i miei peccati
che ne ho più io di un animale?
-Maddalena, non fare più peccati
che quelli che hai fatto sono stati perdonati:
-Con le tue lacrime mi hai lavato i piedi
e con le tue trecce me li hai asciugati.
Allora se ne andò e quando arrivò a un’altra strada, trovò sua sorella
Marta.
Gli disse: -O Maddalena, dove sei stata così tanto, che è morto nostro
fratello Lazzaro? Se eri presente forse non moriva. Allora si fece
insegnare la sepoltura e
con i suoi pianti e i suoi lamenti
fece piangere Dio onnipotente.
Il Signore per mostrargli il suo conforto
fece resuscitare Lazzaro che era morto.
Mentre che Lazzaro stava al mondo
non faceva altro che piangere
Allora il Signore gli disse: - Come mai piangi sempre, Lazzaro?
Gli rispose: - Voglio sapere o Signore, quante volte devo ancora morire.
Il Signore gli rispose: - Una volta sola.
Il Signore, spiegò il Vangelo, mai più morti farà resuscitare.
Giochi di
Bimbi
Conto
Bim bum ba
tucafissu e
bacalà
e pulente
cumedà
bim bum ba.
Bim bum ba
stoccafisso e baccalà
e polenta in umido
bim bum ba.
(I bimbi in tondo contavano a chi toccasse andare per primi a
nascondersi).
Giuramento
Cruse de becu
bata ‘n tru
stecu.
Croce di becco
batti nello stecco.
(Era un giuramento per affermare la sua onestà e sincerità).
Discordia
Gancia didu
Aggancia il dito.
(Innocente formula per la rottura dei rapporti tra due bambini).
Fae a cumae
Giocare alla comare.
(Da parte delle bimbe).
Fae a
gantasse.
Giocare ad acchiapparsi.
(Rincorrersi l’un l’altro, tra bambini).
Fae a ciatasse
Giocare a nascondino.
Fae l’esca
Gioco basato sul tentativo scherzoso di abbassare i pantaloni al
compagno.
A stemana
Lünedì i
andete da martedì,
per vede se
marcurdì i avesse visto zòbia
per die ar
vernardì chi diga au sabu
che dumenega
l’è festa.
La settimana
Lunedì andò da martedì,
per vedere se mercoledì avesse visto giovedì per dire a venerdì che
dica a sabato
che domenica è festa.
(E i bimbi così imparavano i giorni della settimana).
Gilòn
Durante i temporali, quando il brontolio del tuono si fa insistente
sino a perdersi in lontananza, si diceva ai bambini impauriti:
Senti Gilòn,
ch’i regüa i caratèi!
(oppure: e
furmaiete!)
Senti Gilòn, che rotola le botti!
(oppure: le formaggette!)
E quando il rumore è secco, perchè più vicino:
Senti cume
l’è ‘nrabià a muiée de Gilòn:
la ghe tia e
pügnate!
(oppure: i
piàti)
Senti come è arrabbiata la moglie di Gilòn: gli tira dietro le pentole!
(oppure: i piatti)
Nell’immaginario dei bambini Gilòn era un dio: un dio che comandava ai
lampi e tuoni, viveva con la moglie al di sopra delle nuvole e di cui,
vista la sua terribile voce, occorreva avere paura.
Per impaurire i più piccini, gli adulti lo evocavano in più modi e
occasioni:
Mia c’a te
fagu vegnie a piae
da Gilòn!
Guarda che (1) ti faccio venire a prendere da Gilòn!
(1) se non fai il bravo
Oppure:
Mia c’a
ciamu Gilòn!
Guarda che chiamo Gilòn!
o anche:
Böma... gh’è
Gilòn!
Böma...(1) c’è Gilòn!
(1) detto con voce impaurita
Una breve filastrocca diceva così:
Ton, ton:
che cioca?
I è Gilòn
ch’i è trà aa roca;
ton, ton:
che büssa?
I è Gilòn
ch’i è trà aa lizza.
Ton, ton: chi picchia?
È Gilòn che è dietro alla roccia;
ton, ton: chi bussa?
È Gilòn che è dietro al leccio.
(Insomma il babau di Biassa è Gilòn).
Proverbi in
libertà
L’è mèi
nasse furtünà ca nasse ricu.
È meglio nascere fortunato che nascere ricco.
‘N po´pe´ ün
ne fa mau a nessün.
Un po’ ciascuno non fa male a nessuno.
Nun èsse ni
ciuchi ni ‘nbriaghi.
Non essere né ciucchi né ubriachi.
(Capire che qualcuno vuole imbrogliare).
Er mundu i è
na röda che zia:
ancö a me,
duman a te.
Il mondo è una ruota che gira:
oggi a me, domani a te.
Se la n’è
züpa i è pan bagnà.
Se non è zuppa è pane bagnato.
(È la stessa cosa).
Se venda na
vouta sula.
Si vende una volta sola.
(Attenti a fare il passo perché è difficile poi rimediare).
Tiae u sassu
e ciatae ‘r brazu.
Tirare il sasso e nascondere il braccio.
Lebeciu,
senza aiga a ne me ghe metu.
Libeccio, senza acqua non mi ci metto.
(Col libeccio la pioggia è probabile).
Levantu,
senza aiga a ne me vanzu.
Levante, senza acqua non mi affaccio.
(Quel vento dice la sacrosanta verità).
Passà ancö,
la ven duman.
Passato oggi, viene domani.
(La vita continua).
Pasca
Pifanìa tüte e feste la porta via.
Pasqua Epifania tutte le feste si porta via.
Er mèi
medegu i è ‘r tenpu.
Il miglior medico è il tempo.
San Marcu, e
rugaziùn la partu.
San Marco (1), le rogazioni iniziano.
(1) 25 aprile
S’te canpeai
t’aveai di agni.
Se camperai avrai degli anni.
(Con l’età verrà l’esperienza).
Tucafissu e
bacalà,
sc-ciapa
legna e cacia ‘n cà.
Stoccafisso e baccalà,
spacca legna e butta in casa.
(All’inizio dell’inverno provvedi ai viveri ed al riscaldamento).
Zenau, mese
gatau.
Gennaio, mese dei gatti.
(Perché vanno in amore e disturbano più del solito).
A cavalu
nudià ghe lüsa ‘r peu.
A cavallo odiato luccica il pelo.
(Chi è odiato è sempre meglio di quello che si vorrebbe).
A fae der
ben ai ase u diavu i se n’arida.
A fare del bene agli asini il diavolo se ne ride.
(Se fate del bene agli ignoranti state attenti).
A gaina che
canta l’à fatu l’övu.
La gallina che canta ha fatto l’uovo.
(Chi si sbilancia nel parlare non ha la coscenza a posto).
A lavae a
tèsta a l’ase,
se ghe
remeta anca u savun.
A lavar la testa all’asino,
ci si rimette anche il sapone.
(È inutile fare la ramanzina a uno che non vuole intendere…!)
Che vö vede
l’omu san:
i pissa
spessu cume ‘r can.
Chi vuol vedere l’uomo sano:
piscia spesso come il cane.
A bèla l’è
mià, a brüta l’è spusà.
La bella è ammirata, la brutta è sposata.
Ai paenti
ghe scorla i denti.
Ai parenti scrollano i denti.
(Sono affidabili fino ad un certo punto).
A vaésia la
fa brütésia.
L’indolenza fa bruttezza.
(Impedisce il lavoro di pulizia e di ordine).
Candu se
deventa noni se returna fanti.
Quando si diventa nonni si ritorna bambini.
Che vö vede
a se vertü,
meta ‘r
mazzu da per lü.
Per fare vedere la propria virtù,
occorre mettere il mazzo da solo.
(Per fare vedere che sai gà essere uomo devi crearti una famiglia per
conto tuo).
Dau névu e
dàa nèzza,
‘n po´ de
merda ‘n tre na pèzza.
Dal nipote e dalla nipote (1),
un pò di merda in un cencio.
(1) aspettati
(Gli anziani senza figli non siano troppo sicuri dell’aiuto dei
parenti).
I paenti i
èn cume e scarpe:
ciü i èn
streti, ciü i fan mau.
I parenti sono come le scarpe:
più sono stretti più fanno male.
La vàa ciü
‘n beretin ca zentu scüfie.
Vale più un berrettino che cento scuffie.
(Dicevano i maschilisti dell’epoca…).
La vàa ciü
n’omu cume na castagna,
ca na dona
cume na muntagna.
Vale più un uomo come una castagna, che una donna come una montagna.
(I soliti maschilisti…).
Na mae l’è
buna per zentu fìi,
zentu fìi i
n’èn bun pe’ na mae.
Una madre è buona per cento figli,
cento figli non sono buoni per una madre.
Omu peùsu,
omu vertüsu,
dona peùsa,
dona schifùsa.
Uomo peloso, uomo virtuoso,
donna pelosa donna schifosa.
(Chissà perché…).
Er bèu i
zèrna a bèla e a storta,
ma nessüna a
l’autaiu i ne ghe porta.
Il bello sceglie la bella e la storta,
ma nessuna all’altare ci porta.
(L’uomo bello è cacciatore?).
Er primu anu
basa e abrazza,
u segundu
fassa e derfassa,
u terzu
pütana e bagassa.
Il primo anno (1) bacia e abbraccia,
il secondo fascia e sfascia,
il terzo puttana e bagascia.
(1) di matrimonio
(Il primo gli abbracci, il secondo la cura del figlio, il terzo i
litigi).
Sant’Andreia,
i ghe bassa
e püme e i ghe lassa l’ideia.
Sant’Andrea,
gli abbassa le piume e gli lascia l’idea.
(Del desiderio).
Santa
Cataina,
chi se li fa
se li nina.
Santa Caterina,
chi se li fa se li ninna.
(I bambini devono curarseli i genitori).
Se a muiée
la se meta i cauzùn,
‘r maì i ne
g’aveà mai rasun.
Se la moglie si mette i pantaloni,
il marito non avrà mai ragione.
Che g’à ciü
giudiziu, i lu dùvea.
Chi ha più giudizio, lo adoperi.
Ch’è bun de
pena,
i è bun anca
de zapa,
ma per chi
n’è bun de pena,
ne ghe
remana c’à zapa.
Chi è buono di penna (1),
è buono anche di zappa (2),
ma per chi non è buono di penna,
non gli resta che la zappa.
(1) chi ha studiato
(2) a fare lavori umili
Che ciànza,
teta.
Chi piange, tetta.
(Chi sa chiedere ottiene più di un altro).
Che g’à ‘r
pan i ne g’à i denti.
Chi ha il pane non ha i denti.
(Spesso chi ha delle possibilità non se ne rende conto).
Che se möva
dar fögu, perda u lögu.
Chi si muove dal fuoco, perde il posto.
(Nelle famiglie numerose di un tempo, con molte persone attorno al
fuoco del focolare, chi si alzava perdeva il posto ed era sostituito da
un altro componente la famiglia).
Che tropu se
cùcia, ‘r cüu i mustra.
Chi si abbassa troppo, mostra il sedere.
(Non è prudente parlare dei fatti propri).
Che va ‘n
lètu senza zena,
tüta a note
i se remena.
Chi va a letto senza cena,
si rigira tutta la notte.
(In tempi di miseria era un invito a lasciare per la cena qualche cosa
da mangiare per poter dormire tranquilli).
Che de vinti
n’ en à,
de trenta i
n’en pia.
Chi a venti (1) non ne ha (2),
a trenta non ne prende.
(1) anni
(2) di giudizio
(Erano tempi che a vent’anni occorreva essere già uomini).
Ne te fàe
bèfa di recoti,
che duman ti
ài tacà ai oci.
Non ti fare beffa della cispa negli occhi (1), perché domani potresti
averla attaccata agli (2) occhi.
(1) degli altri
(2) tuoi
‘N po’ pe’
ün ‘n brazu àa ma.
Un po’ ciascuno (1) in braccio alla mamma.
(1) tra noi figli
(I vantaggi vanno ripartiti).
Pìa senpre a
gente pe’ lu se vèrsu.
Prendi sempre la gente per il suo verso.
(Cerca di adattarti al carattere altrui).
Er pelandrun
i cangeà
candu l’aiga
la secheà ‘r fen.
Il pelandrone cambierà
quando l’acqua seccherà il fieno.
(Cioé mai).
Tristu ‘r
poveu si deventa ricu.
Tristo il povero se diventa ricco.
(Il nuovo ricco è spesso più cattivo di chi ricco è nato).
L’enteressu
i spartissa ‘r pae e ‘r fiu.
L’interesse divide il padre dal figlio.
Gli insetti e
i bambini
Basaprete
zünza e man
che senù i
te mazeàn.
Mantide congiungi le mani
altrimenti ti ammazzeranno.
(La mantide religiosa si chiama così proprio per il modo in cui
avvicina le zampe anteriori, come se si disponesse alla preghiera).
Viöa, viöa
‘nsegname a
via pe’ andae àa scöa.
Maggiolino, maggiolino
insegnami la strada per andare a scuola.
(Il maggiolino (aiutato) prendeva la direzione della scuola).
Gli animali
nei detti biassèi
Andàe ae
pégue.
Pascolare le pecore.
Avée a pevìa.
Avere la pipita.
(Avere cioé sempre sete come le galline).
Avée ciü
corne ca na panea de lümaghe.
Avere più corna che una cesta di lumache.
Avée ciü mai
ca ‘r can du ciavain.
Avere più mali del cane del chiavarese.
(sette mali soltanto sotto la coda).
Avée i oci
der farchetu.
Avere gli occhi del falchetto.
(Vedere molto bene).
Avée na
simia che ne finissa ciü.
Avere una sbornia da non finire.
Avée ‘n büzu
cume na sarpa.
Avere un buzzo (1) come quello di una salpa.
(1) grosso
Avée u
sc-ciopu dae cane storte:
spaàe ai
merli e ciapae i grili.
Avere il fucile con le canne storte:
sparare ai merli e colpire i grilli.
(Rivolto ai cacciatori che non sanno sparare).
Porcu cussì.
Porco così.
(I Biassèi erano bestemmiatori. Taluni adoperavano questo eufemismo).
Possa
mangiate e furmigue russe.
Che ti mangiassero le formiche rosse.
Possa
mangiate i bui.
Che ti mangiassero i calabroni.
Te me pai ‘r
galu da “sia Checa”.
Mi sembri il gallo della signora Francesca.
(Che si riteneva più gallo dei galli).
Èsse a
cavalu a l’ase.
Essere a cavallo dell’asino.
(Avere raggiunto il proprio scopo).
Èsse der
gatu.
Essere de gatto.
(Sentirsi debole fisicamente o moralmente).
Èsse gnuànte
cume na pégua.
Essere ignorante come una pecora.
Èsse ‘n
piòciu refatu.
Essere un pidocchio rifatto.
(Un morto di fame che per aver visto qualche soldo si crede un Creso).
Èsse pèzu de
na furmìgua russa.
Essere peggio di una formica rossa.
(Per dare fastidio sa il fatto suo).
Èsse svertu
cume ‘n gatu de ciùngiu.
Essere svelto come un gatto di piombo.
(Chissà che corse!…).
Fae i gatin.
Fare i gattini.
(Dare di stomaco).
Ne fae l’ase
che ‘r fen i custa cau.
Non fare l’asino che il fieno costa caro.
Ne lu tröva
mancu u luvu.
Non lo trova nemmeno il lupo.
(Tanto è imbacuccato).
Nun èsse nì
oca nì useu.
Non essere né oca né uccello.
(Non avere carattere).
Pistae cume
‘n purpu.
Pestare come un polpo.
(Deriva dall’abitudine che vi era di pestare un polpo con una bacchetta
di fico per anticiparne la cottura).
Rümegae cume
l’ase de Ligera.
Ruminare come l’asino di Ligera.
(Personaggio di Biassa degli anni ‘20 -’30).
Scrinciàe
cume ‘n grilu.
Saltare come un grillo.
Stae stencu
cume ‘n tucafissu.
Stare rigido come uno stoccafisso.
Èsse pèzu ca
‘n ossu de bissa.
Essere peggio di un osso di biscia.
(Che si divincola anche dopo morta).
Gh’en è per
l’ase e che lu mena.
Ce n’è per l’asino e per chi lo guida.
(Ce n’è per tutti).
L’ase i
porta ‘r vin e i beva l’aiga.
L’asino porta il vino e beve l’acqua.
(Si dice del viticultore astemio).
Mangiae ‘r
cunigiu cun l’arfèu e tütu.
Mangiare il coniglio con il fiele e tutto.
(Essere avaro al massimo).
Nasae tütu
cume ‘n can da tartüfi.
Odorare tutto come il cane da tartufi.
(Essere schizzinoso nel mangiare).
Parla candu
pissa a gaìna.
Parla quando piscia la gallina.
(Cioè: mai).
Porcu netu i
n’è stà mai grassu.
Porco pulito non fu mai grasso.
(La pulizia non è tutto, occorrono anche altre virtù).
Er cucü i fa
i öve ‘n tru nidu di àutri.
Il cuculo fa le uova nel nido degli altri.
(Chi approfitta per insediarsi nelle proprietà di altri).
Trotu d’ase
pogu i düa.
Trotto d’asino poco dura.
(Chi vuol fare tutto e subito smetterà presto).
T’èi ‘n ase
cauzà e vestì.
Sei un asino valzato e vestito.
(Non vali niente).
Versi
scherzosi
Derdentadu
muru de vezza
i pioci ‘n
tra cavezza,
derdentadu
muru de ruca
i pioci ‘n
tra capucia.
Sdentato muso di veccia
i pidocchi nella cavezza,
sdentato muso di rocca
i pidocchi nella capoccia (1).
(1) testa
Bagadan i
ava ‘n custüme
a cagae, i
purteva u lüme.
Bagadan (1) aveva un costume
per cagare, portava il lume.
(1) personaggio immaginario
(Uomo prudente che voleva vederci chiaro anche al gabinetto).
Invettive
Possa
vegnite ‘n cancau.
Che ti venisse un cancro.
(Tremendo anatema).
Possa
vegnite ‘n carbunciu.
Che ti venisse un carbonchio.
(Anche questa maledizione, come la precedente, era pronunciata quando
queste malattie erano poco conosciute e di conseguenza poco curabili).
Posti
abrüsae.
Che tu possa bruciare.
(Pronunciata quasi esclusivamente in tono scherzoso).
Posti
desfunduate cume na riza.
Che tu possa sfondarti come un riccio (1).
(1) di castagno
(Rivolta a chi fa suoni… sconvenienti).
Posti èsse a
bèi menizzi.
Che tu possa essere fatto a pezzettini.
Posti esse
tridu cume a Macüba.
Che tu possa essere tritato come la Macuba (1).
(1) il tabacco
Posti muìe.
Che tu possa morire.
Posti
‘ncechìe.
Che tu possa acceccare.
Posti
runpite ‘r colu.
Che tu possa romperti il collo.
Posti
sgarate cume ‘na riza.
Che tu possa spaccarti come un riccio (1).
(1) di castagno.
(Ci si può “spaccare” dal pianto come dal riso).
Posti
stucate ‘r colu.
Che tu possa spezzarti il collo.
Te vègna na
saìta.
Ti colga una saetta.
Possa
mangiate u diavu.
Possa mangiarti il diavolo.
(Si dice a chi ha paura di tutto, anche della sua ombra).
Posti èsse
santu.
Che tu possa essere santo.
Posti èsse
orbu.
Che tu possa essere orbo.
Detti per
ogni occasione
Avée ‘r
magun ‘n su stömegu.
Avere il magone sullo stomaco.
(Avere qualche problema senza poterlo esprimere).
Avée rètu.
Essere stato padrino (1) di battesimo.
(1) o madrina
Avée ‘r
capèu a l’orza.
Avere il cappello all’orza.
(Darsi delle arie).
Avée ‘r cöe
strùbedu.
Avere il cuore torbido.
(Avere risentimento con qualcuno).
Avée ‘r
fangotu.
Avere il fagotto.
(Essere incinta senza essere sposata).
Avée ‘r gotu.
Avere il bicchiere.
(Essere ubriaco).
Avée ‘r
marchese.
Avere le mestruazioni.
(Essere di luna traversa).
Avée poüa
che a tera ghe manca.
Avere paura che terra gli manchi.
(Preoccuparsi eccessivamente).
Büfae cume
‘n stantüfu.
Soffiare come uno stantuffo.
(Chi ansima durante una salita).
Caciàe aa
ranfa.
Buttare a caso.
(Per essere arraffato, come i confetti degli sposi).
Ciantàe
ciòdi.
Piantare chiodi.
(Contrarre debiti).
Custàe
l’ociu da tèsta.
Costare come l’occhio della testa.
(Una cifra spropositata).
Dàe al’aia
‘r caru.
Dare all’aria il carro.
(Rompere un accordo o piantare lì un lavoro per stanchezza o
insofferenza).
Dàe a màma.
Dare a balia.
Dàe a se
camisa ai autri.
Dare la sua camicia agli altri.
(Incolpare gli altri delle proprie colpe).
A te sun grà.
Te ne sono grato.
Auzae ‘r
gömedu.
Alzare il gomito.
(Ubriacarsi).
Avee a lüna
storta.
Avere la luna storta.
(Non essere di buon’umore).
Amigu o nun
amigu,
china zü dar
pé der figu.
Amico o non amico,
scendi dalla (1) pianta di fico.
(1) mia
(Non occupare senza permesso la mia proprietà).
Andae ai
spusi.
Essere invitati ad un matrimonio.
Dua anime ‘n
tre ‘n nuciu.
Due anime in un nocciolo.
(Essere compari nelle cattive azioni).
Sta zìtu,
galüzu.
Stai zitto, stronzo.
Dae a
stanghéta.
Dare la passatina.
(Un piccolo sfottò).
Dae a tàcia.
Dare la colpa.
(In modo subdolo, a chi colpa non ha).
Dae i cauzi
àa rasun.
Dare i calci alla ragione.
(Non sapere né parlare né stare zitto).
Dae lòi da
cumuniùn.
Dare urla da comunione.
(Chissà perché! Comunque, urlare al massimo).
Dae na man
de giancu.
Dare una mano di bianco.
(Caricare di bòtte).
Dae n’ ucià.
Dare un’occhiata.
(Tenere d’occhio qualche cosa o qualcuno).
Dae recatu a
na dona.
Accudire ad una donna.
(In ogni senso).
Dae rèta.
Ubbidire.
Dae ‘r mendu.
Dare la passata.
(Sfottere).
Dàghele sutu
àa cua.
Dagliele sotto la coda.
(Dagliela vinta).
Digeìe anca
i ciòdi.
Digerire anche i chiodi.
Dasse ‘r
gavin.
Mettersi il nodo scorsoio.
(Impiccarsi).
Destrüze ‘r
fèru.
Distruggere il ferro.
(Consumare in poco tempo tutto ciò che si indossa).
Dessuteràe i
morti.
Dissoterare i morti.
(Implorare, chiedere, pretendere in modo ossessivo).
Diu i t’ en
renda mèitu.
Dio te ne renda merito.
Èsse a fin
der mundu.
Essere la fine del mondo.
(Piovere a dirotto. Essere qualche cosa di eccezionale).
Èsse ai
ürtimi stremiti.
Essere allo stremo.
(Stare per morire).
Èsse a pan
fissu.
Essere a pane fisso.
(Avere un lavoro stabile).
Èsse a pé de
bun padrun.
Essere ai piedi di un buon padrone.
(Avere un buon impiego).
Èsse bèu
resemà.
Essere bello riempito.
(Di cibo e di bevande).
Èsse bun
cume ‘n tocu de pan.
Essere buono come un pezzo di pane.
(Una persona con un buon carattere).
Èsse de lüna.
Essere di luna buona.
Èsse bursu
cume na züca.
Essere vuoto come una zucca.
(Senza cervello).
Èsse
destanti mili mia.
Essere distanti mille miglia.
(Dall’argomento di cui si parla o con il pensiero).
Èsse fàussu
cume a muneda de ramu.
Essere falso come la moneta di rame.
Èsse fàussu
cume Giüda.
Essere falso come Giuda.
Èsse gnècu
cume ‘r mau de panza.
Essere noioso come il mal di pancia.
Èsse levà a
brüsàie de pan.
Essere allevato a criciole di pane.
(Cioè con una attenzione ed una cura certosina, con pignoleria).
Èsse l’övu
du l’Ensensiùn.
Essere l’uovo dell’Ascensione.
(Figlio unico coccolato e viziato).
Èsse magru
cume ‘n ciòdu.
Essere magro come un chiodo.
Èsse ‘na
buna furcina.
Essere una buona forchetta.
(Un buongustaio e un gran mangiatore).
Èsse ‘na
pèsta.
Essere una peste.
Èsse ‘na
schena drita.
Essere una schiena dritta.
(Senza voglia di lavorare).
Èsse ‘n
bacücu ‘nbacücà.
Essere un baccucco imbacuccato.
(Una persona da ridere, senza ragionamenti seri).
Èsse
‘nbriagu pèrsu.
Essere ubricaco fradicio.
Èsse ‘n
brütu sügètu.
Essere un brutto soggetto.
(Un poco di buono).
Èsse ‘n
buleta.
Essere in bolletta.
(Non possedere nemmeno un centesimo).
Èsse ‘n
mangiapan a tradimentu.
Essere un mangiapane a tradimento.
(Chi sfrutta la propria famiglia o il prossimo).
Èsse ‘n mèzu
ai ravati.
Essere in mezzo a cose di poco conto.
Èsse ‘n
susena.
Essere in ghingheri.
Èsse ‘n
tichéta.
Essere vestito secondo l’etichetta.
Èsse ‘n tra
brata.
Essere nella melma.
(Cioè in una situazione da cui è difficile venir fuori).
Èsse nüdu
crüdu.
Essere nudo crudo.
(Non avere ricambi di vestiario).
Èsse ‘nzücà.
Essere tonto o raffreddato.
Èsse passà
ar crövélu.
Essere passato al crivello.
(Essere il migliore).
Èsse pecenin
de zervèu.
Avere poco cervello.
Èsse renicià
dàa freva.
Essere rannicchiato per la febbre.
Èsse
rentrunà cume ‘n zücu.
Essere rintronato come una zucca.
(Rimbambito).
Èsse segnà
da Cristu.
Essere segnato da Cristo.
(Per le deformità fisiche).
Èsse stencu
cume ‘n mortu.
Essere rigido come un morto.
Fae ‘na
resuadüa.
Fare una risuolatura.
(Accoppiarsi con una donna).
Fae ‘n
grossu résegu.
Fare un grosso rischio.
Fae ‘n
stràiu.
Fare un disordine.
(Anche averla vinta picchiandosi con più persone).
Fae pàia a Tramunti.
Fare paglia (1) a Tramonti.
(1) dormire
Fae ‘r
mànegu.
Fare il manico.
(Sfottere).
Fae ‘r
panetu.
Fare il panetto.
(Mettere in mostra il bicipite del braccio sinistro).
Fae stridàe.
Fare arrabbiare.
Fae vegnie
l’agru ai cuiùn.
Fare venire l’acidità ai coglioni.
(Rompere pesantemente le scatole).
Fate véde!
Fatti vedere!
(Dal neurologo. Rivolto a chi ha atteggiamenti strani).
Frasca de
mazu.
Frasca di maggio.
(Persona volubile che cambia facilmente parere).
Fümae cume
‘n türcu.
Fumare come un turco.
(Smodatamente).
Gastae i
tratati.
Guastare i trattati.
(Rompere i rapporti con parenti o amici).
Issàe ‘r cüu
daa carega.
Alzare il sedere dalla seggiola.
(Smettere finalmente di poltrire).
La ghe stà.
Ci stà.
(Riferito a una ragazza...)
Làssalu bùie
‘n tru se brödu.
Lascialo bollire nel suo brodo.
(Che risolva da solo i suoi problemi).
Mancàe anca
‘r banbàsu
per zende u
lüme.
Mancare pure la bambagia
per accendere il lume.
(Estrema miseria).
Mangiàe de
strangussùn.
Mangiare in fretta e furia.
Mangiàe
l’erba tacà ai pozi.
Mangiare l’erba attaccata ai muri.
(Piuttosto che abbassarsi a certi compromessi sul lavoro).
Menàe sbàru.
Fare ingombro.
Mete a
pustizu.
Mettere a posticcio.
(Sistemare provvisoriamente).
Mete i scüi
aa fenèstra.
Mettere gli scuri alla finestra.
Mete ‘nseme
a zéna cun u desinàe.
Mettere insieme la cena e il desinare.
(Riuscire a stento a mangiare due volte al giorno).
Mete ‘r
ganciu adossu.
Mettere il gancio addosso.
(Scegliersi una vittima per poter esercitare soprusi e umiliazioni).
Molu cume ‘n
figu.
Molle come un fico.
(Detto di solito di chi ha superato una malattia).
Muru de
muzza.
Muso di mozza.
(Offesa scherzosa a chi si da troppe arie).
‘Na manega
de ladri.
Una manica di ladri.
(Una combutta di disonesti).
Nasse ‘n tru
banbasu.
Nascere nella bambagia.
(Nascere fortunati).
‘Nfina che
la düa.
Finché dura.
Nun dae
mancu de püa.
Non dare nemmeno la polvere.
(Essere avaro).
Nun esse bun
da ‘n belin.
Non essere buono a fare niente.
Nun fae na
pàa de ben.
Non fare nulla di bene.
(Sbagliare tutto).
Nun vurete
mancu ‘n tra stala
a fae u
ledeme.
Non volerti nemmeno nella stalla
a fare il letame.
(Rivolto a una persona grama, poco affidabile).
Ociu stranbu.
Occhio strabico.
(Chi ragiona uscendo dal tema).
Paàe a man.
Porgere la mano.
(Chiedere l’elemosina. Chiedere qualche cosa a tutti).
Paée na
baanzèla ‘n mezu ar mae.
Sembrare una bilancella in mezzo al mare.
(L’andatura tipica dei primi passi di un bambino).
Paée na
trepezina.
Sembrare un piccolo treppiede.
(Una bimba che fa i capricci e batte i piedi).
Paée
‘nbausamà.
Sembrare imbalsamato.
(Rimanere esterrefatto davanti a una improvvisa notizia).
Paée ‘n
gaavùn
che regüa a
mèrda.
Sembrare uno stercorario (1)
che rotola lo sterco.
(1) scarabeo
Paée ‘n
magnàn.
Sembrare un fabbro.
(Quando qualcuno era tutto sporco di fuliggine).
Paée u
retratu da salüte.
Sembrare il ritratto della salute.
(Essere in piena forma).
Pesàe e paoe
cun ‘r baanzìn.
Pesare le parole col bilancino.
(Essere prudenti nell’esprimersi).
Piàe
burdeghi e baleti.
Prendere mondine e ballotte.
(Prendere tutto ciò che capita).
Piàe carcò
‘n tre chelu der barba abrétiu.
Prendere qualche cosa nel terreno dello zio abretiu (1).
(1) era lo zio immaginario di tutti che si sentivano, grazie a questa
improbabile parentela, ironicamente autorizzati ad impadronirsi dei
beni altrui.
(Rubare nei terreni altrui).
Piàe de pica.
Prendere per ripicca.
(Impuntarsi).
Piàe ‘na
pata.
Prendere un colpo (1).
(1) per terra
Piàe ‘na
storta.
Prendere una storta.
(Una slogatura al piede o alla caviglia).
Piàe pé a
manécia.
Prendere per la maniglia.
(Per il manico. Sfottere).
Piàe u
rescàudu.
Prendere il riscaldo.
(Avere qualche infiammazione. Ammalarsi di
blenorragia).
‘Nciantàe
baraca e buratin.
Lasciare baracca e burattini.
(Piantare lì tutto).
Piàne na furcinà.
Prenderne una forchettata.
(Un po´ di sesso alla svelta).
Piàe senpre
e géntie pe´ lu se vèrsu.
Prendere sempre la gente per il suo verso.
(Cercare di adattarsi al carattere altrui).
Piasse ‘n
rescaudamentu.
Predersi un riscaldamento.
(Caricarsi di una incombenza non strettamente necessaria).
Restàe a
lèrfi süti.
Restare a labbra asciutte.
(A bocca asciutta. Spalancata. Rimanere senza niente).
Reziàe i
descursi cume e giachete.
Rigirare i discorsi come fossero giacche.
(Mancanza di coerenza).
Runpìe e
cùie.
Rompere i coglioni.
Runpìsse i
stinchi.
Rompersi le gambe.
Savée de
bòia.
Puzzare di fogna.
Schizzàe i
calai.
Schiacciare i calli.
(Dare noia a qualcuno).
Sc-ciancàe a
suga.
Strappare la corda.
(A forza di rompere …, la corda si strappa).
Si avesse e
püme i vueàve.
Se avesse le piume (1) volerebbe.
(1) con l’importanza che si dà
Si tröva
chelu c’ à ‘nventà u lavùu,
prima i lu
turtüa e po´ i lu mazza.
Se trova quello che ha inventato il lavoro, prima lo tortura e poi lo
ammazza.
(Detto di chi è proprio uno scansafatiche).
Spaàe a
l’orba.
Sparare a casaccio.
(Incolpare qualcuno senza avere le prove).
Spaàe rüci
cume canunà.
Sparare rutti come cannonate.
Sucede ‘n
desessète.
Succedere un diciassette.
(Succedere un finimondo, qualche cosa di tragico).
Spazzase ‘r
cüu cu’ ‘n curiandolo.
Pulirsi il sedere con un coriandolo.
(Il colmo dell’avarizia).
Stàe ‘nseme.
Stare assieme.
(Convivere senza essere sposati).
Strénze a
cureza.
Stringere la cinghia.
(Fare la fame).
Sügàe ‘r mae
cun ‘n cüciau.
Prosciugare il mare con un cucchiaio.
(Fare una cosa senza senso).
Tacàe ‘r
capèu.
Attaccare il cappello.
(Sposarsi per interesse).
Tiàe ‘r
birociu.
Tirare il birroccio.
(Mantenere la famiglia).
Tremàe cume
‘na foia d’arbuèla.
Tremare come una foglia di pioppo.
(Chi ha paura di tutto e trema ad ogni alito di vento).
Trövàe a
scarpa pe´ lu se pé.
Trovare la scarpa adatta al suo piede.
(Il prepotente prima o poi trova sempre qualcuno che lo mette al suo
posto).
U dinàu da
nùse.
Il danaro della noce.
(Era una mancia che, soltanto a Natale, veniva data ai bimbi. Oltre ai
pochi soldi, venivano date ai bambini noci, fichi secchi, arance, ecc.)
U tenpu i
ciòzza.
Il tempo chioccia.
(Le nuvole si addensano e la pioggia si avvicina).
U tenpu i è àa macaìa.
Il tempo è umido ed instabile e la pioggia probabile.
Vede de còtu.
Vedere di cotto.
(Avere la speranza di poter mangiare un pasto caldo).
Vencìe
l’ociu.
Riempire l’occhio.
(Farsi notare od essere notato, a seconda dei punti di vista).
Vencìe ‘r
bancau.
Riempire la cassapanca.
(Con le provviste per l’inverno).
Vegnie
l’aigheta ‘n buca.
Venire l’acquolina in bocca.
Vegnie
n’aiga a delügi.
Piovere a dirotto.
Zéndese cume
n’azzain.
Accendersi come un acciarino.
(Chi è impulsivo e prende fuoco per un nonnulla).
Cunsümàsse
cume ‘r banbasu ‘n tru lüme.
Consumarsi come la bambagia nel lume.
(Deperire fisicamente per malattia, per fame o per pressanti
preoccupazioni).
Èsse cativu
cume a pèsta.
Essere cattivo come la peste.
Finìe sutu
ai cipressi.
Finire sotto ai cipressi.
(Al camposanto).
Avée i bochi
‘n tra staca.
Avere le spine in tasca.
(Essere avaro).
Avée u limu
au stömegu.
Avere languore allo stomaco.
Che g’ à ciù
giüdiziu lu dùvea.
Chi ha più giudizio lo adoperi.
Cianze cume
na vigna taià.
Piangere come un tralcio di vite tagliato.
(in primavera quando la vigna è “in sugo”).
Che Diu te
‘n renda mèitu.
Che Dio te ne renda merito.
(Dell’aiuto che mi hai dato).
Ciöva cume
Diu la manda.
Piove come Dio la manda.
(Piove a dirotto).
I è cume u
diavu e a cruse.
È come il diavolo e la croce.
(È l’opposto di tutto ciò che è normale).
Pan per pan,
i fradi i gh’en àn.
Pane per pane, i frati ne hanno.
(Disse un vagabondo a chi gli aveva offerto un lavoro in cambio di pane
e alloggio).
Se disa ‘r
pecatu, nun ‘r pecadùe.
Si dice il peccato, non il peccatore.
Se e carte
l’èn caànta…
Se le carte sono quaranta…
(Se non ci sono imbrogli o imprevisti...)
Trövàe u
Signue ‘ndurmì.
Trovare il Signore addormentato.
(Avere la fortuna di fare ciò che si vuole).
Tütu chelu
che l’omu i mücia,
u diavu i lu
arüfa.
Tutto quello che l’uomo ammucchia,
il diavolo lo sparpaglia.
U diavu i
ghe meta a cua.
Il diavolo ci mette la coda.
U Signue i è
giüstu.
Il Signore è giusto.
(Nelle dispute infantili la frase veniva pronunciata a carico di chi,
dopo avere fatto una marachella, inciampava e cadeva: era il castigo di
Dio).
A beve
l’aiga, la nassa e rane ‘n tra panza.
A bere l’acqua, nascono le rane nella pancia.
(Così si giustifica il beone).
A te
cugnussu gatu russu.
Ti conosco gatto rosso.
(So bene chi sei!)
Avée
l’anàstegu cume ‘r can da càcia.
Avere il fiuto come il cane da caccia.
(Intuire subito un pericolo o un tranello).
Ciucàe cume
a müa der Meneghin.
Dare di testa come la mula di Domenico.
(Che non doveva essere molto docile).
Èsse ciü
semu ca a mae de l’agneu.
Essere più scemo della madre dell’agnello.
(Della pecora).
Èsse ladru
cume ‘na bèlua.
Essere ladro come una faina.
Savée de
bestin.
Odorare di bestia.
(Avere addosso un odore sgradevole, da persona poco pulita).
A voùte i se
ciapu, a voùte i scapu.
A volte si prendono, a volte scappano (1).
(1) i pesci
(Diceva un pescatore di frodo, che passava le giornate ad osservare le
cernie, sulla rocca del Muntunau, e non sempre riusciva a catturarle).
Ghe passa u
giüstu pe´ lu pecatùe.
Ci passa il giusto per il peccatore.
I fidé de
Tramunti.
La pasta di Tramonti.
(Fatta in fretta e furia (per poter mettere qualche cosa di caldo nello
stomaco, dicevano i contadini) con un po´ di verdura, tanta acqua ed un
pochino di pasta, fidé. Certo non un gran piatto!)
La g’ à a se
cà a Biassa e ‘n Tramunti,
u se fùu
denanzi e dendaré.
Ha la casa a Biassa e a Tramonti,
il suo foro davanti e di dietro.
(È la sposa ideale!)
Favole
Pursemulina
La gh’ea ‘na
vòuta ‘na dona ‘n stati ‘nteressanti che la vedete ‘n tre
n’ ortu der bèu pursemu e la ghe vegnite voia de piassene ‘n pò.
Mentre la lu
cuiva la la trövete a Fada cativa, che l’ea a padruna de
l’ortu. Per punila d’aveghe rubà er pursemu, la se la vureva mangiae.
“Ne me mangiae, la ghe disete, sa g’aveò carcün a te lo daò; se la saà
fémena a la ciameò Pursemulina, se i saà mas-ciu a lu ciameò Pursemulin.
La g’avete
na fantèla e la la ciamete Pursemulina.
Candu
Pursemulina la deventete grandeta, a Fada cativa la la vurete lé,
cume l’ea remasa d’acòrdiu cun se mae che, anca se la ne ghe l’aveave
ciü vussü dae, l’ea sta custreta a daghela datu che cun e fade,
speciarmente chele cative, ne se ghe schèrza.
La passete i
agni e a fada la deventete giùsa de chesta zuveneta che
l’ea bèla, ar cuntrariu de lé che l’ea vècia e brüta.
Per levasela
davanti ai oci, la decidete de fala mangiae da n’autra
fada, cativa cume lé, che la steva destante e che per arivaghe la
duveva passae tanti periculi.
‘N tre ‘n
modu o ‘n tre n’autru, la pensete, la ne turneà ciü. La ghe
dete na scatua cena de balain d’ou, disendughe de nun ravila e de
purtala àa se amiga fada.
Pursemulina,
che l’ea cüusa, pe’ la via la ravite a scatua per miae
cuse la gh’ea drentu. I balain d’ou i surtitu tüti e lé la zercheva de
remeteli drentu ma candu la ’n ciapeva ün, la gh’en scapeva dui, ‘nsuma
l’ea despeà.
Mentre l’ea
li che la cianzeva ar penseu de cuse la g’aveave fatu a
fada per avela desubedì, se ghe avisinete ‘n bèu zuve ben vestì chi se
ciameva Memé.
Lü i ghe
disete che se la ghe deva ‘n basu i g’aveave remissu tuti i
balain d’ou drentu àa scatua. “Anziché da Memé esser baciata piuttosto
dalla fata strangolata”, la ghe respundete. Alua Memé cun ‘n gèstu da
se bacheta magica i fete reentrae i balain ‘n tra scatua, anca se la ne
g’ava datu ‘r basu.
Candu la ghe
disete che la duveva andae a purtae a scatua dàa fada ‘n
tre chelu palaziu destante, Memé i capite che chi ghe l’ava mandà i
vureva fae der mau a Pursemulina e sicume i vedete che l’ea bèla e
‘ngenua e i se gh’éa zà ‘nnamuà i decidete de agiütala. I ghe disete:
“Per arivae
daa fada, lüngu a via te tröveai dui can cativi ch’i se
danu tra de lùu e candu t’arivi i te vurean mangiae, alua te ghe daài
stu tocu de pan e lùu i te lassean passae. Dopu te tröveai ‘n scarpau
chi cüsa e scarpe cun i se cavei; te ghe daài chestu spagu e i te faà
passae. Te camineai anca ‘n pò e te tröveai dua porte che la sbatu üna
cuntru l’autra e la te ‘npedian de passae: te le ünzeai cun sta sünza e
lùu la smetean de sbate e la te faàn passae. T’ariveai ar palaziu e te
vedeai che per muntae daa fada ghe saà ‘na scàa de védeu; aia l’ociu de
nun runpìe i scain. Candu te entreai ‘n tra canbea, se a fada la g’à i
oci ravèrti vö die che la dorma (e fade la dormu cussì) e se la i à
sarà, stà ‘n guardia perché alua l’è sveia...”
Cussì la
fete.
Ai can la
ghe dete ‘r pan e i la fetu passae, anzi i ghe disevu:
“Corri,
piccina, corri, che non ti facciamo niente”; u scarpau candu i
avete u spagu i ghe disete: “Corri, piccina, corri”; la ünzete per ben
e porte cun a sünza tanto che la remanetu bèle ravèrte e mentre la
passeva la sentiva ‘na vuse che la ghe diseva: “Corri, piccina, corri”.
Aa fin la
arivete ar palaziu da fada e ciancianin la muntete a scaa de
vedeu e la entrete ‘n tra canbea. A fada la g’ava i oci raverti e la
durmiva. Pursemulina la pusete ‘n ser cumudin a scatua di balain d’ou e
daa poüa la scapete.
A scaa de
vedeu la se runpite ma Pursemulina la ne se fete gnente, e
porte la se ravitu per fala passae, u scarpau senpre gridandughe
“corri, piccina, corri” i la fete passae, i can turna e la arivete unde
la ghea Memé ch’i l’aspeteva. A fada der palaziu, au rumue da scàa
ruta, la se sveiete e la g’andete adaré ma la ne arivete a ciapala
perché la trövete e porte sarà, u scarpau i ne la vureva fae passae, i
can i se g’abrivetu.
Pursemulina
che l’ea riusì a scanpala bèla per mèitu de Memé, la ghe
dete chelu basu chi vureva e dopo pogu i se spusetu.
Prezzemolina
C’era una volta una donna in stato interessante che vide in un orto del
bel prezzemolo e le venne la voglia di prenderne un pò.
Mentre stava cogliendo il prezzemolo, arrivò la fata cattiva che era la
proprietaria dell’orto. Per punire la donna di averle rubato il
prezzemolo, voleva mangiarsela.
“Non mi mangiare, le disse, se avrò qualcuno te lo darò; se sarà
femmina la chiamerò Prezzemolina, se sarà maschio Prezzemolino”.
Ebbe una femminuccia e la chiamò Prezzemolina.
Quando Prezzemolina divenne grandicella, la fata cattiva la reclamò,
secondo gli accordi e la madre, anche se non avrebbe più voluto
mantenere il patto, si vede costretta a dargliela dato che con le fate,
specialmente cattive, non si scherza.
Passarono alcuni anni e la fata divenne gelosa di questa giovanetta che
si faceva ogni giorno più bella, al contrario di lei che era vecchia e
brutta.
Per non vederla più, decise di farla mangiare da un’altra fata, cattiva
come lei, che abitava lontano. Per arrivare alla casa di costei avrebbe
dovuto attraversare molti pericoli.
In un modo o nell’altro, pensò, non tornerà più. Le consegnò una
scatola piena di ballerini d’oro, raccomandandole di non aprirla e di
consegnarla alla sua amica fata.
Prezzemolina, che era curiosa, per strada aprì la scatola per vedere
cosa c’era dentro. I ballerini d’oro uscirono tutti e lei cercava
invano di rimetterli dentro: quando riusciva ad acchiapparne uno,
gliene scappavano due. Era disperata.
Mentre stava piangendo per la paura della punizione della fata alla
quale aveva disobbedito, le si avvicinò un giovane, bello e ben
vestito, che si chiamava Memé.
Il giovane le disse che in cambio di un bacio, le avrebbe fatto
ritornare i ballerini d’oro dentro la scatola. “Anziché da Memé esser
baciata, piuttosto dalla fata strangolata” gli rispose. Però Memé con
un gesto della sua bacchetta magica, fece rientrare i ballerini nella
scatola, anche se Prezzemolina non gli aveva dato il bacio.
Quando Prezzemolina gli raccontò che avrebbe dovuto andare a portare la
scatola dalla fata in quel palazzo lontano, Memé capì subito che chi
l’aveva mandata voleva sbarazzarsi di lei e siccome il giovane si era
già innamorato di quella giovane così bella e ingenua, decise di
aiutarla. Le disse:
“Per raggiungere la fata, lungo la strada troverai due cani cattivi che
si azzannano tra di loro e quando arrivi, ti vorranno divorare, allora
gli darai questo pezzo di pane e loro ti lasceranno passare. Dopo
troverai uno scarpaio che cuce le scarpe con i suoi capelli, gli darai
questo spago e vedrai che ti farà passare. Camminerai ancora un pò e
troverai due porte che sbattono l’una contro l’altra e ti impediranno
di passare: le ungerai con questa sugna e loro la smetteranno di
sbattere e ti faranno passare. Arriverai al palazzo e vedrai che per
salire dalla fata ci sarà una scala di vetro; fai attenzione a non
rompere i gradini. Quando sarai nella sua camera, se la fata ha gli
occhi aperti significa che dorme (le fate dormono così), se invece li
ha chiusi, stai attenta perché allora è sveglia”.
Prezzemolina fece come le disse il giovane.
Ai cani diede il pane e la fecero passare, anzi la incoraggiavano
dicendogli:
“Corri, piccina, corri che non ti facciamo niente”; lo scarpaio quando
ebbe lo spago le disse: “Corri, piccina, corri”; con la sugna unse per
bene le porte che rimasero aperte e mentre passava sentiva una voce che
la incitava: “Corri, piccina, corri”.
Infine arrivò al palazzo dove abitava la fata e piano piano salì la
scala di vetro e entrò nella sua camera. La fata aveva gli occhi aperti
e quindi dormiva. Prezzemolina posò sul comodino la scatola dei
ballerini d’oro e scappò piena di paura.
La scala di vetro si ruppe ma Prezzemolina non si fece alcun male, le
porte si aprirono per farla passare, lo scarpaio sempre gridandole
“corri, piccina, corri” la fece passare, i cani fecero la stessa cosa e
tornò sana e salva dove stava aspettandola Memé. La fata del palazzo,
al rumore della scala che si rompeva si svegliò e le corse dietro, ma
non arrivò a prenderla perché trovò le porte chiuse, lo scarpaio non
voleva farla passare e i cani lei si avventarono contro.
Prezzemolina che era riuscita a scamparla bella, grazie all’aiuto di
Memé, gli diede quel bacio che gli aveva chiesto prima e dopo poco si
sposarono.
U
giüdiziu
‘N’anu, per
san Martin, che l’è a festa ciü grande de Biassa, i omi der
paese i pensetu ben che per fae na bèla festa la ghe vureva ‘n pò ciù
de giüdiziu de l’anu prima perchè per curpa der vin bun de Tramunti, i
s’eu ‘nbriagà e pò i s’eu pistà cume purpi. Alua carche giurnu prima de
san Martin i mandétu dua persune che la ghe paevu e ciü ‘ndicà a
Munterussu da ün che, standu a chei che ghe li mandeva, i g’ava u
giüdiziu da vende.
‘Nfati i
partitu e i andetu a Munterussu da chela persuna che, candu la
sentite cuse i vurevu la capite d’aveghe a che fae cun dui semaciùn e
la ghe cighete ’n tre ‘n pò de papeu, ‘n ratu che l’ava aciapà anca
vivu n’ tre ‘n rataöu.
Tüti
cuntenti, i dui biassèi i repietu a strada per turnae ar paese cun
u giüdiziu cigà ‘n tru papeu.
Candu i
arivetu daa Madone der Muntau, surve Rimazue, i se mietu ‘n pò
‘n tra facia e i disetu: - Fra pogu a semu a cà e a ne savemu mancu
cume i è fatu u giüdiziu. Ravimu ‘r papeu e demughe n’ucià!
Cussì i
fetu, ma u ratu candu i lu des-cighetu dar papeu, i scapete
cume ‘n fürmine e i andete a ‘nfiasse ‘n tre na müaia.
I dui
puveraci, daa paüa de arivae a Biassa senza u giüdiziu i se
metetu a derivae a müaia per zercae de reciapalu.
Mentre chi
eu cussì ‘ndafarà, passete dui cuntadin chi andevu ‘n tre
tère e i ghe disetu cuse i zerchevu ‘n tre chela müaia.
- U
giüdiziu. - i ghe repundetu lùu.
- Ne paa
anca a nui autri! - i ghe disetu i rimazuoti, e i se n’andetu.
Il giudizio
Un anno, per san Martino, che è la festa più importante di Biassa, gli
uomini del paese pensarono che per fare in modo che la festa riuscisse
bene, ci voleva più giudizio dell’anno precedente quando per colpa del
buon vino di Tramonti, si erano ubriacati e se le erano date tra di
loro di santa ragione. Così qualche giorno prima di san Martino,
mandarono due persone, a loro modo di vedere le più indicate, a
Monterosso, da uno che secondo chi lo conosceva, aveva giudizio da
vendere.
Partirono e si recarono a Monterosso da quella persona la quale, appena
sentì la richiesta, si immaginò di avere a che fare con due sciocchi e
consegnò ai due un pezzo di carta con un topo che aveva catturato
ancora vivo con una trappola.
Tutti contenti, i due biassèi ripresero la strada per tornare al loro
paese con il giudizio ben incartato.
Arrivati nei pressi della Madona der Muntau (Madonna di Montenero),
sopra Riomaggiore, si guardarono tra di loro e dissero: - Fra poco
siamo a casa e non sappiamo nemmeno come sia fatto il giudizio.
Scartiamolo e diamogli almeno un’occhiata!
Così fecero, ma non appena spiegarono la carta, il topo scappò come un
fulmine e si infilò in un muro.
I due poveretti, per la paura di arrivare a Biassa senza il giudizio,
si misero a sfare il muro per cercare di riprenderlo.
Mentre erano così tanto indaffarati, passarono due contadini di
Riomaggiore che si recavano a lavorare nelle loro proprietà e
incuriositi gli chiesero cosa cercassero in quel muro.
- Il giudizio. - gli risposero.
- Ci pare anche a noi! - risposero i riomaggioresi, e se ne andarono.
I
taiaìn
‘N maì i
disete a se muiée de cöseghe dui taiaìn e le la ’n fete dui de
nümeu. La i bütete ‘n tre l’aiga buiente per cöseli. Pé miàe si éu
coti, la ’n tastete ün e l’autru la lu metete ‘n tru piatu pé dalu da
mangiae a se maì.
Candu i
vedete cussì, i ghe trövete da die, a se muiée: “Cume, te pàa
de cöse dui taiain de nümeu! N’ autra vouta fane de ciù!”
A vouta
dopu, candu la refete i taiain, la ’n fete tanti, che ‘n tüti i
löghi da cà la ghea taiaìn: ‘n su descu ghea taiaìn, ‘n tra piatélea la
ghea taiaìn, ‘nfina ‘n su lètu, la n’ava missu…
Le tagliatelle
Un marito disse a sua moglie di cuocergli due tagliatelle e lei ne
preparò due di numero. Le buttò nell’acqua bollente per cuocerle e per
assicurarsi che fossero cotte, ne assaggiò una e l’altra la mise nel
piatto per darla a mangiare a suo marito.
Quando vide così, l’uomo disse a sua moglie: “Come, ti sembra di
cuocere due tagliatelle di numero! Un’altra volta fanne di più!”
La volta seguente, quando rifece le tagliatelle, ne fece talmente tante
che da tutte le parti c’erano tagliatelle: sul tavolo c’erano
tagliatelle, nella piattaia c’erano tagliatelle, persino sul letto, ne
aveva messo…
Bèlafrùnte
Na vouta
gh’ea ‘n zuve, fiu de ‘n re, ch’i vureva andae a ziae ‘r
mundu. I se fete dae e palanche da se pae e i partite. I arivete ‘n se
n’isula dunde la gh’ea n’omu mortu che nessun la vureva purtalu ar
canpussantu perché i ea poveu e cen de debiti. Candu i savete de cuse
se trateva, Bèlafrùnte i piete na decisiùn e i disete a cheli de
l’isula:
“Che g’à
polizze e scritüe da mustrae, me, pé lu mortu, a sun pruntu a
pagae.”
E i se
metete a pagae tüti i debiti der mortu, pagandu anca cheli che
ne g’ava diritu perché tüti i se fetu avanti a reclamae palanche.
La andete a
finie chi spendete tüti i sodi che g’ava atu se pae e i
duvete returnae a cà pulitu cume ‘n man.
Candu u re i
savete ‘n che mainea i ava spesu i catrin i ghe disete:
“Privu de
‘ntelètu e malacortu... t’ai
spesu i me
dinai ‘n se ‘n omu mortu...”
Bellafronte
C’era una volta un giovane, figlio di un re, che voleva andare a girare
il mondo. Si fece dare i soldi da suo padre e partì. Arrivò su un’isola
dove trovò un uomo morto che nessuno voleva portare al cimitero perché
era povero e pieno di debiti. Quando seppe di cosa si trattava,
Bellafronte prese una decisione e disse agli abitanti dell’isola:
“Chi ha polizze e scritture da mostrare, io, per il morto, sono pronto
a pagare.”
E si mise a pagare i debiti del morto, pagando anche quelli che non ne
avevano diritto perché tutti si fecero avanti a reclamare quattrini.
Andò a finire che in quel modo spese tutti i soldi che gli aveva dato
suo padre e dovette ritornare a casa pulito come in mano.
Quando il re seppe in che maniera aveva speso i soldi gli disse:
“Povero di intelletto e malaccorto… hai speso i miei denari su un uomo
morto …”
I
taiaìn
‘R cunpae i
andete a trövae se cumae.
A cumae la
steva bulando a pasta per fae i tiaìn.
La g’ava u
rafredue e cun e man ‘npegnà ‘n tra faina ‘npastà la ne
pudeva sufiasse u nasu e la g’ava ‘r guzzu.
- Cunpae, a
fagu i taiaìn, a ghe sté a mangiae cun nui? - la ghe disete.
- Se ‘r
guzzu i ne caia, si, ma si caia,nu! - i ghe respundete.
Le tagliatelle
Il compare si recò a trovare la sua comare.
La comare stava lavorando la pasta per fare le tagliatelle.
Aveva il raffreddore ma con le mani impegnate nella pasta non poteva
soffiarsi il naso per cui aveva il goccio sulla punta del naso.
- Compare, faccio le tagliatelle, volete fermarvi a mangiare con noi? -
chiese.
- Se la goccia non cade, si, ma se cade, no.
- rispose.
Bacicia
Bacicia era
uno di Biassa, in prigione con l’accusa di avere ucciso un
uomo. Di fronte alla sua reticenza ad ammettere il delitto, fu messo in
cella con un carabiniere che, facendosi passare per galeotto, aveva
l’incarico di carpire la confessione della sua colpevolezza.
Dopo alcuni
giorni, visto che Bacicia non si lasciava andare a
confidenze, il carabiniere escogitò uno stratagemma per farlo parlare,
proponendogli di fare assieme un’ultima cantata, dato che presto lui
sarebbe stato liberato.
Sull’aria di
una canzone del tempo, il carabiniere in incognito, con
frasi inventate magnificava Bacicia il quale compiaciuto ripeteva,
cantando, le parole del suo compagno:
- E Bacicia
i è ‘n bèl’omu...
- E Bacicia
i è ‘n galantomu...
- E Bacicia
i à mazzà chel’omu...
- E Bacicia
i ne canta ciü!...
Bacicia è un bell’uomo...
Bacicia è un galantuomo...
Bacicia ha ucciso quell’uomo... (1)
Bacicia non canta più!... (2)
(1) intonò ad un tratto l’infiltrato
(2) completò Bacicia
Preghea
‘N lètu, ‘n
lètu a me ‘n vagu
a me anema a
Diu a la dagu
a la dagu a
Gesü Cristu
ch’i la
segna e i la maìstra.
Ch’i la meta
‘n buna via
‘nseme aa
vergine Maìa.
Che u nemigu
i ne ghe sia
nì de
giurnu, nì de note
nì ‘n tru
püntu da morte.
Signue ò da
muie e a ne sò candu,
catru grazie
a ve dumandu:
Cunfessiùn,
Cumeniùn e Oiu Santu
e l’anema
meia a ve la racumandu.
Preghiera
A letto, a letto me ne vado
la mia anima la dò a Dio
La dò a Gesù Cristo
che la segni e la ammaestri.
Che la metta sulla buona via
assieme alla vergine Maria.
Che il nemico non ci sia
né di giorno né di notte
né nel punto della morte.
Signore, devo morire ma non so quando
quattro grazie vi domando:
Confessione, Comunione e Olio Santo
e l’anima mia a voi raccomando.
Trascrizione del cd-audio
Tisbe
La Tisbe e suo marito Manfredo hanno gestito per tanti anni l’osteria
“Da Manfredo” al Sarecchio a Biassa e poi, quando è stata aperta la
Litoranea, sono andati a vendere sopra Campi a Riomaggiore. Avevano
panini con le acciughe, la mes-ciüa,
frittelle di baccalà, lupini
salati, torta di riso salata, sgabèi,
insomma tutti cibi che aiutavano
a bere tanti bicchieri di vino. Delle Cinque Terre, naturalmente!
Adesso Tisbe ha ottantasette anni, ha messo da parte il grembiule ma ha
mantenuto il modo allegro di sempre.
- Devo togliere delle cose
(dal tavolo)?
- No.
- Deve parlare in italiano o di
Biassa?
- Di Biassa...
- Ah, devo parlare in biassèo.
- Certo.
- Allora una volta c’era Batistùn e
a Maìa...
- Aspetti un attimo, signora, aspetti un attimo: lei aveva l’osteria
qui... Allora: oggi è il 27 dicembre 2001, siamo a Biassa in casa della
signora Tisbe che era la padrona dell’osteria di Biassa...
- Manfredo...
- Osteria Manfredo...?
- Da Manfredo.
- Cos’era quella storia che voleva dire...?
- Ah, raccontavo le canzonette di
Biassa e dicevo... Batistùn e a Maìa
sono laggiù nell’Arsenale, dentro al... come si chiama... al Museo.
Allora... Batistun era con le calze e con i pantaloni alla zuava,
tutto... era vestito di mezzalana e la Maìa aveva una gonna larga
larga... Gli disse: “O Batistu andiamo sino a Pegazzano?” e lui le
rispose “andiamo”. Lei prese la sua rocca e andò giù... lui prese la
chitarra. Quando furono a Pegazzano, lui si mise a suonare e lei a
filare e allora tutta la gente si radunò: lei aveva un cavagno, tutti
gli diedero un po’ di soldi e alla sera Batistùn e a Maìa avevano
cantato a tutti i bambini e giovani che si erano riuniti. Alla sera nel
cavagno c’erano dei soldi, e disse: “Batistùn, sarà meglio andarcene su
a Biassa” “Andiamo...”. Allora vennero su a Biassa, a casa, dove
avevano un tavolino e si misero a contare i loro soldini. Diceva lei:
“Eh, Batistu, quanti bei soldi abbiamo raccolto, domani ci ritorniamo?”
“E ritorniamoci...!”.
Ritornarono anche il
giorno dopo e raccolsero ancora un mucchietto di
soldi. Poi andarono a casa, si sedettero al tavolino e lei disse:
“Batistu, servono per aggiustare il tetto,... ci facciamo aggiustare il
tetto con questi bei soldini?” “Va bene...”
Si fecero aggiustare il
tetto e così se ne vissero contenti nella loro
casetta con il tavolino, grazie a quei soldini che avevano guadagnato
filando e suonando...
San Martino venne a
Biassa con la sua cappa e la sua corazza e il suo
cavallo. Passò dai monti, per venire a Biassa. Quando fu a Biassa,
vedendolo così bello, tutti lo guardavano e gli si accostavano.
Andavano tutti da lui con il fiasco e il bicchiere pieno di vino e
dicevano: “Che bel giovane che è san Martino” e tutti gli davano da
bere. E diceva: “Brava gente, è quella di Biassa; io resto qui e non
andrò più via, resterò sempre qui a Biassa”.
Infatti san Martino restò
per sempre a Biassa a bere bicchieri di vino.
- Infatti la chiesa è dedicata a San Martino.
- Si.
- Qualche canzone vecchia se le ricorda?
- Me le ricorderò, ma non capisco
cosa volete dire...
La canzone della Baiunèla...
- Stornelli ce n’erano qui? Tipo botta e risposta...
- Ce n’erano ma ci vorrebbe uno
che... La Scrincia-cüo... Era una che
gli piaceva lui... e nella notte gli è venuto male e l’hanno portata
all’ospedale e la toccavano tutti...
- Perché era bella?
- Si, era bella... Non avevamo
neppure un carro ambulanza come si deve.
Avevamo un carro con due ruote, aveva due ruote e bisognava spingerlo a
mano, da una parte e dall’altra, e la Scrincia-cüo era dentro, perché
dentro al carro c’era andato uno a tenerla... che non si sentisse male,
invece... e chi spingeva diceva: “Come pesi... come pesi Maìa!..”.
Invece c’era un altro uomo, assieme a lei... che gli massaggiava la
pancia.
- Erano in due anziché una...
- Invece erano in due...
- Quanti anni ha tenuto l’osteria?
- Cinquanta anni. Eravamo in nove, a
vendere il vino. Nove, e tutti
vendevano, adesso ne è rimasto uno e non riesce a ricavare le spese.
- Ma i nove chi erano? Ce n’erano tre sulla Piazza del Monumento. C’era
Bagun...
- C’era l’Arfù e Derna sua moglie,
Maria di Dimare, poi... c’era
l’Argentina, lo vendeva il Checco, lo vendeva la Gemma, poi lo vendevo
io, Rinaldo e tutti ne vendevano...
- Oltre a bere, cosa facevate da mangiare?
- Facevamo il minestrone,
stoccafisso, ballotte, io facevo la torta di
riso, tanta torta di riso perché ne vendevo una al giorno...
- Di quelle dolci o salate?
- Salate: da noi non si usano dolci,
si fanno se ne abbiamo bisogno
noi. Poi sulla Litoranea ho sempre fatto la mes-ciüa, ne facevo dei
sacchi... Allora, la ricetta della mes-ciüa: si prende (in
biasseo!...), cosa? (in biassèo), cosa? Marcello? (in dialetto...) si
prendono i ceci (no... devi parlare in dialetto... in biassèo...)...
allora si prendono i ceci, si mettono nell’acqua, si fanno stare un po’
e i fagioli, perché sono più teneri, si mettono da parte...
- E qualche fatto che è successo nell’osteria?...
- Ognuno ha chiuso per conto suo...
- No, no, qualche fatto che è successo nell’osteria...
Quando qui si picchiarono il Meneghìn con Bulacu...
- Ne sono successi tanti: una volta
c’erano due: Ivo e Meneghìn. Ivo
(si chiamava Baldi) erano qui... paga te, pago io... e... tu ne hai
bevuto tre bicchieri, io ne ho bevuto due. Allora a causa di questi
bicchieri, all’ultimo sono iniziati i cazzotti, boum, cazzotti, boum,
si sono presi a pugni... uno è finito sotto e uno è andato sopra, uno
gli ha tirato i capelli che il pavimento sembrava quello di una
barbieria. Per le botte, facevano tutti e due sangue. Quando hanno
finito si sono abbracciati... si sono abbracciati e baciati.
- Ma chi ha pagato poi?
- Mia madre!
- Chi ha pagato... io... perché più
nessuno mi ha dato i soldi.
- Cosa cantavano?
- Cantavano “Quel mazzolin di
fiori”... cantavano di quelle canzoni
lì... “A Biassa c’è un camin che fuma”...
- Quella lì...
- A Biassa c’è un camin che fuma
è il cuore del mio amore
che si consuma.
Se si consuma lascialo
consumare
è il cuore del mio amore
che vuol bruciare.... Aspettate che prendo la
chitarra...
- È capace di suonare la chitarra?
- Prendo la chitarra...
- È capace di suonare...
- Si, con le dita... la suonano
tutti...
Fernanda
Fernanda è del ‘21. Non si è mai sposata e ha mantenuto vivi i ricordi
dei suoi genitori. Da loro ha imparato le antiche canzoni che
accompagnavano i gesti dei biassèi nei campi di Tramonti.
- Diceva mia mamma che quando la
cantavano lei (nel canto di Maggio)
sul Groppo, quando passavano per tutte le strade, dicevano: A voi
Assuntina
giovane della casa
maggior di voi
Dio vi mantenga, Maggio a
voi venga.
Se mi deste un uovo della
vostra gallina
Dio ve la salvi dalla
faina,
se mi deste una
formaggetta della vostra cassapanca
Dio ve lo salvi (il
contenuto) per questo santo Natale... Dopo di
questa per ora non mi viene in mente nulla.
- Degli stornelli che cantavano a dispetto, ne conoscete alcuni...
- Si, qualcuno si:
Il mio amore me l’ha
mandato a dire
se non son morta che
possa morire,
io gliene ho mandato a
dire una più bella
se non è morto fosse
sotto terra.
Il mio amore non vuole
più che canti
perché gli è morta la
cavalla bianca
ma se gli fosse morta la
vacca e il bue
voglio cantare per
dispetto suo.
Poi c’è
la canzone della marina:
Alla
marina c’è un camino che fuma
è il cuore del mio amore
che si consuma.
Se si consuma lasciatelo
consumare
è il cuore del mio amore
che vuole bruciare.
Poi: Il ramo del
peschetto è un bel ramo
è ancora più bello il
viso della mia dama,
il ramo del peschetto è
un bel fiore
ma è più bello il viso
del mio amore.
O che fortuna hai avuto
Maria
che da Biassa sei andata
a Campiglia,
o che fortuna hai avuto
Angelina
che dalla montagna sei
andata alla marina.
- Io sono qui in Reboi a
fare l’erba
Simone è a scalpellare
all’Acqua Fredda. Simone era un giovane che la
corteggiava, lei cantava nei campi di Rebui, lui non poteva sentirla
dall’Acqua Fredda, ma facevano finta di sentirsi...
Ada
Ada è una biassèa nata nel 1914: ha buona memoria perché si ricorda
ancora tutte le poesie imparate alla scuola elementare a Biassa. Il
racconto delle “Dodici parole della Verità”, di antica memoria, Ada lo
recita con sentimento, convinta che possa essere di aiuto sul modo di
morire perché alla fine dice: “Chi sa le dodici parole della verità e
chi le sta a sentire, di una brutta morte non potrà morire”.
Le dodici parole della
verità... allora, si dice:
Ton, ton. - Chi picchia?
- Amici, amici son le una.
- Un solo Gesù Cristo, in
casa Emanuele, evviva questo regno e sempre
sia laudà.
Ton, ton. - Chi picchia?
- Amici, amici son le due.
-Due i Testamenti Vecchi,
un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva
questo regno e sempre sia laudà.
Ton, ton. - Chi picchia?
- Amici, amici son le tre.
- Tre sono i Profeti, due
i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in
casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.
Ton, ton. - Chi picchia?
- Amici, amici son le
quattro.
- I quattro Evangelisti,
tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi,
un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia
laudà.
Ton, ton. - Chi picchia?
- Amici, amici son le
cinque.
- Cinque le piaghe del
Signore, quattro gli Evangelisti, tre sono i
Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa
Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.
Ton, ton. - Chi picchia?
- Amici, amici son le sei.
- Sei le strade che vanno
a Gerusalemme, cinque le piaghe del Signore,
quattro gli Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi,
un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia
laudà.
Ton, ton. - Chi picchia?
- Amici, amici son le
sette.
- Sette le lampade di
Betlemme, sei le strade che vanno a Gerusalemme,
cinque le piaghe del Signore, quattro gli Evangelisti, tre sono i
Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa
Emanuele, evviva questo Regno e sempre sia laudà.
- Ton, ton. - Chi picchia?
- Amici, amici son le
otto.
- Otto i libri di Mosè,
sette le lampade di Betlemme, sei le strade che
vanno a Gerusalemme, cinque le piaghe del Signore, quattro gli
Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù
Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.
Ton, ton. - Chi picchia?
- Amici, amici son le
nove.
- Nove i cori degli
angeli, otto i libri di Mosè, sette le lampade di
Betlemme, sei le strade che vanno a Gerusalemme, cinque le piaghe del
Signore, quattro gli Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti
Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e
sempre sia laudà.
Ton, ton. - Chi picchia?
- Amici, amici son le
dieci.
- Dieci i Comandamenti
del Signore, nove i cori degli angeli, otto i
libri di Mosè, sette le lampade di Betlemme, sei le strade che vanno a
Gerusalemme, cinque le piaghe del Signore, quattro gli Evangelisti, tre
sono o Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa
Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.
Ton, ton. - Chi picchia?
- Amici, amici son le
undici.
- Undicimila verginelle,
dieci i Comandamenti del Signore, nove i cori
degli angeli, otto i libri di Mosè, sette le lampade di Betlemme, sei
le strade che vanno a Gerusalemme, cinque le piaghe del Signore,
quattro gli Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi,
un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia
laudà.
Ton, ton. - Chi picchia?
- Amici, amici son le
dodici.
- Dodici gli Apostoli del
Signore, undicimila verginelle, dieci i
Comandamenti del Signore, nove i cori degli angeli, otto i libri di
Mosè, sette le lampade di Betlemme, sei le strade che vanno a
Gerusalemme, cinque le piaghe del Signore, quattro gli Evangelisti, tre
sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa
Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.
Ton, ton. - Chi picchia?
- Amici, amici son le
tredici.
- Con i dodici ti ho
pagato, vattene che sei dannato.
- San Bartolomeo, San
Bartolomeo, non ho mai potuto fare un piccolo
bucato che tu non gli abbia messo una piccola pezza!
Diceva mia mamma: Sono
andata a Roma per il Giubileo
dal Papa sono andata a
confessarmi,
la prima cosa che ebbe a
dirmi
mi chiese se facevo
l’amore.
Gli risposi “Padre,
signorsì al mio paese fanno tutti così”
Mi disse “Ragazza beata
se non la smetti sarai
dannata”
Mi disse “Ragazza di Dio,
fallo l’amore, che l’ho
fatto anch’io”.
Lazzarino di Francia
che sale per la Lanza
per la Lanza e per i pini
chiamando san Martino
san Martino non c’era
c’era Diana
che suonava la campana
la campana era rotta
tre donzelle c’erano
sotto:
una filava
l’altra annaspava
una faceva i cappelli di
paglia
per mandarli alla
battaglia
la battaglia di San
Michele
era giusta e ben pesata
e beato chi lo sarà.
È morta la mia vecchia
moglie
ho sposato una giovanetta
Gli ho detto di farmi il
letto
mi ha risposto brutto
vecchio
gli ho detto di scopare
la casa
mi ha risposto vattene in
là
gli ho detto di cuocere
la cena
mi ha tirato la catena
gli ho detto di cuocermi
la focaccia
mi ha tirato la lastra.
Esmeralda, dalla
voce calda e ridente, racconta:
Una formica andò al forno,
scarabeo gli và dintorno.
Scarabeo dove vai?
Gamba bianca voglio
toccare.
Gamba bianca non toccherai
finchè sposa non mi avrai.
Te l’ho detto, vecchia
barca
di non partire di sera,
ti hanno rotto la
ciminiera
e la nave non parte più.
La zoppa di Codeglia
l’hanno portata a
Montenero
quando è arrivata a Lemmen
l’hanno gettata nel
canale.
Aveva un ombrellino
che si è rotto in tre
pezzi
quando è arrivata alla
Madonna
faceva il verso agli
zoppi.
Bertolino, non fare il
ricco
hai portato in sette
inverni
a Tramonti, uno
stoccafisso.
Mi sono innamorato di due
sorelle
dell’una o dell’altra non
so chi scegliere
una mi sembra un poco più
bella
dall’altra non mi posso
allontanare
la Caterina mi sembra più
fine
ma lo spasso del mio
cuore è la Marina.
Maria
Maria della Ricciola è del 1912. Ne avrebbe tante cose da
raccontare...! È rimasta vedova che era giovane e ha vissuto con ciò
che le dava Tramonti: i cestini d’uva da tavola, asparagìne,
violacciocche, che andava a vendere alla Spezia e poi puliva nei
vigneti, zappava e faceva tutti i lavori nelle terre. Una vita di
fatiche...
- Quando arrivava il carbone, che
eravamo qui a Tramonti... con il mio
Candido sono stata fidanzata sei anni... e vedeva arrivare la nave...
sai quelle navi da demolizione... era lì che dall’allegria mangiava...:
- Stasera mangio più contento, diceva...
- Andava al carbone...?
- Alla demolizione, sai al porto.
Quando arrivava quel tipo di navi lì
per un mese o due aveva il lavoro, poi magari restava disoccupato un
anno, Giancarlo, ma bisogna mangiare ogni giorno. Non era mica soltanto
mio marito, che faceva quella vita.
- Allora c’era Tramonti e si davano da fare un po’ a Tramonti.
- A Tramonti, lui si adattava a fare
di tutto: era buono a fare i muri
a secco, era buono a zappare... aveva due mani d’oro.
- Anche nelle cave andava a quell’epoca
- Anche nelle cave, si. Il nonno
nelle cave ha fatto la vita.
- Allora vostro padre ha sempre fatto il cavatore.
- Sempre lo scalpellino.
- È stato anche in Arsenale ma c’era stato poco.
- Da quando aveva dodici anni a
quando ha smesso di lavorare. Mio
fratello andava a scuola, Giancarlo, e a scuola non imparava, voleva
persino picchiare la maestra, un giorno... lui che non ha nemmeno il
coraggio di... e mio padre gli disse: “Stai a sentire, ora te la
canto...”, mio padre era serio, severo, “vuoi andare a scuola o nella
cava?”.
Lui era nella cava
Schiappacasse e al mattino doveva salire
Vallicella... all’inverno, sai, con quel freddo. - Nella cava, nella
cava... Allora lo portava su tutte le mattine: gli faceva indossare una
giacchetta delle sue che gli arrivava ai piedi, andava lassù e stava
tutto il giorno lì a lavorare a una piccola pietra, poi lo aiutava un
poco anche mio padre. Gli volevano bene tutti, a mio padre, perché
aiutava tutti passando loro le pietre ben capezzate (ritagliate), al
Pinetu, al Lué di Tabaciu... e quelli dicevano: “aiutiamo Emilio, così
quando Agostino capezza (ritaglia) i tacchi ce li aggiusta meglio e noi
li rifiniamo prima”. Ha fatto la vita sempre nelle cave.
- E laggiù in Argentina cosa faceva?
- Nelle cave.
- Anche in Argentina?
- Si, sempre. Adesso non lavora più.
- Sai, io a Biassa, ho gli stipiti...
Quando la vita era più semplice e non c’erano uomini in divisa che in
televisione prevedevano il tempo, la gente seguiva ciò che gli avevano
insegnato i vecchi. Per conoscere le previsioni del tempo bastava che
si affacciassero alla finestra e guardassero verso il Parodi: se aveva
il “cappello” entro poco sarebbe piovuto. Se vedevano che le nuvole
andavano verso il monte, ritornavano a letto, se andavano verso il
mare, andavano a zappare; se i gabbiani stridevano era prevista acqua e
se si dirigevano verso la Palmaria, c’era la certezza della pioggia per
l’indomani. Si servivano anche dei proverbi che, con poche parole in
rima, spiegavano tutto.
La burrasca del mattino
porta il sereno; La
brinata non è bugiarda
chiama sempre neve o
acqua; Se vuoi vedere il tempo fino
maestrale alla sere e
levanto al mattino.
Conoscevano le previsioni del tempo con molto anticipo perché:
Natale
nel tizzone Pasqua sul
balcone;
e: Se marzo non fa i capricci aprile
fa pensare male... e tanti altri.
Cosa volete, i tempi sono cambiati e per farli tornare come prima, non
servono né dottori né chirurghi.
Sono messe dette e vesperi cantati... .
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