Giancarlo
Natale
Di là da’ monti
Storie e leggende di Biassa e Tramonti
Prologo
A Biassa sino agli inizi degli anni cinquanta le antiche storie
venivano tramandate oralmente dai più anziani nelle lunghe serate
invernali intorno ai focolari delle povere case.
Ormai sono rimasti pochi coloro che custodiscono i racconti della loro
infanzia e ancor meno sono i giovani disposti ad ascoltare: le
biciclette, i motorini, la radio, la televisione sostituiscono i
racconti che un tempo facevano galoppare la fantasia dei loro coetanei.
Taluni dei racconti qui raccolti provengono dalla notte del tempo,
tramandati per generazioni: sono le favole, le canzoni, le ninne nanne
e la saggezza contadina insita nei detti e nei proverbi. Altri sono
racconti di avvenimenti vissuti dagli anziani da me interpellati o
almeno accaduti in tempi tanto vicini a loro che i racconti dei padri
non erano ancora ammantati da quella aura di leggenda che assumono le
vicende lontane.
I toponimi dovevano essere molto più numerosi di quelli elencati;
alcuni sono caduti in oblio, altri non sono più esistenti, specialmente
a Tramonti, dove la morfologia del terreno in questi ultimi decenni si
è profondamente modificata.
Anche le tradizioni e il folclore dovevano essere ricche a Biassa
perché oltre al materiale raccolto, numerosi sono i frammenti di
memorie di cui gli anziani si sono sforzati, su mia richiesta, di
trovare la continuazione, anche se spesso la risposta era “non ricordo
più”.
Ho raccolto tutto questo materiale per un uso dapprima esclusivamente
personale: volevo consegnarlo ai miei figli affinché non dimenticassero
il nostro passato, o almeno una parte del nostro passato. Il progresso
avanza a passi giganteschi, le nostre attività quotidiane non ci
permettono, con la loro premura, di pensare a cose trascorse: non
portano alcun beneficio materiale, allora lasciamo perdere....
Eppure il passato è appena dietro la porta che abbiamo chiuso alle
nostre spalle.
Gli anziani che ho interpellato dalla classe 1912 in avanti, sono con
noi, vivono il progresso di ogni giorno... e hanno vissuto il passato;
il loro passato, gli anni della loro gioventù sino all’avvento (anche
se è avvilente dirlo) della seconda guerra che ha portato insieme ai
suoi lutti il progresso. La loro vita non era troppo dissimile dalla
vita dei loro padri e dai padri dei loro padri: Tramonti e Biassa, un
dualismo senza interruzioni, da secoli. E oggi che assistono al
cambiamento della loro vita e a quella dei loro figli, quando ricordano
quei tempi il loro viso si illumina e quando parlano dei campi
abbandonati e delle frane, il viso si incupisce e fremono di sdegno per
questi giovanotti “ che non hanno più voglia di lavorare”.
Li ringrazio, questi anziani di Biassa, perché mi hanno comunicato le
sensazioni e i profumi dei tempi andati, tempi che è auspicabile non
tornino più, ma che ci auguriamo non siano dimenticati.
I ricordi scritti lasciati da Pietro Natale, detto Natalin (1875 -
1966), guardaboschi delle proprietà comunali intorno a Biassa e
organista della chiesa di San Martino per sessanta lunghi anni, assieme
alla ancor invidiabile memoria dell’Arfù
da Ciaeta (Alfonso Sommovigo),
’a Luce de l’Arnè de Barbeta
(Luciana Natale), ’a Maia da Rìciula
(Maria Scaglione), ’u Durfu de Mucini
(Adolfo Gianardi), ’r Brunu der
Pendignolu (Bruno Sommovigo), ’a
Ada de l’Arcida (Ada Natale), Abèle
de
Pudenzana (Lombardi Domenico), hanno permesso con i loro ricordi
di
fare rivivere pagine di un tempo che non c’è più.
Un ringraziamento all’amico Gennaro Rossi per avere portato sul filo
grammaticale le mie sgrammaticature.
Per le pagine sul folclore biasseo è stato essenziale l’aiuto di Ideale
Gianardi, autore di un prezioso dizionario sul dialetto di Biassa che
non è purtroppo ancora stato pubblicato, ma che sarebbe un valido aiuto
per capire la formazione della parlata spezzina, nata probabilmente da
quella di Biassa. I modi di dire ed i proverbi qui raccolti provengono,
in maggior parte, da questo suo lavoro.
Il tutto è stato rielaborato e compattato dalle abili mani di
un’esperta: la professoressa Rossana Piccioli, curatrice del Museo
Civico “U. Formentini” della Spezia.
E poi, parte delle fotografie del testo e le ricerche fotografiche di
un fotografo d’eccezione quale Sergio Fregoso.
Tutti grossi personaggi meno uno: io.
La strada mulattiera che da Biassa porta a Tramonti, inizia subito dopo
le ultime case in località Curezöu
(Correggiolo).
Una gradinata tutta in arenaria (che sul finire del 1880 sostituì un
più antico e malagevole sentiero) capolavoro degli antichi cantonieri e
scalpellini di Biassa, porta al passo (520 m.) di monte Madonna. Sulla
sommità, immediatamente a fianco della mulattiera è stata costruita una
chiesetta dedicata a s. Antonio abate.
Questo primo tratto di strada pedonale, comune alle tre località di
Tramonti di Biassa (Fossola, Monesteroli, Schiara), è lungo circa tre
chilometri ed è intercalato da “pose”
che servivano per “posare” il
carico che le donne portavano sulla testa e gli uomini sulle spalle ed
era l’occasione per fare una sosta prima di riprendere la fatica della
salita, o della discesa se si veniva da Tramonti
Quello di fermarsi alle “pose”
principali era quasi un rito che i
biassei rispettavano anche perché la traversata da Biassa a Tramonti (o
viceversa) era fatta da gruppi di persone che partivano assieme (per il
tragitto occorre oltre un’ora di cammino) e discorrendo, alleviavano il
disagio della lunghezza del percorso.
Lungo questo tratto iniziale di strada vi sono luoghi adibiti al culto:
una croce di ferro infissa in un blocco di arenaria, una edicola con la
statua della Madonna del Rosario; in questi luoghi i viandanti si
fermavano qualche momento con il loro carico addosso per farsi il segno
della croce e le donne per recitare una breve preghiera. Era di buon
auspicio
per la lunga giornata da trascorrere nei campi. I bimbi, con il loro
piccolo carico, camminavano in silenzio, rapiti dai racconti dei grandi
che parlavano del passato e delle traversie del presente. Le vicende
del passato, ingigantite dai ricordi, dai “sentito dire”, erano sempre
qualche cosa di avventuroso, di mitico che i ragazzi ascoltavano e
trasformavano con la loro immaginazione. Il presente rappresentava il
reale quasi sempre legato alla povertà della loro esistenza e non aveva
certamente bisogno di colpire la fantasia.
Su in alto, al passo, le direzioni per le diverse località si dividono:
si scende lungo una scalinata sempre in arenaria per la Fossola mentre
per Schiara e Monesteroli occorre percorrere un tratto di strada
sterrata.
La scalinata per Fossola è ora in disuso da quando l’apertura della
strada Litoranea ha reso più conveniente quella via per l’accesso alle
cantine ed ai vigneti. In ogni modo, il sentiero prima e poi sul suo
tracciato, la più comoda scalinata, è stata percorsa per centinaia di
anni dai biassei ed è un’opera che merita di essere salvaguardata.
A circa metà strada della scalinata che dal monte scende alle cantine
di Fossola, vi è una grossa quercia centenaria (daa lizza) che ha visto
trascorrere il tempo e la gente che, spossata dalla fatica, la sera
faceva ritorno a Biassa. L’uomo con la “cavagna” a forma rettangolare
con due maniglie nella parte più lunga e nella quale infilava un
bastone che posava sulle spalle, all’interno della quale trovavano
posto tre fiaschi di vino che immancabilmente al ritorno riempivano lo
spazio. La donna invece, con la “panea”,
una cesta quadrata in bilico
sulla testa poggiata sul “varcu”,
uno straccio arrotolato che faceva da
cuscinetto tra la testa e la cesta, che era servita al mattino per
trasportare il poco cibo occorrente per la giornata ; alla sera in
questa cesta trovava posto sempre qualche cosa da portare a Biassa.
Poco discosto dalla quercia, una lapide di arenaria ricorda la morte
avvenuta alla fine della seconda guerra mondiale (nell’aprile del 1944)
di un ragazzo di 13 anni, Luciano Cidale, di Biassa, per lo scoppio di
un ordigno bellico abbandonato tra i rovi.
Lasciato il bosco poco dopo la quercia, la scalinata scende fra campi
di vigne, per la verità oramai quasi abbandonati, fino oltre la
chiesetta degli Angeli Custodi; poi ripida, scende al mare. Questa
scalinata purtroppo è quasi franata e occorre che vi si rimetta mano al
più presto, opponendosi alla natura che cerca di cancellare
l’intervento dell’uomo. Il 2 ottobre si festeggia la ricorrenza degli
Angeli Custodi, forse in ricordo di lontani culti pagani, in occasione
della vendemmia che in altri tempi culminava, più o meno, in quella
data.
Percorrendo l’altra strada, quella per Schiara e Monesteroli,
oltrepassata la chiesetta di sant’Antonio, attraverso resti di
periodici incendi boschivi, si scorge il mare verso l’orizzonte e,
ancor prima di iniziare il tratto di scalinata, si incontra lo spiazzo
del “menhir” o “Croce di Schiara”.
La gente di Biassa ha dato una sua interpretazione allo spiazzo: per
loro è un luogo di sosta, o meglio la “posa” e tale è infatti la
denominazione data a questa località. Infatti chi percorreva a piedi la
strada che sale da Schiara e Monesteroli, lì si fermava prima di
iniziare il falsopiano che conduce alla chiesetta di S. Antonio abate.
Raccontavano i “vecchi” che in quel luogo si presentò ad un biasseo,
che nottetempo si recava a Schiara, il diavolo. Per scongiurare il
ripetersi di tali incontri, su quella roccia tronco conica fu posta una
croce, con chiaro intento di cristianizzazione. La croce di ferro
battuto fu infissa, con piombo fuso, nel blocco di arenaria; alcuni
anni fa, è stata asportata da ignoti, che la segarono alla base e fu in
seguito sostituita con altra di minor pregio. Vicino alla posa un
rifugio ricavato nel muro di sostegno della piana soprastante serviva
da riparo contro le intemperie.
Proseguendo sulla mulattiera, poco dopo si incontra il Maupassu
(Malpasso) e scendendo ancora si arriva a Veo. Qui si dividono ancora
le strade dei biassei che hanno le cantine a Schiara e Monesteroli. Per
Monesteroli si scende tramite una scalinata non troppo ripida sino ad
un punto dove lo scenario appare di incomparabile bellezza. Il luogo si
chiama Rebui: a destra si
vede la Fossola e in lontananza le
Cinqueterre e il Mesco; a sinistra lo Scoglio Ferale, le coste di
Schiara e le isole al largo di Porto Venere: Palmaria, Tino, Tinetto.
Per raggiungere le cantine di Monesteroli da quel punto bisogna
“tuffarsi” e scendere a perpendicolo per la “scainada grande”, una
scalinata da capogiro fino ad arrivare alle cantine sulla roccia
perpendicolare e nuda. Un tempo per queste scalinate scendevano uomini
con le corbe ricolme d’uva per vinificare nelle cantine poste in basso,
dato che la maggior parte dei campi erano situati nella parte alta
della costa e poi successivamente, quando il vino era pronto, le
risalivano con e barì (i
barili) pieni sulle spalle (un barile
equivaleva a quaranta litri).
Il miglior vino di Tramonti era senz’altro quello fatto con l’uva di
Monesteroli.
Chi invece scende a Schiara, poco dopo il bivio con Monesteroli
incontra un tratto pianeggiante, detto “cian de Veo” (pianoro di Veo)
con alla sinistra una schiera di “casoti”
che un tempo ospitavano
animali domestici o servivano come deposito attrezzi o riparo. Dopo la
“costa di Veo”,
dove sono visibili piante di “süveo”
(sughera), una
rarità al limite di sopravvivenza di questa specie, si arriva alla
fontana di Nozzano. Detta fonte è posta a lato dell’omonimo canale.
Si tratta di una costruzione abbastanza grande costruita attorno alla
sorgente nel 1805 dai soldati napoleonici accampati nei castagni,
sempre detti di Nozzano un po’ sotto la sorgente.
Questo luogo è ricco di castagni ed è attraversato da un sentiero
provinciale che un tempo collegava tutte le località abitate di
Tramonti.
Nel tratto di sentiero che attraversa i castagni di Nozzano si incontra
una roccia che reca scolpita una croce inscritta da un cerchio.
Proseguendo dalla fontana di Nozzano si arriva al Campodonico, una
delle poche località pianeggianti di Tramonti (Cian de Veo, Cian der
Campudonegu,Cian de Büti). La vista spazia sulle isole e sul
mare
aperto, dove con giornate di buona visibilità si vedono in lontananza
l’isola d’Elba, la Gorgona, la Capraia e la Corsica.
Si scende quindi a Schiara sino alla piazzetta antistante la chiesetta
di S. Antonio da Padova. Da lì al mare, circa settecento gradini
coprono un dislivello di 220 metri.
L’impressione è di un ripido volo e il mare trasparente è l’ambito
traguardo.
Scuola di vita e scuola scolastica
Il periodo del lavoro nei campi di Tramonti inizia subito dopo la
vendemmia.
La prima operazione da fare è quella della “sfrascatura” (sfrascae),
cioè togliere alle vigne parte dei tralci nel pieno della vegetazione.
Si ammucchiano questi tralci e foglie e si usano come concime per la
vigna stessa. In un secondo tempo (sembra che il periodo migliore sia
durante la luna calante di ottobre) si ripassano le vigne e si completa
la potatura.
La famiglia, quindi, per poter ottemperare ai lavori nei campi era
obbligata a restare a Tramonti per lunghi periodi, perché dopo la
potatura occorreva pulire i campi (netezàe)
per renderli atti alla
successiva zappatura.
La gente si alzava presto al mattino per recarsi nei campi dopo avere
bevuto, al buio, un po di caffè nero fatto nella pentola, riutilizzando
i fondi del caffè dei giorni precedenti (caffè alla turca, dicevano).
I bambini in età scolare si preparavano per andare a scuola.
Naturalmente non c’era scuola a Tramonti: occorreva recarsi a Biassa ed
i bimbi dovevano affrontare un percorso oltremodo lungo e faticoso. Da
Schiara, Fossola, Monesteroli, partivano all’alba per poter essere in
orario a scuola.
Finite le lezioni era giocoforza rifare la strada inversa per ritornare
a Tramonti dalla famiglia. Non tutti i bimbi avevano la possibilità di
frequentare la scuola perché non tutte le famiglie potevano permettersi
il lusso di far studiare i propri figli che, anche se piccoli, erano
braccia valide al mantenimento della famiglia.
Il disagio del viaggio per raggiungere la scuola e tornare era
alleviato dal fatto che i bimbi partivano per gruppi da ogni località e
che la loro esistenza trascorreva all’aria aperta. La casa, infatti,
era soltanto concepita come riparo per la notte e, talvolta, per
mangiare.
Erano esonerati dalla fatica del viaggio soltanto quando per lavori nei
campi di Biassa, la famiglia nuovamente vi si trasferiva.
La giornata nei campi trascorreva dall’alba al tramonto con una piccola
sosta a mezzogiorno. Allora la donna toglieva dalla panea (cesta) lo
scarso cibo che aveva potuto portare al mattino e si pranzava.
I lavori erano tra i più svariati: si dovevano ricostruire i muri a
secco di sostegno alle piane, l’impianto di nuove viti, ripulire i
sentieri, rifare gli scoli delle acque piovane ostruitisi durante
l’estate e poi tutti i lavori pertinenti la pianta della vite.
La sera, un frugale pasto, quasi sempre come quello del mezzogiorno a
base di verdure e di taiain
(tagliatelle).
Dopo il pasto era il momento degli incontri. I giovani si ritrovavano
nelle “puzze” (piccoli spazi
coperti di stramaglia davanti alla casa)
ed erano i magici momenti dei flirt, degli innamoramenti.
Non di rado questi giovani facevano molta strada e per incontrarsi non
esitavano a percorrere sentieri impervi da una località di Tramonti
all’altra alla luce di lampade a olio. Infatti esistevano sentieri di
mezza costa che collegavano il Persico con Schiara sino a raggiungere
Monesteroli e Fossola.
Poi finalmente a letto: un giaciglio fatto con un“saccone” di tela
grezza pieno di paglia o di foglie di granoturco, rinnovato ogni anno a
luglio al tempo della mietitura del grano.
I vigneti
La vite è sempre stata una delle principali fonti di sussistenza dei
biassei. I vigneti iniziavano dove si frangeva il mare nelle sue
furiose libecciate e arrivavano quasi alla sommità del monte. I
migliori erano considerati quelli in basso, verso il mare: Cà Vèce,
Cuunbàa Lizzadèu, Zése, Cantunèu, Burdàiu ecc. Infatti il vino
prodotto
in tali località aveva almeno un paio di gradi in più rispetto a quello
prodotto a Veu, Campudònegu,
Lumenadi, Büti, ecc. che erano più in alto.
Il “rinforzato” o “dolce” proveniva dalle bassure di Tramonti e il
rinomato “oro di Biassa” pure. Certamente la coltivazione di questi
terrazzamenti era molto più impegnativa e faticosa. La terra (o almeno
quella che avrebbe dovuto essere tale) era formata da scaglie scistose
e arse dal sale marino e dal sole.
I vigneti erano di un intenso color verde e l’uva, dorata, era coperta
da una patina di sale.
Quando soffiava il libeccio le onde del mare che si frangevano contro
la scogliera liberavano un pulviscolo che, radendo i muri si posava
sulle vigne e, spinto dal vento saliva in alto.
Dai campi si respirava l’odore dello iodio e del sale che bruciava le
narici.
Giù in basso, l’uva maturava molto prima che nelle zone alte: si
racconta che per la festa di S. Antonio da Padova (il 13 giugno) il
parroco officiasse la messa nella chiesetta intitolata a questo santo,
che si trova a Schiara, spremendo direttamente nel calice il primo
grappolo maturo delle Zése o del
Cantunèu.
Nei primi giorni di agosto i contadini di Tramonti portavano già al
mercato della Spezia i cestin (ceste) di uva di queste zone.
Quella di sistemare l’uva nei cestini era un’arte che soltanto le donne
di Biassa sapevano fare: mettevano in bella mostra i grappoli più
dorati senza che si vedesse in alcun modo il picciolo del grappolo.
Queste ceste pesavano dai 12 ai 18 chilogrammi. L’uva veniva raccolta
nei momenti freschi della giornata, quando l’ombra faceva risaltare di
più i grappoli maturi, che quindi erano più facilmente individuabili.
La fatica che i contadini facevano era sovrumana. Dovevano scendere nei
campi vicini al mare percorrendo impervi sentieri, raccogliere l’uva,
raggiungere le cantine di Tramonti e da lì ripartire in giornata
valicando “il monte” e scendere a Biassa. La mattina successiva, alle
quattro, partenza per il mercato alla Spezia a piedi.
Dal luogo di raccolta al mercato, questa uva veniva trasportata per
oltre due ore e mezzo. Durante il tragitto si doveva usare molta
attenzione a non bavusae,
cioè non toccare l’uva per non togliere la
patina che la copriva.
“L’oro di Biassa” con gran dispetto dei proprietari di uve da tavola di
altre zone, veniva venduta facilmente e ad un prezzo più alto. Gli
acquirenti, in gran parte venivano da Genova apposta per comprare l’uva
di Tramonti.
L’uva dei cestini era di qualità “bosco” o “regina”.
La vendemmia cominciava di solito verso la fine di settembre. Tramonti
era allora un brulicare di uomini con le corbe in spalla e le donne con
la “panea” (cesta) sulla testa in un continuo va e vieni dai campi alle
cantine. Questi particolari contenitori dondolavano ritmicamente, al
tempo con i lenti passi degli anziani e le corse dei giovani con il
pesante fardello sulle spalle.
Le cantine erano sempre molto lontane dai piccoli vigneti e la gente
era obbligata a lunghi viaggi per trasportare l’uva. Non era raro che
dalla Fossola si trasportasse l’uva a Schiara e viceversa. Questo fatto
era dovuto all’eccessivo frazionamento dei terreni, che, anche se
disagevoli, per i contadini di Tramonti aveva una sua logica. Infatti,
in caso di eredità, i vigneti erano divisi in modo che ad ogni erede
toccassero terreni considerati più fertili ed una parte delle “bassure”
più adatti per il rinforzato. Ma in questo modo i poderi venivano, di
eredità in eredità, sempre più frazionati. Vi erano poi altri motivi
per avere i campi distanziati uno dall’altro. A causa di micro climi
varianti da una località all’altra, poteva succedere che l’oidio e la
peronospora, malattie frequenti nei vigneti, attaccassero le proprietà
possedute in una zona e non in un’altra. Adottando il metodo dei campi
distanziati, c’era la possibilità di salvare parte del raccolto.
Altrettanto succedeva per le grandinate che, precipitando spesso in
modo frammentario potevano colpire una località e risparmiarne un’altra
e siccome l’esistenza stessa del biasseo era essenzialmente legata alla
coltivazione della vite, frazionando i poderi, si evitava di mettere in
pericolo tutto il raccolto.
I sentieri erano tenuti puliti, l’acqua piovana ben regimata e i
muretti a secco rifatti. Lungo i sentieri, a tratti, vi erano delle
pose dove chi trasportava carichi si fermava per un breve necessario
riposo.
La posa consisteva in una pietra piana ben sistemata su un muro ad
altezza di spalla.
Centinaia di sentieri si intersecavano per ogni dove: dal mare con
ritmo vertiginoso salivano alle cantine poste a metà costa e dall’alto
scendevano talvolta per ripide scalinate (come la scalinata di
Monesteroli).
I bambini ben volentieri aiutavano gli adulti portando cavàgnöe
(piccole ceste) e aiutavano a vendemmiare.
“A setenbre sporchi ma savuli”
(sporchi ma sazi) dicevano dei bambini
perché erano sporchi di mosto e c’era abbondanza di cibo, sopratutto
uva, fichi e pesche che si trovavano nei campi.
La sera, dopo cena e dopo aver controllato le botti, i vicini di casa
si trovavano riuniti in una delle pozze. La pozza era la porzione di
terra battuta che quasi ogni cantina aveva davanti alla porta di
entrata. Era sempre rifornito, questo locale, di strame fresco che
serviva in un secondo tempo da concime per le viti ed era il luogo
preferito dai bambini che al buio si sdraiavano ad ascoltare i racconti
degli anziani.
Certamente, il periodo della vendemmia era il più bello dell’anno
perché si raccoglieva il frutto del lungo lavoro nei campi. Era la fine
di un ciclo che ricominciava subito dopo aver vuotato del mosto
l’ultimo tinèu (tino).
Occorreva anche vendere il vino per pagare i debiti fatti durante
l’anno.
Per la festa patronale di S. Martino (11 novembre) i frequentatori
delle osterie volevano già bere il vino nuovo. Era necessario che prima
di quella data i contadini di Tramonti si fossero dati da fare per
vendere il loro prodotto.
I primi a vendere erano i proprietari dei campi nella parte bassa di
Tramonti.
Partivano allora torme di uomini con ’e
barì (i barili) che si recavano
a prendere il vino. Il barile era un recipiente in legno dal contenuto
di quaranta litri che i “camalli” trasportavano pieno di vino da
Tramonti a Biassa in un’ora di tempo.
Soltanto poche donne si erano cimentate in simili sforzi ma si racconta
di una donna di Biassa, Alcida Gianardi,che agli inizi del ’900 portava
con sè il figlioletto in braccio e il barile sulla testa e mentre
camminava trovava la forza di allattare il piccolo.
Naturalmente non tutto il vino era venduto a Biassa per cui succedeva
che gran parte di questi barili dovevano essere trasportati da Tramonti
alla Spezia.
Discorso a parte merita il vino “dolce” o “rinforzato”. Esso è il
corrispondente dello “sciachetrà” delle Cinque Terre ma fatto con
sistemi diversi. Infatti mentre l’uva delle Cinque Terre viene fatta
appassire all’ombra, in luoghi riparati, a Tramonti veniva messa a
seccare al sole sui muri dello Speladu,
Cà Vècie, Lizzadèu, Güzerné,
ecc. oppure sui tetti delle case di Tramonti.
Quando l’uva era pronta per essere schiacciata, era talmente dura che
erano costretti a lasciarla qualche giorno nelle corbe per fare in modo
che si ammorbidisse. Nel Persico e Monesteroli, il vino così ottenuto
superava i 18 gradi alcolici.
Il metodo praticato da questi antichi vinificatori, farà certamente
sorridere i moderni enologi, però sia il vino da tavola che il
“rinforzato” hanno sempre ottenuto larghi consensi nei convivi
dell’epoca.
Prima dell’epidemia di fillossera del 1920 la coltivazione della vite
era più facile. Per l’impianto, bastava prendere dei tralci robusti,
piantarli in profondità nella terra per farli attecchire.
La fillossera fece strage di viti e fu gioco forza fare nuovi impianti
con tecniche diverse: occorreva piantare vitigni selvatici (viti
americane) inattaccabili dalla malattia e successivamente innestarli.
Nessuno dei contadini di Tramonti era in grado di fare l’operazione
dell’innesto, per cui si fecero venire “innestini” dalla Sicilia, dove
la fillossera aveva preso campo da molti anni.
Parte dei campi lontani furono abbandonati anche perché nel frattempo
molti dei biassei si erano impiegati nelle industrie spezzine,
specialmente nell’Arsenale e quella del contadino era diventata
attività secondaria.
Inizia così, lentamente ma inesorabilmente, il declino di Tramonti.
Palazzo Cenere
Il diffondersi dell’uso del cemento fu un dramma per i biassei.
Decine di cave di arenaria erano in piena attività sin dai tempi della
costruzione dell’Arsenale, dei forti intorno alla città e in ultimo del
porto.
Le invenzioni sono indice di progresso, ma c’è sempre qualcuno che ne
paga le conseguenze. I cavatori e gli scalpellini di Biassa erano tra i
più esperti in materia ma quel nuovo ritrovato poneva seri problemi
alla loro sopravvivenza.
Gli ultimi decenni dell’800 avevano notevolmente cambiato il contadino
di Biassa. Prima ci si contentava del lavoro nei campi: il vino era
merce di scambio che consentiva di sopravvivere, unitamente ad altri
prodotti agricoli che coltivavano nei campi di Biassa.
Poi con la costruzione dell’Arsenale, l’industria della pietra aveva
procurato loro un salario e una maggiore disponibilità finanziaria, ma
questa fonte di guadagno stava inaridendosi: i cavatori e gli
scalpellini biassei, avrebbero dovuto ritornare a lavorare soltanto la
terra e tornare a vivere quindi nelle condizioni disagiate di prima.
Nei primi anni del ’900 il Consiglio Comunale aveva approvato la
costruzione del nuovo Palazzo di Governo sullo stesso luogo del
vecchio, nell’attuale piazza Beverini e malgrado l’abbondanza delle
cave nel circondario e del marmo nella vicina Carrara aveva deciso di
costruirlo in cemento, la cosiddetta “pietra artificiale”.
...’n
monumento
de pantan
pietrificà!
Deghe o
nome de cimento,
ma l’é
supa e pan bagnà!..
esclamava il Mazzini in una delle sue “Cansonete
de Carlevà” (A Speza
vista d’en Paadiso - 1903), preoccupato per questa costruzione.
Contro la decisione del Consiglio vi furono delle forti opposizioni
nonché accuse di interesse privato della giunta.
L’ing. Fausto Pegazzano dimostrò con calcoli precisi, la convenienza di
adoperare pietre delle cave locali per le decorazioni esterne al
palazzo. Oltre ad un risparmio sulla spesa nei confronti della “pietra
artificiale”, ed un maggior valore architettonico, vi era anche un
risvolto sociale in quanto ne avrebbero tratto beneficio gli operai
delle cave spezzine. Invece i pezzi prefabbricati in cemento costruiti
dalla ditta Chini, arrivavano addirittura da Genova.
Tenendo conto soltanto della somma preventivata per l’esterno del
Palazzo, che era di lire 85.000, e spendendola nelle cave locali,
avrebbe dato lavoro ad almeno cento fra scalpellini e cavatori per un
anno!
La somma fu poi abbondantemente superata, si arrivò infatti ad oltre
300.000 lire.
La prima domenica di maggio del 1902 fu organizzata dalla Camera del
Lavoro una manifestazione, a nome della Lega degli scalpellini, al
politeama Duca di Genova per protestare contro la decisione comunale.
Quella mattina scesero da Biassa per la prima volta i numerosi
scalpellini ivi residenti. Uscivano dal loro secolare isolamento a
gridare la loro condizione di salariati e il loro diritto al lavoro.
Avevano anche scritto, in biasseo, una canzone di protesta che iniziava
così:
A partìmu da Biassa
per rengraziàe i nostri
padrun
che cun a “pietra
artificiale”
i ne fanu mangiàe stì bèi
bucun…
Partiamo da Biassa
per ringraziare i nostri padroni
che con la “pietra artificiale”
ci fanno mangiare questi bei bocconi...
Dal politeama, oltre mille persone si diressero in corteo sotto la
pioggia verso la piazza del Municipio, urlando «Abbasso la pietra
artificiale», «Abbasso la Giunta». Qui li aspettavano i questurini che
sciolsero con i bastoni la loro manifestazione.
Gli amministratori, sordi alla protesta, fecero iniziare i lavori del
Palazzo (chiamato ironicamente, “Palazzo Cenere” per il colore) che fu
completato nel 1907.
Durante l’ultima guerra fu distrutto dai furiosi bombardamenti alleati;
ora le sue macerie giacciono a pezzi lungo il Molo Italia come
frangiflutti assieme ad altri anonimi blocchi di pietra.
Bombe in mare
Erano altri tempi. Tempi duri per i biassei che vivevano gran parte
dell’anno abbarbicati a quella costa impervia, avara di tutto meno che
di colori: il verde dei vigneti che dal mare salivano sino al monte;
l’oro dei grappoli di “bosco” o di “albarola” che assieme all’uva
“regina” (da tavola) erano “l’oro di Biassa”; l’azzurro del mare
incontaminato dove lo sfregare dei muggini e delle orate contro gli
scogli lanciava bagliori più o meno prolungati e intensi. «I vouzu»
(sfregano), diceva il contadino di Tramonti che, secondo il numero e
l’intensità degli “specchi” sapeva distinguere la quantità e la qualità
del pesce che si sfregava a riva per deporre le uova.
Nei tempi precedenti la seconda guerra, il contadino di Tramonti era
pure cavatore e scalpellino. Vi era sempre per loro la possibilità di
procurarsi un po’ di esplosivo, qualche detonatore e un pezzo di
miccia. Ecco che allora, il contadino-cavatore si trasformava in
pescatore: pescatore di frodo. Erano condizioni di emergenza (come dopo
la seconda guerra, ma allora c’era abbondanza di esplosivo): portare
qualche chilogrammo di pesce a casa significava festa per tutta la
famiglia e valeva bene il rischio di manipolare l’esplosivo.
Er curpu
(l’ordigno) si faceva così: si metteva in un barattolo di
latta la quantità di esplosivo, secondo la potenza che si voleva dare
alla bomba; si batteva ben bene con il manico di legno del mazzuolo
sino a renderlo compatto e si sistemava il coperchio. Veniva fatto un
buco nella lattina dove si introduceva il detonatore collegato a pochi
centimetri di miccia perché questa doveva restare accesa sino ad
arrivare a pochi metri sotto il pelo dell’acqua. Per non fare entrare
l’acqua a contatto con l’esplosivo si adoperava un po’ di seu (mastice
per botti).
Al momento dell’accensione, l’estremità della miccia veniva tagliata
longitudinalmente e allargata in modo che la brace della sigaretta (che
il pescatore doveva tenere sempre bene accesa) avesse facile esca alla
polvere della miccia; il lancio nel bel mezzo del sàmegu (branco) di
pesci, indi il botto.
Dei pesci morti, una parte restava a galla, altri andavano a finire sul
fondo del mare. Se i pesci uccisi erano molti, chi aveva la fortuna di
essere al mare, usufruiva pure lui della pesca perché i pesci, grazie
alla corrente, si sparpagliavano in ogni parte.
Generalmente sulla scafèla
(barca) si trovavano due pescatori i quali
dopo avere lanciato la bomba, mettevano mano al salaio e in poco tempo
raccoglievano i pesci a galla. Poi calavano in mare un recipiente
cilindrico (u speciu) col
fondo di vetro da cui si vedeva nitidamente
il fondo marino, e mentre uno era ai remi, l’altro, aggiungendo più
aste che sono lunghe pertiche di legno, (una asta era lunga quattro
metri) secondo la profondità in cui erano adagiati i pesci morti e con
all’estremità la fussena
(fiocina), raccoglieva, infilzandoli, i pesci
rimasti sul fondo.
Finalmente per qualche giorno c’era abbondanza di cibo!
Sebbene i biassei vivessero gran parte del loro tempo in prossimità del
mare, non hanno mai dedicato molto tempo alla pesca. Forse per la
mancanza di sicuri approdi, o forse perché il loro tempo era tutto
preso dalla coltivazione della vite e dal rifacimento dei muretti a
secco. Poi c’era il periodo dedicato a Biassa, dove nei numerosi campi
tutto intorno al paese, coltivavano grano, patate, castagne e quanto
altro necessitava per la loro sopravvivenza.
Non c’erano approdi, sulla battigia di Tramonti per cui le barche che
saltuariamente servivano per la poca pesca effettuata, dovevano essere
leggere ed erano perciò poco spaziose.
Queste barche, chiamate scafèle,
erano costruite artigianalmente con
tavole di pino locale, a due punte, piatte sotto ed erano molto
instabili (giùse). Erano
generalmente usate da due persone, con molta
perizia.
Erano conosciute da tutto il paese con il loro nome. Non era la barca
di..., era la Rilla", “l’Alba”, “Sandrina”, “Lea”, “Paesanella”, “Non
ce n’è”, “Scapavia”ecc.
Due erano i tipi di pesca praticata dai biassei di Tramonti: una era
quella con gli esplosivi di cui abbiamo parlato, l’altro era quello
della pesca al polpo.
Questo secondo tipo di pesca consisteva, nell’individuare dalla scafela
e attraverso lo speciu il
polpo mimetizzato sul fondo marino vicino
alla tana e, se il polpo era abbastanza scoperto, infliggergli una
fiocinata scagliata con maestria per non dargli la possibilità di
attaccarsi con i tentacoli agli scogli, nel qual caso era facile che
riuscisse a staccarsi dalla fiocina. Altro sistema per pescare il polpo
era quello di calare nelle sue vicinanze l'arpetta (l’unione di quattro
grossi ami fusi nel piombo) alla quale era annodato un piccolo straccio
bianco: il polpo attratto dal bianco si attaccava all'arpetta: un colpo
deciso dall’alto sulla barca, rimaneva infilzato negli ami e tirato
quindi a bordo.
A volte il polpo, diffidente, si rifugiava nella tana. Per farlo uscire
si usava uno stratagemma che consisteva nel portare nelle vicinanze
della tana un sacchetto di tela contenente un pezzo di verderame: un
prodotto irritante che lo faceva schizzare via dalla tana e il
pescatore pronto con la fiocina lo infilzava.
Povere vittime
La pesca con gli esplosivi era molto pericolosa e nel corso degli anni
ha fatto molte vittime.
Il 9 agosto 1934, Gianardi Francesco, fu Antonio, detto Prete scese al
mare dalla casetta dello Scau,
dove abitava a Schiara nel periodo
estivo.
Aveva quarantacinque anni, di professione era scalpellino, ma non aveva
un lavoro fisso.
Di tanto in tanto andava a lavorare a La Ciotat in Francia, nelle cave
di arenaria di quella cittadina dove risiedevano tanti biassei fuggiti
dalla miseria e dal fascismo.
Quel giorno portò con sé una delle quattro figlie, di quindici anni, il
primo dei due figli maschi di diciassette anni e l’ultimo nato, di
appena dieci anni. A Tramonti, l’unico divertimento dei giovani
dell’epoca era il mare. Si doveva scendere per una ripida scalinata che
portava al piccolo scalo dove con la bonaccia si tiravano a secco le
barche, e da li si recavano nelle piccole spiagge vicine per fare il
bagno e giocare con i coetanei.
Gli uomini si industriavano ad andare di scoglio in scoglio lungo la
costa e con lo scupèu (una
specie di lungo scalpello) raccoglievano,
tra le alghe, patelle e quanto di commestibile potevano trovare. Con
quel magro pescato, le donne, la sera facevano un sugo in cui la
famiglia intingeva il pane, ed era la cena.
Quel giorno, il Prete era
riuscito a recuperare una “saponetta” di
tritolo ed era sua intenzione servirsene per procurare un po’ di pesce
per sfamare la famiglia numerosa che aveva a carico.
Mentre i figli scesi con lui nuotavano nella Ciazeta (Spiaggetta)
assieme agli altri ragazzi, lui attraversò il Butau e si recò nel luogo
scelto per la pericolosa pesca, detto “e
canae”.
Voleva fare un po’ di brümezu
(brumeggio) e una volta che si fosse
radunato il pesce attirato dall’esca, buttare il tritolo. Così fece.
Per qualche tempo buttò in mare il brumeggio di muscoli schiacciati e
quando vide, per l’agitarsi dell’acqua, che c’era una buona quantità di
pesci, innescò la “saponetta” e, accertatosi che nelle vicinanze non vi
fosse nessuno a nuotare, accese la miccia per lanciare la bomba.
A causa forse della miccia difettosa, l’ordigno gli scoppiò in mano.
mori dissanguato sullo scoglio tra le braccia dei figli.
Lasciò vedova sua moglie (la Taì)
con quattro figlie e due maschi tutti
in tenera età.
Si chiamava Candido Carro di Attilio detto “Vèli” e si era sposato da
poco con la Maria di Agostino detto “Gusetu”.
Dal loro matrimonio era
nata una bimba che allora aveva appena sei mesi.
Si era nel 1935, il lavoro scarseggiava e Candido si adattava a
qualsiasi genere di lavoro pur di portare a casa di che vivere. Era
contento quando arrivava la nave carboniera (lui la vedeva arrivare da
Tramonti): allora scendeva alla Spezia, a Marola, a svolgere il pesante
lavoro di scaricatore.
Con le coffe piene di carbone, dalla stiva della nave, attraverso un
sistema di tavole (trasti) che servivano al passaggio degli
scaricatori, caricavano i vagoni dell’attigua ferrovia.
Ma navi da scaricare a quei tempi ne arrivavano ben poche nel porto,
per cui nei lunghi intervalli tra una nave e l’altra si adattava a fare
ogni tipo di lavoro nei campi di Tramonti. Purtroppo però i disoccupati
erano tanti e non tutti i giorni riuscivano a lavorare e guadagnare lo
stretto necessario per vivere.
Era il giorno dei morti, il 2 di novembre del 1935. Per il giorno
successivo avevano deciso, lui e sua moglie, di battezzare la piccola
Franca. Non si facevano grandi feste, in quelle occasioni, però era
consuetudine cercare di non fare brutta figura nei confronti dei pochi
parenti più stretti invitati alla cerimonia.
Candido si recò quel giorno a Monesteroli per prendere il vino
necessario a festeggiare degnamente il battesimo. Là trovò il fratello
Persio e insieme si recarono al mare di Monesteroli per cercare di
pescare del pesce che certamente non avrebbe sfigurato sulla tavola il
giorno dopo. Il metodo più sbrigativo per avere il pesce era quello di
pescare con l’esplosivo. Misero dunque in mare la barca che era
all’asciutto nella sua nicchia sullo scoglio Montonaio: Persio si mise
ai remi e Candido a prua a guardare il fondo del mare con lo “specchio”
alla ricerca dei pesci.
Dopo un poco di ricerche, ne avvistò un piccolo “sàmegu” (branco),
sufficienti per il pranzo del giorno dopo. Portò la brace della
sigaretta alla miccia dell’esplosivo ma questo, forse a causa della
miccia difettosa scoppiò in aria appena dopo il lancio.
L’esplosione non gli procurò apparenti ferite ma fu talmente violenta
che per lo spostamento d’aria ebbe gravi lesioni interne.
Fu trasportato ancora vivo a Riomaggiore dove mori poco dopo. Persio
invece fu ferito gravemente ma si salvò anche se rimase profondamente
segnato per tutta la vita.
Candido aveva ventisei anni, sua moglie, la Maria, ne aveva ventitre.
La vita per la Maria divenne ancora più difficile: senza lavoro dovette
arrangiarsi. Non volle più risposarsi e si dedicò interamente alla
figlia e ai lavori nei campi di Tramonti.
Strappava la vita aggrappata alle frane di Schiara dove raccoglieva
verdi piante di asparagine che vendeva ai negozianti di fiori i quali
li utilizzavano nella composizione dei mazzi floreali. Raccoglieva
tutto quanto la terra di Tramonti potesse offrire, lo sistemava nella
capiente cesta e la mattina seguente, prima dell’alba, si recava al
mercato a vendere la sua roba.
Ancora oggi, a 84 anni, è il simbolo della operosità dell’antica gente
di Tramonti: si alza presto al mattino e a piedi si reca nei vigneti.
Zappa la terra ed esegue tutte le numerose operazioni per portare a
maturazione l’uva.
Per contestare l’attuale inerzia dei giovani che non vogliono più
lavorare la terra di Tramonti, dice: «Sino a pochi anni fa lavoravo da
sola centoquindici campi tra grandi e piccoli...» Ora ne lavora
qualcuno di meno ma continua la sua vita nei campi, caparbiamente, a
dispetto di qualche dolore che la fa soffrire.
Osservando lei si riesce a capire il perché, sino a non molto tempo fa,
la gente di Biassa avesse Tramonti nel sangue, magari in un rapporto di
odio-amore: nel suo volto segnato dal tempo e dalla fatica si legge la
caparbia volontà, l’attaccamento a questa terra quasi a esprimere, se
ce ne fosse bisogno, più una scelta di rinuncia alla vita che a
Tramonti.
Cibi biassei
Il cou (cavolo nero) era
componente essenziale del cibo dei biassei
sino agli anni successivi alla seconda guerra mondiale.
Poteva essere usato con i fagioli e le patate per fare la zuppa con il
pane: un po’ di olio crudo, un poco di formaggio di pecora grattugiato,
un pezzo di salsiccia lessata assieme al cavolo e ai fagioli.
Era questo il menu tipico e più frequente delle famiglie di Biassa.
Oppure nel minestrone : qualche sbrüi
(cimetti) di cavolo, qualche
patata, fagioli secchi, taiaìn
(tagliatelle) fatti alla svelta nella
mastra con il canun dai taiaìn
(mattarello). Un paio di piatti di
questa minestra toglievano la fame e la voglia di mangiare il secondo
piatto che molto spesso non c’era.
La sera della vigilia di Natale era tradizione mangiare cavoli bolliti
accompagnati da frittelle di farina di grano.
Nei campi dove erano state raccolte le patate, rimanevano in bella
mostra queste verdi macchie di cavoli che dopo il primo freddo erano
pronti per il pasto quotidiano sino alla fioritura a primavera.
Pianta essenziale anche per i molteplici usi a cui era destinato: la
parte più tenera, il cuore, usata per la cottura e le grosse foglie più
dure erano usate quale cibo per gli animali da stalla e da cortile, che
quasi ogni famiglia possedeva. Le galline si accanivano contro di esse
con il becco, spezzettandole e ingoiandole golosamente; i conigli e le
pecore ne erano oltremodo golosi, anche se occorreva limitarne la
quantità per evitare i disturbi gastrici che potevano dare loro.
I ragazzini invece prendevano il torsolo e dalla parte più tenera dove
erano state tolte le foglie, con un coltello prelevavano la polpa,
bianca e sugosa per mangiarla. Un gusto dolce e dissetante.
Tanta ricchezza di impiego specialmente durante la cottura, portava
all’esalazione dell’odore sgradevole del cavolo bollito, per cui le
abitazioni erano quasi sempre invase da questa puzza, che talvolta però
ne mitigava altra più nauseabonda.
Era infatti costume avere gli animali nella stalla (come naturale) ma
la stalla era quasi sempre al pianterreno dell’abitazione e poiché i
solai erano generalmente di tavole, sono da immaginarsi le esalazioni
che passavano tra gli interstizi.
Altra abitudine era quella di avere sotto la finestra del locale
adibito a cucina un luogo chiamato, come a Tramonti, puzza, dove erano
sistemate foglie secche di castagno (che venivano trasportate in capaci
e particolari ceste, chiamate in dialetto ziste e altra stramaglia).
Sopra questo materiale, dalla finestra, buttavano di tutto: dall’acqua
sporca alle deiezioni corporali. Indubbiamente ne veniva fuori un buon
letame, ma in quanto a odori...!
Un altro cibo che ha sfamato per secoli la gente di Biassa è la
castagna. Un tempo i castagneti erano coltivati con grande cura e la
raccolta delle castagne aveva la stessa importanza della vendemmia e
della mietitura.
Seccate e macinate davano una farina utile tutto l’anno per sfamare le
famiglie del tempo, generalmente con numerosa prole.
Nell’autunno, fresche, tolta loro la buccia e bollite (burdeghi) o
“ballotte” con la buccia, erano un cibo calorico con cui si poteva
mangiare a sazietà.
Con la farina se ne facevano castignazi
(castagnacci) mettendo la
pastella tra le foglie secche poste precedentemente in ammollo e fatte
cuocere nelle braci. Oppure la polenta dolce, non troppo densa, da
mangiare con il cucchiaio.
Tutti cibi rustici, ma che toglievano la fame e facevano campare.
È sorprendente il numero dei mulini ad acqua operanti nel territorio di
Biassa. A poca distanza uno dall’altro, lungo il canale di Biassa e a
cominciare dalla località “Pradu”, ve ne erano ben cinque ed hanno
lavorato sino verso la fine dell’800 quando i lavori della sottostante
galleria ferroviaria fecero sparire le abbondanti sorgenti esistenti a
Biassa.
Infatti poco alla volta i mulini cessarono la loro attività ed ora sono
ruderi tra i rovi, meno uno che è stato trasformato in abitazione, nei
pressi delle ex fornaci di Biassa.
Il funzionamento di cinque mulini dimostra la grande operosità della
gente del posto e quanto poco pesasse loro il volontario isolamento
impostosi in tempi remoti.
Altri cibi abbastanza comuni della gente di Biassa erano lo stoccafisso
e il baccalà, generalmente erano preparati quando la famiglia aveva
persone a lavorare a giornata nei campi.
All’ora di pranzo, la donna arrivava nei campi con la “panea” sulla
testa, nella quale era riposto il grande piatto fondo dove il baccalà
(o lo stoccafisso) assieme alle patate era condito con olio, e i
fiaschi di vino.
Si sedevano per terra tutti intorno all’unico piatto dove intingevano
il pane e mangiavano insieme. Bevevano tutti allo stesso fiasco,; senza
bicchieri, chi poggiandolo direttamente alle labbra e chi, tenendolo
lontano beveva allo zampillo che scendeva (beve aa garganèla).
Non c’era cantina dove non fosse appeso ad una trave uno spesso baccalà
da cui il contadino staccava una striscia da mangiare con il pane,
accompagnando lo spuntino con possenti libagioni.
Lo scoglio Ferale
“Roca da Gaiada” per i biassei
o “Scoglio Ferale” per le carte
nautiche, è uno scoglio a tronco di piramide a un centinaio di metri
dalla riva, a Schiara, in mezzo al mare di fronte alla cosiddetta
“costa da Gaiada”.
Questa costa era coltivata fino sulla scogliera, ma una frana, nel
1970, partendo dal sentiero che porta al Rebolu, ha portato via tutti i
campi lasciando scoperta la viva roccia di arenaria. In tempi remoti
anche lo scoglio era collegato alla costa perché si vedono ancora parti
di roccia emergenti dal mare, chiamati “becheti”, a metà strada tra la
roccia e lo scoglio stesso.
La “Roca da Gaiada” è un po’
il simbolo di Schiara, come “er
Muntunau”
(il Montonaio) è la roccia simbolo di Monesteroli e il “Merlin”
(Merlino) la roccia della Fossola.
Una ingenua filastrocca accomunava i tre scogli circondati dal mare
alle tre località di Tramonti di Biassa.
“N sa roca da Gaiada
la ghe canta a lümaga;
’n sa roca der Muntunau
la ghe canta l’animau;
’n sa roca der Merlin
la ghe canta l’uselin”.
“Sulla roccia della Gaiada
ci canta la lumaca;
sulla roccia del Montonaio
ci canta l’animale;
sulla roccia del Merlino
ci canta l’uccellino”
La roccia più imponente è però quella di Schiara.
“Gaiada” da “Gaiarda” (gagliarda) come scoglio
possente che affronta
“gagliardamente” gli assalti del libeccio. Un monolite di nuda arenaria
alto una trentina di metri e con un perimetro a pelo d’acqua di un
centinaio di metri. Lassù in alto nidificano i gabbiani e vegetano radi
cespugli radenti il suolo a causa del vento che indicano il limitare
dei marosi nella loro massima potenza.
Già nelle antiche carte nautiche, questo scoglio è indicato come
“ferale”, forse perché il mare in tempesta gli sbatteva spesso contro
le navi in difficoltà. La leggenda narra di fuochi accesi da
malintenzionati sulla sommità per attirare le navi: una volta sugli
scogli erano alla mercè dei predatori.
Nel 1888, un cartografo della Marina Militare, durante alcuni rilievi
sullo scoglio, scivolò in malo modo, uccidendosi. Era un tenente di
vascello a nome Luigi Garavoglia. I compagni d’arme posero in sua
memoria, una croce di marmo bianco. Nel marmo era scolpita col piombo
la dedica: «Luigi Garavoglia, Tenente di Vascello, i compagni d’arme
posero 1888».
Questa croce, alta oltre due metri, tutta di un pezzo, era stata posta
alla sommità dello scoglio attraverso un complicato sistema di
verricelli di cui sono ancora visibili tracce. Pesanti blocchi, sempre
di marmo, erano stati messi alla base della croce per fissarla al suolo.
Il 13 giugno del 1982, a Schiara, come ogni anno si festeggiava la
ricorrenza della festa di “Santantunin”,
S. Antonio da Padova, nella
minuscola chiesetta a lui dedicata quando, improvvisamente scoppiò un
violento temporale. Dalla parte di mezzogiorno, si fece d’un tratto
tutto scuro e le nuvole vomitavano torrenti di acqua nel mare plumbeo
mentre lampi e tuoni laceravano il silenzio e lo spazio di Tramonti.
Quello dei temporali a Tramonti è uno spettacolo che incute paura, ma è
allo stesso tempo affascinante: i lampi si gettano in mare accompagnati
da brontolii o secchi rumori di tuono. Il giorno si oscura e folate di
aria fredda annunciano l’avvicinarsi della pioggia che, in basso,
sferza il mare fattosi miracolosamente fermo. Scuri nembi di nuvole si
abbassano toccando il mare e sollevano trombe di acqua marina, che
partono veloci andando a scaricare altrove la loro potenza.
Poi arriva la pioggia che si infrange, rumoreggiando, sui tetti delle
cantine, annulla la visibilità, ruscella, travolge: sovente si sente in
lontananza il caratteristico rumore delle frane o lo smottamento dei
muri.
Uno di questi temporali, quel 13 giugno 1982, lasciò il segno. Quella
croce di marmo che in quasi cent’anni ne aveva affrontato di temporali,
cedette e cadde sul lato verso il mare aperto.
Giacque a pezzi sulla scoscesa parete finché le mareggiate non ne
cancellarono definitivamente l’esistenza.
Passarono alcuni anni: la gente di Tramonti guardava con rammarico lo
scoglio monco, i gabbiani lanciavano i loro gridi volteggiando quasi a
reclamare la mancanza del loro più amato appiglio, finché, in seguito
ad alcune richieste per la sistemazione di un’altra croce sullo
scoglio, la Marina Militare si sensibilizzò al punto di farne costruire
una in acciaio inossidabile in Arsenale, che dopo essere stata
pitturata in bianco, fu posta a sostituire quella in marmo crollata tre
anni prima.
Le cipolle della “Ciosa”
È da presumere che i campi siti in località Ciosa, nei pressi di
Casavecchia, siano stati dissodati dai primi abitatori di Biassa,
quando ancora erano legati alle vicende dell’antica chiesa di S.
Martino Vecchio. È invece certo che essi sono stati lavorati sino alla
fine degli anni ’50 e piano piano dismessi completamente qualche anno
fa.
È una località ricca di acqua ma la maggior parte delle sorgenti erano
state incettate dall’azienda dell’acqua all’inizio del secolo per
alimentare le fontane pubbliche di Biassa.
Una parte di questa acqua correva però libera nel canale detto appunto
della Ciosa e i campi di
questa località erano coltivati quasi
esclusivamente a cipolle.
Quella delle cipolle faceva parte dell’arte di arrangiarsi della
popolazione biassea che sebbene fosse notoriamente chiusa, non perdeva
però occasione di rinpinguare lo scarso reddito famigliare commerciando
tutto quello che era possibile e che era richiesto dalla “ricca” gente
della Spezia.
Le cipolle della “Ciosa”
erano molto ricercate dai contadini dei paesi
vicini ed era un buon affare coltivarle. Questa coltivazione richiede
molta acqua per cui quella disponibile andava parsimoniosamente
utilizzata. C’erano dei veri e propri turni che permettevano a tutti di
avere l’acqua occorrente, anche se a volte durante lo svolgimento dei
turni, le discussioni sulla distribuzione dell’acqua degeneravano in
liti. Nel canale l’acqua riempiva il “bozo”
(laghetto), occorreva
allora attingere alla svelta per riempire i recipienti (baie di lamiera
zingata o anche di terracotta) e poi annaffiare i cipollini con la
sássua (aspersorio
di legno).
Ad ottobre i cipollini erano pronti per il trapianto ed allora venivano
raccolti in mazzetti e, messi in una cesta, le donne li portavano al
mercato per la vendita oppure si recavano a venderli nei paesi del
circondario.
Inoltre sino a molti anni dopo la fine della guerra, i biassei
commerciavano, oltre ai prodotti dei vigneti (uva, vino, aceto) anche
ciocchi di stipa usati per il riscaldamento delle “signorili” case
spezzine, pigne per accendere i caminetti, la terra di castagno ottima
per i fiori, castagne, mazzetti di rosmarino e timo di cui era ricco
Tramonti.
Nelle ceste delle donne trovavano pure spazio mazzetti di profumati
narcisi, che a Tramonti ornano le frane e i terreni abbandonati e di
violacciocche che i biassei chiamano “fiui
barchi”. Inoltre erano molto
richiesti dai fioristi mazzi di spargae
(asparagine), rami di armotùu
(corbezzolo) e felci secche che erano utilizzate per confezionare mazzi
di fiori o corone funerarie.
Nella ricorrenza delle feste natalizie erano richiesti rami con palline
rosse quali il pungitopo e l’agrifoglio.
La “Roccia dei disertori”
Tra il Lizzadèu e i Puzai, sopra la spiaggia dei Cantun, affiorava tra
il verde dei vigneti una roccia: la roccia dei disertori.
Ora i vigneti sono abbandonati, ma ai tempi della Prima Guerra
mondiale, i Puzai erano
coltivati sino nel più piccolo anfratto di
roccia. Non era raro a Tramonti, trovare piccole piane dove erano
piantate una o poche più viti e questi campi erano chiamati “fusiai”
perché paragonati ai focolari delle case.
La costa era talmente ripida che l’area del muro a secco di sostegno
del campo era di gran lunga superiore dell’area della piana che
sosteneva.
I gradini della scalinata che dal Lizzadèu,
attraversando i Puzai,
saliva sino a Rebui erano in
gran parte pietre piatte di arenaria
infisse nei muri cotti dal sole ed era oltremodo faticoso scendere o
salire per quelle scalinate. Figuriamoci poi con la corba piena d’uva o
le donne con la pesante cesta sulla testa!
Più sotto si stendeva il Lizzadèu,
abbastanza pianeggiante, con i
larghi campi e i muri più bassi che, con le Zése, confinava con il mare.
In uno di questi campi dei “Puzai”,
quasi al confine con il Lizzadèu,
vi era la cosiddetta “roccia dei disertori”.
Alla base di questa roccia, proprio al livello della piana delle vigne
vi era l’entrata di una grotta non tanto grande ma che poteva ospitare
alcune persone. Questa entrata era nascosta da un filare di viti che da
terra salivano aggrappate ad un reticolo di filo di ferro (paeda) sino
alla parte alta della parete rocciosa ed era perciò nascosta alla vista
di chiunque non ne conoscesse l’ubicazione.
L’utilizzo di questa grotta, prima della Grande Guerra, era quello di
servire da riparo ai contadini per proteggersi dalla pioggia o dal sole
durante i lavori nei campi. Il suo nome derivava dal fatto di essere
servita da nascondiglio per i soldati disertori.
Sebbene il fronte fosse lontano da Biassa, la guerra del 15-18, era
molto sentita dai biassei perché molti furono i suoi giovani che vi
parteciparono.
La durata e la durezza della guerra crearono malcontento tra di loro
tanto che molti non rientrarono più dalle licenze o convalescenze e si
diedero alla macchia. Alcuni si rifugiarono in questa grotta e attesero
la fine della guerra.
Erano ricercati dai carabinieri, che però non riuscirono mai a
rintracciare il loro nascondiglio.
I viveri erano riforniti dai parenti che con la scusa di andare a
lavorare nei campi ne profittavano per tenere i contatti con loro.
I giovani biassei che trovarono la morte in questa guerra così lontana
furono:
Carro Luigi di Francesco morto a Tolmino il 25 maggio 1917
Carro Domenico di Gio Batta morto a Drezenta il 12 luglio 1917
Carro Luigi fu Domenico morto a Missù il 23 novembre1917
Canese Attilio fu Domenico morto in Francia l’11 gennaio 1916
Gianardi Enrico fu Marco morto nel Trentino l’1 febbraio 1917
Gianardi Emilio fu Gaspare morto a Velipi Hnbasti l’11 ottobre 1916
Gianardi Adolfo fu Gio Batta morto in prigionia
Lombardi Armando di Francesco morto a Istretto Silsavosc il 12 luglio
1916
Lombardi Anselmo fu Gio Batta morto a Podgora il 6 agosto 1916
Poli Riccardo fu Riccardo morto in prigionia.
Squadristi a Biassa
Era il 14 dicembre del 1922. Da oltre un anno gli squadristi fascisti
bastonavano e uccidevano inermi cittadini solo perché di opinione
diversa.
A Biassa l’antifascismo era molto radicato. Infatti è stato l’ultimo
paese della provincia ad essere conquistato dagli squadristi. Avevano
provato più volte, ma le campane a martello avevano fatto accorrere
tutta la gente del paese facendoli battere in ritirata.
In seguito l’avevano purtroppo fatta pagare questa loro sconfitta!
Dopo avere fatto proseliti a Biassa, i fascisti avevano bastonato e
fatto bere l’olio di ricino ai loro avversari, tanto che, per sottrarsi
alle bastonature e soprusi era iniziato un massiccio esodo verso la
Francia.
Era stata talmente forte questa migrazione che erano nate vere e
proprie colonie di biassei fuoriusciti. La Ciotat, St. Raphael e
Frejus, cittadine del sud della Francia avevano dato loro asilo tanto
che oggigiorno numerosissimi sono i discendenti dei biassei colà
rifugiatisi.
Nel piccolo porto di La Ciotat, non sono trascorsi molti anni da
quando, transitando sul lungomare, si sentiva la gente del posto
discorrere in dialetto biasseo.
Era il 14 dicembre del 1922, dunque. Era una giornata fredda e nei
campi di Schiara non c’era quasi nessuno a lavorare anche perché si era
avuto sentore che una banda di squadristi si stava recando a Schiara e
la paura per questi figuri era talmente tanta che consigliava la gente
a restare nascosti.
Nella mattinata si erano avute le prime avvisaglie quando cantando le
loro truculenti canzoni, una parte di quella gentaglia guidata dagli
squadristi di Biassa si era recata all’Agreta
nella cantina di Lombardo
Oreste, detto Rinaldo, di Pietrò, che era stato sino
all’avvento del
fascismo consigliere socialista del comune della Spezia e quindi
considerato nemico da eliminare.
Il Lombardo si trovava a Tramonti ma sentendoli arrivare si era andato
a nascondere assieme ad alcuni vicini di casa nel vicino bosco del
Luvau.
Non trovandolo in casa, i fascisti, per ritorsione gli sfondarono la
botte piena di vino e, rotte le damigiane del rinforzato, diedero fuoco
alla casa.
Nel frattempo però erano già successe cose che la gente che si trovava
a Schiara non poteva ancora sapere.
Certo Carmè Francesco, detto Rana,
di Biassa, di 27 anni, figlio di
Luigi e di Lombardo Barbara, detta Barbuina,
era notoriamente
antifascista e i fascisti volevano fargli pagare cara questa sua
opposizione.
Lo stavano cercando da più giorni ed egli, avendolo saputo, aveva
deciso di riparare in Francia, come lo avevano già fatto tanti suoi
compaesani. Era un giovane, reduce della Grande Guerra, ferito nella
ritirata di Caporetto. Per farsi riconoscere una invalidità dovuta a
quelle ferite, doveva quel giorno recarsi presso la commissione medica,
istituita a Genova.
Sapendo di essere ricercato, anziché salire sul treno per Genova alla
stazione della Spezia, preferì recarsi a Riomaggiore. I fascisti lo
seppero, lo prelevarono e lo portarono alla Spezia. Non contenti della
sua cattura, vollero portarlo con loro a Schiara dove contavano di
catturare pure il Lombardo.
Arrivarono al Telegrafo in tempo per vedere i cavatori di Biassa che
salendo da Vaisèla si
recavano a lavorare nelle cave del Parodi e ne
bloccarono alcuni che portarono con loro. Fallita, dunque, la
spedizione contro il Lombardo (che uccideranno in seguito bastonandolo
a morte e gettandolo in una scarpata a Pegazzano il 31 maggio del 1930)
presero la via del ritorno, sempre con il Carmè prigioniero e non paghi
della distruzione della cantina di poco prima, si recarono nella
casetta che il Carmè aveva in località Vignöi.
Qui tra la confusione generale, spari, grida, canti, si accanirono sul
poveretto massacrandolo di colpi e lo legarono alla scala di legno in
casa.
Intanto uno degli squadristi torturatori, certo Eraldo Cozzani, figlio
di Giulio, studente universitario di 21 anni, si era involontariamente
ferito con un colpo di moschetto partito mentre, tenendolo per la
canna, colpiva col calcio Francesco Carmè.
Il segretario politico del Fascio della Spezia Augusto Bertozzi,
presente alla spedizione punitiva, inviò uno dei numerosi fascisti di
Biassa presenti, a prendere la lettiga nella Pubblica Assistenza di
Biassa, che ritornato con una squadra di militi, portò il Cozzani
all’Ospedale della Spezia.
Il Carmè era ancora vivo.
Partito il ferito, e non ancora contenti, i fascisti rimasti si
sparpagliarono nei campi intorno alla casa alla ricerca di legna.
Trovarono fasci di sarmenta e di paletti che erano utilizzati dai
contadini per il sostegno delle viti e li sistemarono intorno al povero
Carmè.
L’orrore!
Diedero fuoco a quei paletti asciutti che si accesero come paglia:
bruciarono vivo Francesco Carmè, soltanto perché non condivideva le
loro idee!
Sei mesi dopo questo crudele delitto, altro sangue, altri massacri.
Il 7 luglio 1923 tre giovani biassei, cavatori di professione,
antifascisti per scelta politica, decisero di aprire una cava di pietra
calcarea in località Redemè.
La sera prima, nell’osteria sulla piazza del paese si accordarono
sall’orario di partenza e decisero di festeggiare l’apertura della cava
con del buon vino di Tramonti e lo stoccafisso.
I tre giovani si chiamavano Umberto Faita, Emilio Gianardi e Eugenio
Carmè, fratello di quel Francesco assassinato il 14 dicembre dell’anno
precedente.
Partirono presto sul far dell’alba, portando con loro il cibo, il vino,
alcuni attrezzi da lavoro e l’entusiasmo dei giovani per il primo
giorno di lavoro in proprio.
Dal Sarecchio il sentiero si inoltra dapprima, sino al canale detto
della Piaza, in mezzo ai
castagni, poi dopo una breve salita inizia
l’altra parte di sentiero tutto pianeggiante sino alla Costa da Piaza.
A quel tempo tutta la parte del Parodi lato Biassa, al di sotto della
Pianela era coltivato: Piaza sutana, Piaza de mèzu, Piaza d’usèu (Piaza
d’uccello) sù in alto.
Tutte queste località erano coltivate principalmente a grano: una terra
rossa, friabile, di facile lavorazione.
Al di là della Costa da Piaza,
che era al confine, iniziava Redemè
il
cui sentiero continuava sino alla Foce. Nella zona più pianeggiante vi
erano pure alcune casette costruite sullo stile delle cantine di
Tramonti. In questa zona molto soleggiata, l’uva rivaleggiava con
quella di Tramonti sia per la maturazione che per la bontà del vino.
Da Redemè scendeva una ripida
scalinata di pietra che arrivava nei
pressi delle Fornaci di Biassa.
Quel mattino di luglio, i tre giovani arrivarono alla Costa da Piaza
prima che i raggi del sole uscendo dalle Alpi Apuane si posassero sulle
mura semidiroccate del Castello di Coderone sul poggio nel bel mezzo
della conca formata dal Santa Croce e dal Parodi. Biassa, ancora
assonnata, udì numerosi colpi di arma da fuoco: Umberto Faita e Emilio
Gianardi colpiti a morte stramazzarono tra le bianche rocce di calcare
che affiancano il sentiero. Eugenio Carmè cercò di scappare, ma fu
mortalmente ferito in uno dei piccoli campi coltivati a vigna di fianco
al sentiero che in quel punto scende.
L’agguato mortale dei fascisti aveva raggiunto il suo scopo. Gli altri
dovevano stare attenti...!
Sentendo gli spari e intuitane la provenienza, i famigliari delle
vittime immaginarono il peggio e si recarono sul posto assieme ad altre
numerose persone, dove trovarono dapprima i corpi senza vita del Faita
e del Gianardi. Fra gli accorsi c’era pure la Barbuina a cui i fascisti
avevano già ucciso un figlio.
Non lo vide dapprima ma l’illusione durò poco. La poveretta, dalla
disperazione si portava alla bocca l’erba e la terra intrisa di sangue
come se quel gesto potesse ridare la vita al figlio.
Nel primo processo che seguì la strage, presso gli Uffici Giudiziari
della Spezia, i famigliari delle vittime erano assistiti dall’avv.
Filippo Guerrieri (che in seguito sarà deputato alla Costituente).
Dovendo recarsi alla stazione della Spezia per prendere il treno per
Genova, dove abitava, fu bastonato duramente dai fascisti e gettato sul
treno. Il processo proseguì presso la Corte d’Assise di Chiavari ma i
colpevoli non furono mai condannati.
Tragica sorte quella dei Carmè: il terzo fratello, Emilio, mori
combattendo nella Resistenza Francese.
A Liberazione avvenuta, una lapide venne murata sulla Piazza del
Monumento (poi fatta togliere) che ricordava i caduti dell’ultima
guerra, su cui era scritto:
Barbaramente trucidati dai fascisti:
Carmè Francesco, Carmè Eugenio, Gianardi Emilio, Faita Domenico,
Lombardo Oreste.
Morti per la Liberazione:
Carrodano Mario, Carro Domenico, Arienti Egidio.
Morti per bombardamenti aerei:
Bertani Giovanni, Cidale Luigi, Callegari Enrico, Gianardi Antonio,
Bertani Agostino,
Cidale Plinio.
Caduti per la Patria:
Sommovigo Nando, Carrodano Ianello, Melli Leandro, Gianardi Adriano.
Caduti in terra di Francia:
Gianardi Ugo, Carmè Emilio, Carrodano Italo.
Deceduti per cause belliche:
Cidale Luciano, Carrodano Natale.
Il sale di Tramonti
Gli anni dell’ultima guerra sono stati duri a Biassa e Tramonti. I
giovani,tenuti sotto controllo dalle forze armate tedesche e
incorporati nella TODT, erano costretti a costruire strade e altre
opere di interesse militare per gli occupanti. Ricevevano per questo
una paga e qualche viveri, specialmente di quel pane tedesco scuro
fatto col segale.
Riuscivano a campare, ma gli altri Biassei dovevano tirare la cinghia
viste le scarse risorse che si trovavano sul luogo e con quelle razioni
che ricevevano con la tessera annonaria, c’era da stare poco allegri.
La fame aguzza l’ingegno, dice un vecchio adagio.
Ed ecco, allora, che qualcuno pensò così: nel mare c’è tanta acqua
salata, nell’Emilia hanno cibo e gli manca il sale. Ricaviamo il sale
dall’acqua del mare, lo portiamo nell’Emilia e facciamo scambio della
merce: a loro il prezioso sale a noi di che toglierci la fame!
Così fecero. Come altri spezzini, anche i Biassei si diedero da fare
per ricavare il sale dal mare.
Con lamiere costruirono delle capaci vasche, non alte ma di grande
superficie che riempivano di acqua marina e mantenendo il fuoco sotto,
il calore faceva evaporare l’acqua e lasciava il sale.
Era un lavoro lungo e per lo più avveniva sulla spiaggia perché
risultava più agevole trasportare il poco sale che l’acqua salata
occorrente alla trasformazione.
Qualcuno ripiegava sulla seconda soluzione e trasportava l’acqua dentro
i baisèi (barilotti di lamiera), costruiti appositamente oppure con i
barili dove trasportavano il vino e salivano con il pesante fardello
per i settecento gradini occorrenti per arrivare alle cantine e
ricavare poi un pugno di sale.
D’altra parte chi ricavava il sale al mare era costretto a trasportarvi
la legna occorrente per il fuoco. In un caso o nell’altro era una
fatica improba.
Iniziarono con il tagliare i boschi più vicini al mare, poi i boschi di
proprietà più lontane ed infine i boschi comunali. In poco tempo le
alture intorno a Tramonti diventarono prive di alberi, trascinati a
fatica nei luoghi di produzione del sale.
Il trasporto avveniva a spalla o trascinando e strisciando i tronchi
per canaloni sino al mare. Non era certamente agevole scendere per
quelle terribili discese, con gradini alti 50-60 centimetri e con pesi
che superavano i 50 chilogrammi! Fatica ricompensata con qualche pugno
di sale.
Ma tutto questo era poca cosa rispetto alla successiva fase per
ottenere di che sfamarsi. Infatti, ottenuta una certa quantità di sale,
si mettevano assieme più persone che con il loro sacchetto di sale
partivano con un carro trasportato a mano per raggiungere la lontana
Emilia per fare il baratto.
Erano viaggi lunghissimi attraverso pianure e montagne, nell’acqua e
nella neve in inverno o nel caldo dell’estate, viaggi disagiati e
pericolosi. Si dovevano spingere per i tornanti del Cerreto o della
Cisa quei carretti costruiti artigianalmente, con i cerchioni di ferro,
per strade dissestate dalla guerra, con i tedeschi che mal tolleravano
questo traffico e che ogni tanto lasciavano partire qualche raffica di
“parabellum”, con il rischio che qualcuno si impossessasse del carico,
con l’ignoto davanti e la paura del ritorno e dopo giorni di fatica,
fame e paura, dormendo nei casolari abbandonati, accanto al sacchetto
del sale, arrivavano a destinazione con il carretto e il suo povero
contenuto.
Reggio Emilia, Collagna, Parma, ... Lì sembrava che la guerra fosse
lontana e la fame una disperazione mai provata.
Erano buoni gli emiliani e nel breve periodo che durava lo scambio
delle merci, dividevano con gli stanchi e affamati biassei le loro
pietanze e un letto per dormire.
Poi, caricato il carro di grano, farina, occorreva affrontare il
ritorno, il duro ritorno. Con il carro carico era ancora più lento il
cammino. Più faticose le salite tanto che a volte occorreva dividere il
carico e fare due volte la stessa salita. Il pericolo di vedersi
sequestrare la merce era sempre presente. Spesso erano costretti, per
poter passare un blocco,a lasciare ai militari o ai partigiani un sacco
di farina od altro.
Stremati dalla fatica, laceri, sporchi, arrivavano finalmente a
Pegazzano.
Ormai si sentivano a casa e, anche se l’ultimo tratto di strada non era
tra i più agevoli, si consolavano al pensiero che lassù c’era la
famiglia che aspettava e, finalmente, per qualche tempo sarebbe sparito
lo spettro della fame.
I delitti di “San Zane”
Nei paesi limitrofi e in città, Biassa era considerato un paese dove
l’odio e le passioni la facevano da padrone. Ed era vero: odi che
nascevano per semplici questioni di confine, servitù di passaggi,
vendita di piccoli appezzamenti di terreni; ragioni di interessi e che
facevano ingrassare gli avvocati. A volte questi odi davano il via a
vere e proprie faide con reciproci dispetti e che talvolta sfociavano
in tragedie.
S. Giovanni Battista era una solennità religiosa festeggiata a Biassa
con grandi fuochi che venivano accesi in ogni quartiere. Ognuno di
questi gruppi di case confinanti, aveva la sua aia, dove a luglio
venivano trasportati i fasci di grano per essere “battuti”. La
battitura era fatta con bastoni snodati e le donne separavano il grano
dalle impurità con il vallo.
Su queste aie (àa Grande, àa de S.
Rocu, àa du Deghiun, àa da Pinela,
àa der Bale, àa de Zan, àa der Gropu), venivano accesi i fuochi.
La preparazione di questi fuochi era lunga e faticosa. Per diversi
giorni giovani e ragazzi di ogni “contrada” andavano nei dintorni a
raccogliere quanto più possibile legna di sottobosco, trascinare mucchi
di rovi e tutto quanto potesse alimentare le fiamme
La sera del 24 giugno 1921, verso le undici di sera, mentre il paese di
Biassa era ancora illuminato dai bagliori di questi fuochi e la gente
si attardava più del solito fuori casa, uno di questi odi tra famiglie
era prossimo a consumarsi in maniera tragica.
Un giovane di diciannove anni, Mario Lombardi di Domenico detto Zigaia,
sembra per ragioni di gelosia ma certamente unite a motivi di screzio
tra le due famiglie, inseguiva, per ucciderlo con una pistola, il suo
coetaneo Orlando Carrodano detto Lintana.
Arrivati nei pressi di uno di questi fuochi, sull’“aa der Bale” al
termine della scalinata di via dell’Ospedale, il Lombardi, sembra
addirittura istigato ed aiutato dal padre Domenico, premeva
ripetutamente il grilletto della pistola colpendo il Carrodano al lato
destro del petto, ferendolo gravemente.
Su una terrazza prospiciente il fuoco, stavano alcune persone tra le
quali una ragazza di diciannove anni, Alba Gianardi, che, vittima
innocente, fu colpita al collo da uno dei colpi sparati dal Lombardi.
Tale era il trambusto che nessuno si accorse della giovane Alba, tanto
che il padre Domenico, detto Già,
era andato a soccorrere il Carrodano
ferito ed anzi si era adoperato, assieme ad altri, a trasportarlo
all’ospedale.
Al suo ritorno la tragica sorpresa della morte della figlia!
Mario Lombardo, dopo la sparatoria, si era dato alla fuga, ma sembra
sia stato presto preso da alcuni dei suoi paesani a Tramonti e qui sia
stato picchiato e seviziato a morte. Consegnato ai carabinieri e
trasportato all’ospedale vi morirà la mattina del 26.
I giornali dell’epoca hanno dato un’altra versione dei fatti scrivendo
che dopo l’arresto da parte dei carabinieri, il Lombardo mentre
attraversava il paese di Biassa, ammanettato, fu colpito da un colpo di
pistola sparato dalla folla che assisteva assiepata lungo la strada al
suo passaggio e un anonimo giornalista retoricamente annotava: “E così
finisce per l’uccisore della povera Gianardi la tragedia che a causa
della sua sete di sangue funestò le alture di Biassa ridenti al mare ed
al cielo con i pampini dorati e sussurranti al vento nelle brune fronde
degli oliveti.”
Altri delitti
Chi sale da Pegazzano, a metà della scalinata tra casa Cuffini e
Biassa, in località Begaina,
troverà a margine della scalinata un cippo
in ricordo di Salvatore Sommovigo di anni 26, qui assassinato nella
prima mattinata del 10 aprile del 1922 mentre si recava al lavoro alla
Spezia quale scaricatore di carbone.
Una rapida indagine del maresciallo Contro, comandante i carabinieri
della suburbana di Biassa, individuò in Domenico Lombardi di anni
venti, l’assassino. Anche qui ad armare le mani del Lombardi sembra sia
stato l’odio tra le due famiglie.
Il Lombardi riuscì ad espatriare in Francia e lì restò sino alla
prescrizione del reato.
Alcuni anni dopo, il 26 ottobre del 1926, un altro fatto di sangue
colpì la famiglia del giovane Sommovigo ucciso nella Begaina.
Doveva essere un giorno come tanti altri: dopo una giornata di lavoro a
Tramonti, Giovanni Gianardi di sessanta anni, cognato del Sommovigo,
assieme al figlio Enrico e alla nipotina Olimpia Sommovigo, figlia
dell’assassinato di quattro anni prima, di anni dieci, salivano da
Schiara, dove il Gianardi aveva la cantina, per fare ritorno a Biassa.
Generalmente in quel periodo, nei campi di Tramonti, si potano le viti
e si mettono a dimora le sementi di fave per poter raccogliere il
frutto in anticipo, nel mese di aprile.
La partenza da Tramonti avveniva quando il sole, al tramonto si trovava
all’altezza di “una canna” dall’orizzonte per arrivare a Biassa quando
l’imbrunire colorava di scuro gli antichi muri scrostati delle case.
Erano i tempi in cui il fascismo armava le mani dei più esagitati e
violenti: guai ad essere considerati rossi sovversivi ma guai anche ad
avere motivi personali di astio nei loro confronti!
Quella sera, nella parte alta dell’Agreta,
dopo la curva dove inizia il
rettilineo che sale al Canpudònegu,
l’agguato: tre persone poi
individuate e successivamente processate e condannate, armati di
pistola, spararono uccidendo Giovanni Gianardi e ferendo i due
congiunti che erano con lui.
Il figlio Enrico, sebbene fosse ferito ad un occhio (che perderà) e al
ventre riuscì a scappare e a sottrarsi così alla morte mentre la
piccola Olimpia fu ferita da un proiettile alla gamba destra.
Uno dei tre partecipanti all’agguato, Giulio Natale, detto Giüla,
squadrista della prima ora, si diede alla macchia e ricercato dai
carabinieri per questo delitto, fu rintracciato al Mesco due anni dopo
dove in un conflitto a fuoco rimase ucciso, riportando ben 12 ferite al
petto: erano le 2,30 del 2 maggio 1928.
Dal Mesco, su un carro trainato da un cavallo fu trasportato a Biassa.
Giunto a destinazione, sulla strada prospiciente il piazzale della
chiesa, il cavallo cadde a terra, morto sul colpo.
La chiesa di S. Martino
Nel 1937 l’artigiano Eugenio Carro, detto Bigiola, della Spezia eseguì
il restauro della chiesa di S. Martino nuovo di Biassa su progetto
dell’ing. Antonio Raspolli Galletti, funzionario dei Lavori Pubblici
del Comune della Spezia. Sovrintendeva invece i lavori di ordine
artistico e archeologico il Prof. Ubaldo Formentini.
Parroco era Don Cesare Buonaventura Giannini, a Biassa dal 1927.
Questo prete era benvoluto dalla gente di Biassa. Chi lo ha conosciuto
dice di lui che «era venuto con gli zoccoli ai piedi ed è andato via
scalzo» come a indicare la sua onestà e povertà in un paese di poveri.
Partì con la sorella (che viveva con lui) il 3 luglio 1946 per
ritirarsi dalla vita ecclesiale in una casa di cura religiosa a Genova.
Ubaldo Formentini, autorevole studioso di cose spezzine, fa risalire la
costruzione della chiesa di S. Martino nuovo alla fine del XV secolo
quando furono aggiunte le attuali tre navate ad un più antico oratorio
dedicato a S. Giacomo.
Le imprecisate datazioni sono dovute alla unicità della costruzione che
non ha riscontri in alcun modello e che fa ritenere che, sia l’oratorio
sia la successiva chiesa, siano opere d’arte popolare costruite dai
tagliapietra locali e quindi difficilmente databili.
L’opera di ripristino di Eugenio Carro era tesa a riportare all’origine
popolare la chiesa, togliendo i rimaneggiamenti dei secoli precedenti.
Infatti tolse l’intonaco alle sei possenti colonne riportandole
all’originaria arenaria scalpellinata; scoprì nell’arcata dell’abside
(che anticamente apparteneva all’oratorio) pietre affrescate con motivi
floreali; riportò il tetto all’originaria semplicità.
Lo aiutava l’ancor giovane figlio Guglielmo che poi diventerà
apprezzato Maestro di pittura e scultore. Già a quel tempo impreziosì
la chiesa con due sue opere di scultura: “I Santi Quattro Incoronati” e
“S. Enecone”.
Non si sa come sia giunto il culto di questi quattro santi scalpellini
ma certamente furono adottati da una parte di quel popolo di
scalpellini biassei operanti nelle cave del paese.
Già prima del ’900 la fabbriceria della chiesa di S. Martino era
chiamata “dei Santi Quattro”.
La credenza cristiana racconta che Severino, Saveriano, Carpoforo e
Vittorino, scalpellini cristiani in epoca romana, furono martirizzati
per non aver voluto eseguire statue di deità pagane.
Carro ne fa un gruppo marmoreo che sarà esposto e premiato alla
rassegna spezzina della mostra sindacale del 1936 e in seguito
sistemata sull’altare di destra della chiesa di S. Martino.
Sempre di quel periodo è la statua di S. Enecone, abate dell’Abbazia di
Burgos in Spagna.
Il pino
Il pino era lassù. Figlio legittimo, autoctono, della Liguria. Sfidava
il libeccio che gli si ingolfava, violento, tra i rami facendolo gemere.
Piegava al suo passaggio la chioma, poi ritornava dritto e, audace,
sfidava l’altra rafala.
Sotto di lui la frana, l’immensa frana che minacciosa avanzava
impaurendo gli arditi contadini della Fossola che per prima cosa, al
mattino, controllavano che il pino fosse sempre al suo posto, perché la
sua presenza significava che la frana era in “sonno”.
Il Pinus pinaster era proprio al confine col ripido scoscendimento
della frana: giù in basso sino ad un paio di anni fa c’era una graziosa
spiaggetta, il Mainello, proprio di fianco a Punta Merlino con
l’omonimo scoglio prospiciente. Ora un immenso cono di detriti l’ha
sommersa e la fresca ferita sembra sia trattenuta all’apice dalle
radici di questo pino indomito. Poco più sopra, le case della Fossola
con la minuscola bianca chiesetta degli Angeli Custodi.
In altri tempi un polpo salvò Tellaro dalle incursioni moresche facendo
suonare con i suoi tentacoli la campana della chiesa: sarà che oggi un
vigoroso pino marittimo tenti di salvare la Fossola con i tentacoli
delle sue radici? No, purtroppo. “Il pino si è abbassato di alcuni
metri”, dicevano.
Povero pino!
Passa altro tempo.
“Si è inclinato verso il mare, segno che la frana è in movimento!,
esclamavano addolorati i “Guardiani del pino”.
Resisti, pino!
Intanto, giù in basso, i marosi portavano via il materiale ai piedi
della frana.
Per il pino era oramai questione di tempo: aveva capito che non ce
l’avrebbe fatta a fermare la frana.
«Addio fresca brezza del mattino, addio vento impetuoso che lasciavi
attaccato ai miei rami il profumo della salsedine e portavi verso
l’alto il solfureo polline che lasciavo andare al tuo contatto!»
Pensò sconsolato agli uccelli migratori che, stanchi,si posavano sui
suoi rami; ai falchetti che giornalmente gli facevano visita; all’amico
pettirosso che vedeva ridursi il suo territorio senza poter fare nulla.
Finché una mattina, quando arrivarono i guardiani del pino e lo
cercarono con gli occhi, non lo videro più.
Era successo tutto nella notte tra il 6 ed il 7 gennaio 1997.
Un’altra porzione del territorio di Tramonti era sparita e il povero
pino era rotolato per il ripido pendio assieme a grossi massi e
terriccio.
Ciò che rimase di lui dopo tanto fracasso, finì tra le onde del mare in
burrasca senza lasciare alcuna traccia di se.
Capea
L’arrivo dei missionari a Biassa era un avvenimento, per questo paese,
nascosto dalle brume e dai castagni nell’ampia conca tra il monte Santa
Croce e il monte Parodi. Era parroco del popoloso borgo Don Gianninie i
tre missionari erano giunti a Biassa per dare il loro aiuto al prete di
questa parrocchia per cercare di portare sulla retta via i fedeli in
odore di peccato, vista la loro indole di attaccabrighe, i quali
certamente non avrebbero porto l’altra guancia, seguendo gli
insegnamenti della chiesa.
I ragazzi facevano a gara per andarsi a confessare da questi religiosi,
poiché provavano vergogna ad andare a confessare i loro innocenti
peccati a Don Giannini, che li conosceva bene.
Sebbene non fossero più i tempi bui dell’isolamento, Biassa era pur
sempre considerata dai “foresti” (era per i Biassei “foresto” chi
viveva al di fuori del paese) un paese retrogrado, di cui si
raccontavano favole di ogni genere.
“San Martin i sta chi ’n zima”
dicevano quando volevano offendere il
biasseo, alzando il pugno chiuso con l’indice ben steso ad indicare in
modo significativo la provenienza montanara, ed identificando in San
Martino (patrono di Biassa) il paese stesso.
Si era a ridosso della seconda Guerra Mondiale, e per i ragazzi di
Biassa erano poche le possibilità di divertimento: su un lato della
scuola esisteva una scarpata di terra compatta e argillosa adatta per
gli scivoli. I ragazzi dopo averla resa scivolosa con provvide
pisciate, rovinavano a valle accucciandosi su un piede e tenendo
l’altra gamba stesa. Il più delle volte però, dato il precario
equilibrio, a farne le spese era il loro fondoschiena, con relativo
inzaccheramento dei pantaloni e successive botte dei genitori, che
vedevano arrivare a casa i figli ridotti in pessime condizioni. Di
fronte alla scuola passava la strada che conduceva ai forti Bramapane e
Parodi per poi ricongiungersi con l’Aurelia alla Foce. Per un breve
tratto subito dopo la scuola questa strada costeggiava il canale della
Costa, così chiamato per il gruppo di case alle spalle della scuola su
in alto: la Costa appunto.
Con la poca acqua che vi scorreva, che a quel tempo era abbastanza
pulita, serviva ai ragazzi per costruirvi i “bozi” (laghetti) oppure ad
un altro crudele passatempo: la cattura delle lucertole. Questo
avveniva con piccoli e improvvisati “lazos” fatti con i “pavei” (lunghi
fili d’erba): una volta riusciti a fare entrare la testa della
lucertola nel cappio, un leggero strappo la imprigionava ed era quindi
catturata. Ciò succedeva specialmente quando la lucertola si crogiolava
al sole primaverile sulle pietre dei muri del canale ed era meritevole
di ammirazione chi riusciva a catturarne il maggior numero.
I Padri erano venuti a Biassa nella ricorrenza delle feste pasquali e
siccome secondo i precetti della chiesa e di Don Giannini occorreva
“comunicarsi almeno una volta all’anno, a Pasqua”, nell’imminenza di
questa festività era d’obbligo confessarsi per poter prendere la
comunione. Sul lato sinistro della navata della chiesa di S. Martino,
vi è un confessionale di legno scuro con una grata e un
inginocchiatoio. L’entrata del confessionale era nascosta da una
pesante tenda scura. Un ragazzo, Mario Natale, detto Capea, figlio di
Ernesto di Barbeta, si
avvicinò al confessionale alla vigilia di Pasqua
e inginocchiatosi di fronte alla frata cominciò a confessarsi con il
padre missionario che all’interno ascoltava gli innocenti peccati che
il ragazzo snocciolava alle sue domande.
«Ho ammazzato delle “leciore”
nel canale dell Costa», confessò ad un
tratto. Lucertola in biasseo si traduce in “lesua”, da lui
italianizzata in “leciora”.
Nel sentire questo peccato, che secondo il confessato contravveniva al
quinto comandamento “non ammazzare”, il confessore si affacciò fuori
dalla tenda che lo nascondeva, curioso di vedere chi fosse quel ragazzo
che confessava quei “delitti”.
Il Padre aveva una folta barba nera e nero era il vestito che si
intravedeva; Mario a quella vista sgranò tanto d’occhi e spaventato
dalla improvvisa apparizione, scappò dalla chiesa gridando: “al
diavolo! Al diavolo …!”
Il piccolo gabbiano
Mi piaceva approdare sulla “Roca da
Gaiada”. A volte la raggiungevo a
nuoto, a volte con una piccola barca a remi. Quel giorno arrivai allo
scoglio con la barchetta che ormeggiai e, a fatica, traballando con i
piedi nudi sulla roccia resa tagliente dal mare e irta di denti di
cane, mi avviai verso la sommità dove ancora c’era la grande croce di
marmo. Sul versante del mare aperto si può accedere alla croce seguendo
un ripido sentiero appena tracciato. Sulla cima della roccia era stato
creato un piccolo pianoro completato con dei mattoni. Salivo volentieri
lassù, perché da quel punto si vede il mare azzurro e scintillante di
luce argentata, creata dal rifrangersi dei raggi del sole. Verso terra
invece le macchie scure degli scogli sommersi, il luccichio dei pesci
che, intorno ai “becheti”
(chiamati così per le punte che emergono
dall’acqua) cercano cibo tra le cozze che ricoprono questi due scogli.
Di fronte la costa: una parete che arriva sino al cielo e che sovrasta
la spiaggia dei Cantun e la
scogliera della Gaiada.
Il marmo bianco ricoperto di bianchi escrementi lasciati dai gabbiani,
che amano sostare sulle braccia della croce. Pigramente se ne vanno mio
arrivo. Una spruzzata di arido verde sul lato di levante dello scoglio
e proprio ai miei piedi un batuffolo di cotone. Un piccolo gabbiano
appena uscito dal nido, che mamma gabbiano aveva costruito sulla
sommità della roccia.
Lo prendo tra le mani per accarezzarlo e lo accosto al petto, ma uno
stridio acuto, improvviso nel silenzio, mi fa accapponare la pelle:
alzo gli occhi e vedo un gabbiano volteggiare in alto sopra di me.
Emette altre grida e accorrono altri gabbiani. Poso il piccolo per
terra, ma altri gabbiani arrivano stridendo.
Sopra la mia testa, nel giro di pochi attimi, volteggiano decine di
gabbiani con ampi giri, con stridii assordanti. Ho paura.
Calano in picchiata sopra di me quasi a volermi beccare. Scendo
velocemente rischiando di ruzzolare. Mi accompagnano sino alla barca.
Mano ai remi, fuggo dallo scoglio con i gabbiani vocianti sopra di me.
Mi abbandonano finalmente a metà strada tra lo Scoglio Ferale e lo
Scau, l’approdo di
Schiara.
Giuro, non toccherò più un piccolo di gabbiano!
I trabocchetti
A causa dell’abbondanza di musculi, la “Roca da Gaiada” è sempre stata
presa d’assalto, per raccogliere il pregiato mollusco, sia dagli
abitanti di Tramonti sia di altre località, in special modo da quelli
di Riomaggiore.
Con quelli di Riomaggiore, già da lungo tempo, i Biassei avevano il
dente avvelenato.
Sino al secolo XIV, Riomaggiore era partecipe con Carpena e Biassa,
alla stessa “Communitas” sul monte Verrugoli. La chiesa di San Martino
Vecchio aveva tre porte: da una di queste accedevano i fedeli degli
insediamenti da cui nascerà Riomaggiore; le altre due erano destinate
ai Biassei e agli abitanti di Carpena. Come documento storico del
profondo legame tra le due comunità, nella chiesa di S. Giovanni
Battista a Riomaggiore, costruita intorno al 1340, è visibile ancora
nel parapetto del pulpito, un bassorilievo raffigurante S. Martino,
proveniente dall’antica chiesa sul Verrugoli.
Quando da Lemen, Zericò, Casinagora
gli abitanti scesero al mare e alla
foce del Rio Major, crearono l’attuale abitato di Riomaggiore,
iniziarono le diatribe con Biassa su questioni di confine e di
proprietà un tempo in comune oppure per interessi riguardanti le tasse
da pagare su queste proprietà. Iniziò così un astio protrattosi sino ai
nostri giorni.
A Tramonti i riomaggioresi arrivavano con i loro gozzi per raccogliere
i muscoli sullo Scoglio Ferale, che poi utilizzavano sia come cibo, sia
come esca per le nasse. Oltre ad essere viticoltori infaticabili erano
anche abili pescatori, per cui si fermavano a pescare nel mare di
Tramonti ricco di pesce, ma mal sopportati dai Biassei, venivano spesso
cacciati a sassate, urla ed improperi. Al contrario i pescatori delle
Grazie e di Porto Venere avevano instaurato con i Biassei un amichevole
rapporto di piccoli scambi: in cambio di pesce fresco davano loro uva o
qualche fiasco di vino. Nelle mattinate estive di mare piatto e nel
silenzio assoluto del luogo, salivano in alto sino alle casette le
brevi grida dei pescatori che annunciavano la loro disponibilità allo
scambio. Lassù lo svelto raccogliere un po’ d’uva in un cavagno perché
i primi ad arrivare erano i favoriti. Nel cesto che era servito per
trasportare l’uva, ora c’era una quantità di pesce multicolore ancora
vivo: saran, cardain, pessi de
scoiu, scurpene…
Con quelli di Riomaggiore invece la chiusura era completa. Anche se nei
racconti che correvano in città, gli abitanti di Biassa e Riomaggiore
erano spesso accomunati come sempliciotti, creduloni, tra loro c’era
sospetto, rivalità, rotte soltanto qualche anno dopo l’ultima guerra,
quando molti Biassei hanno cominciato ad ammogliarsi con donne di quel
paese: fino ad allora dispetti, maldicenze, specialmente da parte dei
Biassei, talvolta cattiverie più serie. Sul versante di Biassa vi è un
sentiero usato fino a poco tempo fa: quello di Vaisèla. Da Lemen,
Zericò, Cravaezza di Riomaggiore, sino a poco tempo fa
egregiamente
coltivati a uva, partivano i contadini al mattino presto con i “cestin”
colmi d’uva da tavola, per portarli al mercato alla Spezia. Salivano
sino al Turiùn (Torrione)
così chiamato perché sopra il valico un tempo
esisteva una torre di avvistamento contro le incursioni moresche,
trasformata poi in casa cantoniera demaniale detta “casa Carmè” dal
nome dell’ultimo cantoniere che l’aveva abitata. Scendevano poi il
sentiero di Vaisèla,
attraversavano Biassa e giù, sempre a piedi, sino
alla Spezia. Se ci arrivavano …
Sì, perché percorrere Vaisèla quando faceva ancora buio con i dispetti
che gli facevano i “Biascèi”,
come li chiamavano loro, poteva anche
succedere che l’uva non arrivasse mai a destinazione e magari poteva
capitare anche di fratturarsi una gamba!
La colpa era degli sc-ciapamati
(trappole) che i Biassei preparavano
sul sentiero.
Gli sc-ciapamati erano
profonde buche fatte dove gli ignari contadini
di Riomaggiore dovevano passare: un po’ di rametti sottili con sopra un
poco di erba e foglie a coprire la buca: un piede posato lì sopra, un
urlo e il cestino con l’uva ruzzolava per il ripido sentiero…!
Solidarietà a Biassa
Dopo la nascita delle Società di Mutuo Soccorso alla Spezia, anche a
Biassa fu fondata la Pubblica Assistenza. Il 10 giugno 1919, 280 soci
fondatori (185 uomini e 95 donne) crearono questa Associazione di
Volontariato che ebbe tanta importanza nella vita sociale del paese. La
solidarietà è sempre stato un sentimento che ha amalgamato i Biassei. I
litigi, i rancori non hanno mai influito nei momenti di bisogno: sono
sempre stati messi momentaneamente da parte, qualunque fosse stata la
persona da aiutare.
D’altronde il numero elevato dei soci dimostra la volontà di
solidarietà che li accomunava.
Erano gerarchicamente organizzati: puniti se non facevano il proprio
dovere, multati se non partecipavano alle assemblee. Molti dei servizi
venivano effettuati a Tramonti; allora dovevano partire a piedi con la
lettiga, soccorrere il ferito o l’ammalato, portarlo a Biassa e, se
necessario, trasportarlo all’ospedale civile, che allora si chiamava
Vittorio Emanuele II, su un carro-lettiga trainato a mano.
Era un impegno gravoso e di molta fatica che in base alle difficoltà
incontrate, comportava un punteggio di merito la cui somma,
nell’occasione di feste sociali, dava diritto a medaglie e attestati di
benemerenza. Le squadre, al comando di un responsabile capo squadra, si
avvicendavano a turno ed erano particolarmente attive.
Il 15 agosto 1923 per trasportare all’ospedale a partorire Dusolina
Mozzachiodi, prestarono servizio 27 soci. Per soccorrere Gio Batta
Mariotti (Lalu) di Francesco,
di 24 anni, “affetto da sbocco di
sangue”, l’11 novembre 1923 erano presenti 33 militi. Nel servizio
notturno a Gio Batta Sommovigo, detto Bacicia,
il 2 dicembre 1923 si
mobilitarono ben 77 persone.
45 persone trasportarono all’ospedale Adele Sommovigo di Venanzio,
“affetta da nevrastenia”, mentre alla fine del 1924 per Mario Bertani
fu GioBatta prestarono la loro opera 56 soci.
La vita interna della Società era regolata democraticamente con le
votazioni una volta all’anno per eleggere il Consiglio Direttivo e i
Capi Squadra.
I soci pagavano una quota mensile e dopo tre mesi di inadempienza
venivano estromessi dalla società. Una commissione di disciplina
formata da sei soci era destinata a fare rispettare lo statuto che
regolava la società e chi non si adeguava era sottoposto a multe,
sospensioni o degradazioni. Ogni anno, alla fine di settembre, a
Tramonti veniva fatta la questua per la raccolta dell’uva, di cui una
parte veniva venduta sul posto e la migliore veniva inviata
gratuitamente all’ospedale. Prendendo ad esempio un anno qualsiasi:
nella riunione del Consiglio del 7.10.1926, il Presidente Domenico
Bertani (Baciò), rendeva noto
che a Schiara erano stati raccolti 136 kg
di uva e venduti sul posto a lire 2,05 il kg. Alla Fossola 48 kg subito
venduti e altri 60 inviati all’ospedale. A Monesteroli ne era stata
donata 36 kg e al Persico 25 kg.
La prima festa da ballo a Biassa era stata organizzata dalla Pubblica
Assistenza il 27 marzo 1927; queste feste continuarono nei giorni
festivi sino al 12 luglio dello stesso anno quando l’assemblea della
società decideva di chiudere la sala da ballo a causa dei continui
litigi e scenate di gelosia. In seguito, malgrado gli sforzi fatti per
riproporre il ballo, le autorità non concessero più il nullaosta per
motivi di ordine pubblico.
Si riprenderà a ballare dopo la fine della guerra quando addirittura si
costituirà un Comitato Divertimenti con lo scopo di organizzare feste
da ballo, utili anche per finanziare le varie organizzazioni presenti
in paese.
Nel 1929 veniva intanto acquistato il terreno su cui costruire il
fabbricato della sede sociale che sarà completato nel 1931.
Il regime fascista sino al 1930, non si era quasi mai intromesso nelle
questioni interne della Pubblica Assistenza di Biassa ed era sempre
stata rispettata la regola democratica di fare eleggere con votazione
dei soci il direttivo. Nella assemblea generale del 18 gennaio 1930
viene presentata invece una lista di nomi proposti dal P.N.F.
provinciale. Eletta la lista e “a questo punto l’assemblea scatta in
piedi al completo e con un solo grido: approviamo la seguente lista
senza votazioni! Il nuovo presidente commosso per l’accoglienza
ricevuta, ringrazia a nome del fascismo tutta l’assemblea dichiarando
che compierà fascisticamente la sua opera di sacrificio e di dovere per
il bene della Società, della Patria, del Regime.” Da quel momento il
presidente e il consiglio rimarranno legati al regime fino alla sua
caduta.
Intanto con il Regio Decreto del 15 dicembre 1930 venivano sciolte le
associazioni di Pubblica Assistenza e tutte le proprietà venivano
incorporate nella Croce Rossa Italiana. La nuova sede la cui
costruzione era iniziata da poco, viene così tolta alla popolazione di
Biassa che con abnegazione aveva finanziato l’opera a cui teneva tanto.
A questo punto venne meno anche l’attaccamento alla C.R.I. ripreso
pienamente nel dopoguerra, sino agli anni ’50 quando parve a molti che
la democrazia fosse nuovamente calpestata. Infatti il Presidente (o
Delegato) della locale C.R.I. venne imposto dal comitato Provinciale e
non eletto dai soci.
Comparando i servizi svolti dai militi in diversi periodi si può vedere
come le decisioni prese estromettendo i soci, abbiano avuto serie
ripercussioni sul volontariato.
Nel 1923 furono fatti 20 servizi con 451 presenze dei soci, nel 1924,
19 servizi con 502 presenze dei soci, nel 1939, 14 servizi con 54
presenze dei soci, nel 1940, 8 servizi con 61 presenze dei soci, nel
1945, 35 servizi con 560 presenze dei soci, nel 1946 28 servizi con 455
presenze dei soci.
Il fascismo si era talmente appropriato dei mezzi di volontariato, che
anche le sedi periferiche della C.R.I. erano diventate strumento di
propaganda e la loro esistenza era legata alle direttive emanate
direttamente dal Comitato Centrale della C.R.I.. Direttive del regime
che facevano naufragare nella burocrazia quegli ideali di solidarietà,
che all’inizio avevano unito i biassei nella Pubblica Assistenza.
Addirittura in pieno periodo di guerra, dopo la “donazione” delle fedi
d’oro alla Patria sostituite con fedi di ferro, dopo la requisizione
dei monumenti in bronzo di cui fece le spese anche Biassa che si vedrà
portare via il nudo guerriero romano dal piedistallo in arenaria, opera
di Angelo Del Santo, una direttiva del Presidente Generale della C.R.I.
partita direttamente da Roma il 27 gennaio 1943, vista la circolare del
Consiglio dei Ministri, chiedeva alla C.R.I. di Biassa di disporre la
“rimozione e sostituzione di tutte le maniglie, pomi e targhe di rame e
tutte le sue leghe … Questa associazione … deve essere in grado di
conoscere il numero e il peso e le dimensioni di ciascun tipo di
maniglia, pomo o targa …” Il Sottosegretario di stato per le
fabbricazioni di Guerra metterà a disposizione per la sostituzione,
“materiali autarchici ferro ed eccezionalmente con la lega Zama…” Dove
eravamo scesi…!
Superstizioni e metodi
empirici
Fino a una cinquantina di anni fa la gente di Biassa ricorreva alle
medicine ufficiali soltanto in caso di estremo bisogno.
Prima di chiamare il medico ricorrevano ad espedienti e metodi empirici
tramandati da generazioni, magari affidandosi a presunti guaritori del
paese. L’ignoranza che era propria della maggior parte dei biassei,
portava a credere che la causa di una malattia era dovuta al
“malocchio”, cioè a malefìci e incantesimi procurati da persone che
volevano fare del male. Le persone “cattive” a cui si rivolgevano per
queste malefatte erano le strie,
streghe. Per fortuna vi erano altre
“strie” buone che
contrastavano il male con altri sortilegi e
“guarivano” chi era stato contaminato dagli spiriti maligni, talvolta
rimandando al mittente la fattura.
Per togliere il malocchio, la stria
buona poneva sopra la testa della
persona da guarire un piatto contenente acqua. Da un lume acceso, con
il dito faceva cadere una goccia di olio nell’acqua e se questo si
spandeva in larghe spire, era il segno che la malattia era provocata da
incantesimo. Accertato ciò, dopo il segno della croce si pronunciava
più volte la formula:
“O tréi persune da santissima
Trinità, levé ’r mau e meteghe a sanità”.
(“O tre persone della santissima Trinità, togliete il male e metteteci
la salute”)
Vi erano “specialisti” per ogni tipo di malattia: alcune guarivano “r
mau der pètu”, bronchiti; altre “mau der grüpu” che colpiva i
bambini
affetti da vermi intestinali che talvolta portavano al loro
soffocamento ed era una malattia molto diffusa vista la scarsità di
igiene esistente; “’r mau da pietra”
era invece la prostatite.
Era maggiormente colpito da influssi maligni chi aveva “il sangue meno
forte” mentre una persona vigorosa era inattaccabile.
Per rendere meno vulnerabili i bambini, venivano legati al loro collo
spicchi di aglio posti dentro un sacchetto di tela, quali amuleti che
avrebbero dovuto tenere lontano il maligno che le “strie” potevano
trasmettere con lo sguardo e con il semplice tocco della mano. Erano
inoltre indicate ai bambini le probabili streghe in modo che il loro
eventuale malefico incontro potesse essere neutralizzato sia dagli
amuleti, sia da scongiuri, fatti imparare a memoria, detti sottovoce
oppure da opportuni incroci delle dita delle mani. Le malcapitate che
incorrevano in tale fama erano segnate a dito ed isolate dalla
ossessiva superstizione dei biassei.
Di esse se ne parlava sottovoce per paura di incorrere nelle loro
maledizioni e la paura era tanta che spesso, anche senza motivo,
ricorrevano alla “magia buona” per contrastare eventuali malefìci. Le
guaritrici erano molto ricercate e facevano il loro lavoro
gratuitamente, soltanto in cambio di molta gratitudine.
A cosa fosse dovuta questa loro presunta facoltà non è dato sapere,
però essendo la loro opera molto richiesta è da presumere che la
credenza popolare nella loro facoltà di guarigione fosse molto radicata.
La Netina, per il fatto di
avere avuto due gemelli, anche se purtroppo
nati morti, era stata predestinata alla guarigione dei dolori
addominali. Faceva stendere l’ammalato per terra: era essenziale che il
luogo fosse all’incrocio di tre strade, ventre in basso, la testa
rivolta verso nord e la Netina
scalza passava per due volte sul corpo
steso ponendo il piede dove era il dolore, bisbigliando frasi di rito.
Fortuna che la Netina era una
donna minuta!
Si poteva anche guarire con il “fai da te”.
Per guarire l’orzaiolo occorreva recarsi in un punto dove si poteva
vedere il mare, generalmente sul Gobu e con la schiena rivolta verso il
golfo ripetere la formula:
“A vedu u celu a ne vedu ’r mae,
vista ciàa e purpu ’n mae” e nello
stesso tempo buttare per tre volte all’indietro una pietra. La frase
recitava: “Vedo il cielo non vedo il mare, vista chiara e polpo in
mare”, dove il polpo era l’orzaiolo.
Oltre a una forte credenza nel magico, il biasseo adoperava metodi
empirici per la cura delle sue malattie. Contro i vermi usava l’aglio e
la ruta che abbonda a Tramonti. Contro l’insonnia dei più piccoli,
oltre alla camomilla selvatica, usava una alga raccolta nel mare di
Tramonti, da loro chiamata “culaina”,
(Corallina officinalis) fatta
seccare e poi usata in infusione nell’acqua bollente. Contro il mal di
testa adoperavano una carta speciale “’r
papeu matu” inzuppato d’aceto
e posto sulla fronte. Questa carta, grigia, adoperata per tappare la
“spina” delle botti, era usata in commercio per contenere lo zucchero
che veniva venduto sfuso.
Per guarire in fretta piccole ferite, veniva raschiato dalle travi dei
tetti delle case, o dei solai, un poco di marciume del legno e lo si
metteva sulla ferita. Naturalmente dopo averla disinfettata con aceto,
o in mancanza, con urina fresca (di vergine, possibilmente!).
Le “Dodici parole della
verità”
È ormai difficile ascoltare dalla voce dei vecchi biassei le favole che
essi stessi avevano imparato dalla voce dei loro genitori o nonni, come
questi avevano imparato a loro volta dai nonni e così via a ritroso
nella notte dei tempi. Racconti intrisi di misticismo religioso o
favole evocanti maghe, fate e orchi.
D’altronde quello di imparare poesie dialettali, racconti, ninne nanne
era un obbligo per poter intrattenere, una volta diventati adulti,
altri bimbi e perpetuare così questa tradizione orale.
Poi è venuta la televisione…
Alcuni di questi racconti sono comuni ad altre località, dei quali
mantengono soltanto una somiglianza, talmente sono stati trasformati
dalla fantasia dei biassei.
Ad esempio nella leggenda, comune a tutta la Lunigiana, delle “Dodici
parole della verità”, nella tradizione di Biassa, la parte finale è una
sequenza di ripetizioni la cui assonanza e ritmo la rendono musicale.
La leggenda narra della venuta del diavolo nella casa di un ex povero
contadino a reclamare l’accordo stipulato alcuni anni prima, quando lo
aveva aiutato con un sacchetto di monete d’oro. Se non avesse saputo le
“dodici parole della verità”, avrebbe, in cambio della ricchezza, presa
la sua anima.
Trascorso il periodo pattuito, qualcun’altro aveva preso il posto del
contadino. Vi fu un dialogo serrato tra il diavolo, fuori della porta a
bussare e chiedere conto dell’accordo, e il sant’uomo che si trovava
all’interno al posto del padrone di casa.
- Ton, ton. - Chi picchia?
- Amici, amici son le una.
- Un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre
sia laudà.
- Ton, ton. - Chi picchia?
- Amici, amici son le due.
- Due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele,
evviva questo regno e sempre sia laudà.
- Ton, ton. - Chi picchia?
- Amici, amici son le tre.
- Tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in
casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.
- Ton, ton. - Chi picchia?
- Amici, amici son le quattro.
- I quattro Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi,
un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia
laudà.
- Ton, ton. - Chi picchia?
- Amici, amici son le cinque.
- Cinque le piaghe del Signore, quattro gli Evangelisti, tre sono i
Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa
Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.
- Ton, ton. - Chi picchia?
- Amici, amici son le sei.
- Sei le strade che vanno a Gerusalemme, cinque le piaghe del Signore,
quattro gli Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi,
un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia
laudà.
- Ton, ton. - Chi picchia?
- Amici, amici son le sette.
- Sette le lampade di Betlemme, sei le strade che vanno a Gerusalemme,
cinque le piaghe del Signore, quattro gli Evangelisti, tre sono i
Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa
Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.
- Ton, ton. - Chi picchia?
- Amici, amici son le otto.
- Otto i libri di Mosè, sette le lampade di Betlemme, sei le strade che
vanno a Gerusalemme, cinque le piaghe del Signore, quattro gli
Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù
Cristo, in casa Emanuele, evviva questo Regno e sempre sia laudà.
- Ton, ton. - Chi picchia?
- Amici, amici son le nove.
- Nove i cori degli angeli, otto i libri di Mosè, sette le lampade di
Betlemme, sei le strade che vanno a Gerusalemme, cinque le piaghe del
Signore, quattro gli Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti
Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e
sempre sia laudà.
- Ton, ton. - Chi picchia?
- Amici, amici son le dieci.
- Dieci i Comandamenti del Signore, nove i cori degli angeli, otto i
libri di Mosè, sette le lampade di Betlemme, sei le strade che vanno a
Gerusalemme, cinque le piaghe del Signore, quattro gli Evangelisti, tre
sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa
Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.
-Ton, ton. - Chi picchia?
- Amici, amici son le undici.
- Undicimila verginelle, dieci i Comandamenti del Signore, nove i cori
degli angeli, otto i libri di Mosé, sette le lampade di Betlemme, sei
le strade che vanno a Gerusalemme, cinque le piaghe del Signore,
quattro gli Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi,
un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo Regno e sempre sia
laudà.
- Ton, ton. - Chi picchia?
- Amici, amici son le dodici.
- Dodici gli Apostoli del Signore, undicimila verginelle, dieci i
Comandamenti del Signore, nove i cori degli angeli, otto i libri di
Mosè, sette le lampade di Betlemme, sei le strade che vanno a
Gerusalemme, cinque le piaghe del Signore, quattro gli Evangelisti, tre
sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa
Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.
- Ton, ton. - Chi picchia.
- Amici, amici son le tredici.
- Cun i duze a t’ò pagà, vatene via
che t’èi adanà. (Con i dodici ti ho
pagato, vattene che sei dannato).
- San Barturmé, san Barturmé, a n’ò
mai pussü fae na büganeta che ’n te
g’ài missu a te pezzeta! (San Bartolomeo, San Bartolomeo, non
ho mai
potuto fare un piccolo bucato che tu non gli abbia messo una piccola
pezza!).
Si dice che chi sa le “Dodici parole della verità” e chi le sta a
sentire, di una brutta morte non potrà morire.
(Testimonianza di Ada Natale, classe 1914. Imparata dalla mamma Alcida
Gianardi, nata nel 1881. Ada assicura che alla mamma gliela aveva
insegnata sua mamma…)
Forti e soldati
La vista che offre il golfo della Spezia dalle alture intorno a Biassa
è uno spettacolo maestoso ed è qui che sono stati costruiti alcuni dei
forti in difesa della città e dell’Arsenale.
L’Arsenale, voluto dal Cavour, progettato e costruito sotto la
direzione di Domenico Chiodo, fu inaugurato nell’agosto del 1869.
Il generale pensò bene di fortificare le alture intorno alla città per
difenderla da eventuali attacchi dal mare e di costruire le nuove mura
di cinta per preservarla da attacchi terrestri.
Dopo l’Arsenale, sempre nella seconda metà dell’Ottocento furono
costruiti, nei dintorni di Biassa, il forte Bramapane e il forte Parodi
dal nome delle alture occupate, ambedue sui 700 metri di altezza.
Nella costruzione dei forti, i bravi scalpellini delle cave di Biassa
profusero la loro opera traendo dalla pietra di arenaria e calcarea
vere e proprie opere d’arte, purtroppo in gran parte oggi andate
distrutte.
Il lavoro era talmente tanto che aveva fatto accorrere mano d’opera da
regioni molto lontane.
Anche le strade che dalla Spezia salivano ai forti erano state fonte di
lavoro perché molte erano le opere murarie di contenimento della strada
e impegnativo l’approntamento della pavimentazione stradale.
Sul bordo della costruenda strada, con i carri, venivano accumulati
mucchi di pietra calcarea e gli operai con mazze e mazzuoli dovevano
spaccare quella pietra, con formato più o meno piccolo secondo
l’impiego della ghiaia.
I forti furono utilizzati sino alla fine della seconda guerra, anzi,
allo scoppio della guerra, per proteggere maggiormente l’Arsenale e le
altre opere militari della Spezia, furono fortificate altre alture che
avrebbero dovuto contrastare le incursioni aeree nemiche.
Queste batterie antiaeree sorsero innumerevoli intorno alla Spezia e
sul territorio di Biassa ne furono costruite una sul monte Santa Croce
(540 m.s.l.), una a Monte Madonna (520 m.s.l.) e una sul Verrugoli (740
m.s.l.)
Le fortificazioni richiamarono, per le loro esigenze operative, molti
militari, dapprima soltanto italiani, poi anche tedeschi.
I Biassei, chiusi nella loro indole introversa, non vedevano di buon
occhio queste intrusioni di estranei con i quali erano obbligati a
convivere, vista la vicinanza al paese delle fortificazioni, per cui
succedevano spesso liti tra i giovani di Biassa e i militari.
Malgrado questo, si erano instaurati anche rapporti di amicizia tanto
che vi furono anche alcuni matrimoni tra i militari e le donne di
Biassa. Sul piano commerciale, poi, erano i biassei che rifornivano di
acqua potabile e di vino i soldati del Bramapane e di Monte Madonna.
Vista la riottosità degli autoctoni, i comandi militari dei forti
limitavano ai soldati le libere uscite a Biassa e ai nuovi venuti
raccomandavano di non allacciare rapporti con questa gente selvatica e
ombrosa.
Si racconta che agli inizi di questo secolo, un giovane sottufficiale,
a cavallo, si recasse al forte Bramapane, passando da Biassa, per
prendere servizio.
Arrivato all’inizio del paese dovette fermarsi per un bisogno
corporale. Non vide nessuno nelle vicinanze per cui, legato il cavallo
sul margine delle strada, entrò in un canale dove le alte e verdi
piante erano ideali per nasconderlo alla vista di eventuali passanti.
Il luogo dove si recava era già stato usato da altri perché trovò un
passaggio in mezzo all’erba alta.
Mal gliene incolse alla fine, quando, non avendo carta, prese alcune
foglie delle piante a lui vicino e se ne servì come carta igienica.
Al contatto di queste foglie con le parti intime, sentì un bruciore
come di fuoco.
«Mi hanno avvisato di stare lontano dalla gente di questo paese»
esclamò «ma qui è cattiva anche l’erba…»
Si era pulito con l’ortica.
Il partigiano Mario
Dopo l’8 settembre 1943, sbandati militari e giovani antifascisti si
rifugiarono sui monti, dando inizio a formazioni partigiane.
Con l’aiuto dei ricostituiti partiti democratici, si organizzarono in
unità combattenti per attaccare i nemici con improvvise sortite.
Per rintuzzare questo genere di guerriglia, i tedeschi e i
fascisti organizzarono feroci rastrellamenti, che tenevano in costante
allarme i partigiani.
Vista la mobilità dei raggruppamenti partigiani e per favorire il
reclutamento di nuovi patrioti, il comando aveva costituito gruppi di
“staffette” che avevano il compito di prendere in consegna le nuove
forze per accompagnarle ai distaccamenti.
A Biassa, Mario Carrodano (Peota) era stato incaricato di accompagnare
alcuni giovani del paese ai “Casoni” dove la formazione partigiana
“Giustizia e Libertà” al comando di Ermanno Gindoli, stava
riorganizzandosi dopo i continui rastrellamenti.
Il gruppo, giunto al fiume Vara nei pressi di Cavanella, mentre lo
attraversava, fu intercettato dai tedeschi che, dopo l’alt, visto che
questo non si fermava, cominciarono a sparare. Un partigiano di Marola,
aggregato al gruppo di Biassa, rimase ucciso mentre Mario Carrodano,
omonimo del “Peota”, fu ferito alla spalla destra.
Riuscirono tuttavia a fuggire e raggiunsero Garbugliaga, un gruppo di
case di contadini nel comune di Rocchetta Vara, dove trovarono
ospitalità nella casa della famiglia Gregori.
In quelle condizioni il Carrodano ferito non poteva certamente
affrontare il viaggio per il campo partigiano. I tedeschi, dopo la
sparatoria della sera precedente, avrebbero sicuramente ricercato il
gruppo che con un ferito rischiavano di rimanere intrappolati.
Il Carrodano, come molti altri giovani, era stato incorporato nel
gruppo di lavoro di Biassa della TODT tedesca che stava costruendo con
piccone e pala la strada sterrata che doveva collegare Campiglia con il
Telegrafo per consentire un rapido ripiegamento alle truppe tedesche
operanti nelle zone fortificate di Campiglia. Grazie a questo lavoro,
era in possesso del tesserino rilasciato dal comando tedesco per cui
suggerì ai suoi compagni di essere lasciato in quella casa dove avrebbe
ricevuto le cure necessarie. Nel caso i tedeschi lo avessero trovato,
avrebbe loro mostrato il tesserino ed era probabile che, trovata una
scusa per il fatto di trovarsi lontano da casa, i tedeschi lo avrebbero
lasciato tranquillo. Era inoltre reduce da oltre otto anni di servizio
militare in marina dove si era guadagnato una croce al valore ed anche
quello era un fatto di cui avrebbero senz’altro tenuto conto.
Sebbene a malincuore, gli altri partirono per la loro destinazione.
Intanto i tedeschi erano sulle tracce del ferito e lo trovarono in
quella casa curato dalla famiglia Gregori.
Alla vista del tesserino della TODT non infierirono più di tanto sul
Carrodano, restando però d’accordo che appena fosse in grado di
camminare, avrebbe dovuto presentarsi al comando militare tedesco.
Sfortuna volle che la presenza del partigiano ferito fosse risaputa
anche dai fascisti della Decima che al comando di un giovane tenente,
Gonnella, si recarono anch’essi a Garbugliaga e senza nemmeno curarsi
né del precedente accordo fatto con i tedeschi, né dello stato del
ferito, lo condussero fuori sull’aia di casa.
Lì il comandante della Decima, sordo a qualsiasi supplica, intimò al
Carrodano di volgere per l’ultima volta lo sguardo in direzione di
Biassa e lo uccise di propria mano con la pistola.
Era l’8 ottobre 1944, la vita che gli era stata risparmiata dal nemico
tedesco, gli fu tolta da un italiano!
Il Gregori, che di professione faceva il falegname, costruì una rozza
cassa dove ricomporre i poveri resti del Carrodano che fu poi tumulato
da un gruppo di partigiani a Tavarone.
Alla fine della guerra venne portato a Biassa dove riposa nel cimitero
locale.
Amara sorte toccò ad un altro giovane partigiano di Biassa, Domenico
Carro. Giovanissimo, ad appena diciassette anni, essendo nato il 28
giugno 1926, prese la via dei monti, tra i primi ad aderire alle
formazioni partigiane. Dopo varie vicissitudini, riuscì ad arruolarsi
nelle Brigate Nere del 21° Fanteria.
Fu scoperto a minare la caserma con l’intento di farla saltare. Per
questo il 4 aprile 1945 sarà fucilato non ancora diciannovenne.
L’albero della libertà
È ancora viva la memoria di un tempo lontano, quando i francesi, dopo
la Rivoluzione, vennero in Italia accolti da molti come portatori di
ideali nuovi che parlavano di Libertà, Uguaglianza, Fratellanza. Erano
parole, queste, che fecero breccia nei cuori degli umili, stanchi di
privazioni e soprusi. A Biassa, essi si erano accampati nelle zone
pianeggianti di Nozzano, del Campodonico e del Francanese: toponimi che
suonano in modo strano, lasciati apposta dai francesi per ricordare la
loro sosta in quei luoghi.
Altro ricordo, questo più visibile, è la fresca fontana, da loro
costruita nella loro permanenza, denominata di Napoleone, o di Nozzano.
I francesi erano benvisti dai biassei, non si sa se per merito della
fontana o dei nuovi ideali. Infatti si ricorda ancora, sempre
attraverso la memoria orale, che alcuni biassei si arruolarono nel loro
esercito e fecero la campagna di Russia dove, raccontarono gli
scampati, i fiumi erano tinti di rosso per il sangue versato e che
talvolta per attraversare un fiume usavano i corpi dei morti
ammucchiati sul greto come di ponti.
Lasciarono, i francesi, oltre ai tanti francesismi di cui è ricca la
nostra parlata, anche strane usanze, come l’albero della libertà.
A Biassa l’albero della libertà venne piantato sulla piazza antistante
la chiesa di S. Martino. La leggenda narra che questa pianta venne
amorevolmente coltivata con letame di stalla per farla crescere con la
massima vigoria.
Quando la pianta fu ben sviluppata, fu posto sul ramo più alto un
berretto rosso simile a quello portato dai Biassei che era fatto di
lana e di cui una estremità ricadeva sulla spalla.
A guardia dell’albero era un popolano armato di fucile che ad ognuno
che passava nei pressi, rivolgeva una domanda: «Chi viva?».
Se il passante rispondeva: «Viva Gesù Cristo e la Madonna», veniva
subito fucilato. Se invece gridava : «Viva la libertà», era trattato da
amico e festeggiato.
Un giorno che un facoltoso biasseo ebbe l’ardire di sparare sul
berretto, il guardiano ed i suoi amici gli si rivoltarono contro con i
fucili spianati e ci volle del bello e del buono per farli recedere
dalle loro intenzioni.
Probabilmente questa è una leggenda messa in giro da ambienti ostili
per mostrare quanto poco contasse la religione per i seguaci della
Rivoluzione francese.
È giunta fino a noi una versione più colorita della leggenda
dell’albero della libertà. Il guardiano del berretto rivolgendosi al
passante gli avrebbe comandato di salutare il berretto rosso pena …
«Merda o berretta rossa!».
Naturalmente il malcapitato optava per la berretta rossa!
Si dice ancora adesso a chi, costrettovi, non può fare altro che
scegliere il male minore, anche se a malincuore.
E Biasèe
È tradizione considerare i due personaggi Batistun e a Maìa come
provenienti dall’antica collettività di Biassa e usati alla Spezia come
maschere carnevalesche fin dalla seconda metà del secolo scorso.
Questi personaggi, legati ai costumi tradizionali di Biassa erano forse
considerati i più “veri” dell’intero circondario della Spezia, se,
nella confusione dei costumi e usanze presenti nella città in
espansione, per non dimenticare le proprie origini, li aveva eletti a
rappresentarla.
D’altronde ancora oggi gli antichi costumi dei biassei, nel Museo
Civico “U. Formentini”, vestono Batistun
e a Maìa.
Pure Angiolo Del Santo, agli inizi del secolo, ritrarrà due persone
biassee nei costumi di Batistun e a
Maìa.
Anche nella seguente canzonetta senza data, scritta per i
festeggiamenti di uno dei carnevali, la protagonista è la Maìa, come
quella di Batistun e come
tante altre Maìe che in ogni
epoca hanno
trascorso la loro vita a Biassa e Tramonti senza chiedersi tanti
perché. I perché ce li chiediamo noi, ma non a tutti sappiamo dare
risposta.
Una canzone scritta con simpatia verso Biassa e i Biassei mettendo in
ridicolo i “lechin” spezzini.
E Biasèe.
En te sta Biassa
benedetta mia en po’
En te sta Biassa
benedetta mia en po’
La ghe er vin bon,
En baiocco en ta borsetta
Se fa presto colassion
En te sta Biassa
benedetta mia en po’
La ghé l’aia rafinà
A vedutta de a sità
E formageta a bon mercà
En te sta Biassa
benedetta ecc.
Marmenà e dispresà
Pe a gente che ghe sta
Che la ne len civilisà.
En te sta Spesa en po’
sivetta, e si, e si
La ghe de a gente
sbarbagiana
D’ignoanti a volontà
En to sparlae dee nostre
cà.
perché a Biassa en ta
montagna mia en po’
La ghe ciù educassion
Parlando propio de
ocasion:
De sta Spesa en ribilion
A Biassa, poi en ta
montagna, e si, e si
La ghe dee done ben
ciantà,
Petto gonfio remarcà;
E e gambe aretondà;
Senza confronto con
cuelle de a Sità
Le a Maia che la o
racconta, ne veo e si
I sen misi a gridae;
En ter vedene à passae!
Ca ne savemo caminae.
Oh! che Spesa birbaciona
e si, e si,
Con na fuia sgangheà,
En meso a noi ien passà,
E a Maia per terra ian
butà.
A semo noi ca lo disemo,
e si, e si.
Se le questa educasion
De ciapae anca a spinton;
vegnì a Biassa vegnì
ampaae:
A manea de trattae.
B. E.
Le Biassée
In questa Biassa benedetta guarda un po
In questa Biassa benedetta guarda un po
C’è il vino buono,
con qualche soldo in borsa
si fa presto colazione
In questa Biassa benedetta guarda un po
C’è l’aria buona,
la vista della città
e pecorino a buon mercato
In questa Biassa benedetta ecc.
Maltrattata e disprezzata,
la gente che vi abita
è accusata di non essere civilizzata.
In questa Spezia un po civetta, si, si
C’è gente chiacchierona,
ignoranti a volontà
che sparlano di noi.
perché a Biassa, nella montagna guarda un po
C’è più educazione,
parlandone proprio per l’occasione,
che in questa Spezia ribelle.
A Biassa, poi, nella montagna, si, si
Ci sono donne ben portanti,
con petto gonfio rimarcato
e con gambe rotonde
senza confronto con quelle della città.
È la Maria che lo racconta, è vero, si
si son messi a gridare,
vedendoci passare,
che non sappiamo camminare.
Oh! che Spezia birbona, si, si
con una furia sgarbata,
sono passati in mezzo a noi
e hanno buttato la Maria per terra
Siamo noi che lo diciamo, si, si.
Se questa è educazione
di prendere a spintoni,
venite a Biassa, venite a imparare
le belle maniere.
B.E.
Le patate biassee
Il 9 agosto 1944 alla vigilia di s. Lorenzo un rastrellamento operato
dai tedeschi nelle Cinque Terre portò al fermo di oltre duecento
persone che furono rinchiuse nel forte Bramapane.
Durante la guerra, per sfuggire ai bombardamenti anglo-americani
effettuati sulla piazzaforte spezzina, molti cittadini e abitanti dei
dintorni si trasferirono lontano dalla città per sfuggire alle bombe
che, spesso sbagliando gli obiettivi militari, cadevano sulle
abitazioni civili causando morti e feriti.
Molte di queste persone si riversarono in Riviera credendo di essere al
sicuro dalle bombe e se ciò in parte era vero, gli uomini in grado di
lavorare dovevano restare nascosti per non essere fatti prigionieri dai
tedeschi e fascisti nei ricorrenti rastrellamenti.
Anche a Biassa vi fu un massiccio esodo di “sfollati” data la vicinanza
del paese a obiettivi militari quali i forti e l’Arsenale. Spesso,
infatti, le bombe lasciate cadere dagli aerei, finivano nei boschi
intorno al paese e per fortuna soltanto raramente fecero danni alle
abitazioni. Nel bombardamento del 14 aprile del 1943 fu però colpita la
località “Scoglio” provocando il crollo di alcune case, senza fare
morti.
Molte famiglie di Biassa trovarono rifugio a Riomaggiore, a San
Bernardino sopra Corniglia, a Vernazza e in altri paesi della Riviera.
Quel 9 agosto, la retata dei tedeschi fu consistente e molti giovani e
meno giovani furono portati nel forte e lasciati senza cibo e acqua
sotto il sole d’agosto.
Venuta a conoscenza del fatto, la gente di Biassa mise subito in moto
un meccanismo che per quei tempi era un lusso: la solidarietà.
Il cibo era scarso e quel poco che avevano era appena sufficiente a
sopravvivere. Malgrado la paura che avevano addosso, i biassei
riuscivano però a coltivare qualche campo e avevano da poco raccolto
quelle scarse patate coltivate e che dovevano servire a sfamare la
famiglia nel poco roseo avvenire.
Soltanto le donne circolavano in paese perché gli uomini, impauriti,
erano nascosti per non correre pericoli con i tedeschi.
Quando le donne seppero dei prigionieri affamati nel forte Bramapane,
si mobilitarono e in poco tempo nella cucina dell’asilo gestito da
alcune suore, arrivarono le patate.
La cuoca, una religiosa di Corniglia, suor Germana, aiutata dalle donne
di Biassa, bollirono tutte le patate raccolte nella cucine dell’asilo
e, poste nelle ceste, si recarono tutte insieme al forte, a piedi
salendo da Code, assieme ad altre che nel frattempo avevano provveduto
a riempire alcune damigiane di acqua potabile.
Per fortuna i militari, sia italiani sia tedeschi, forse colpiti da
tale solidarietà, permisero ad esse di fare la distribuzione delle
patate ai prigionieri esausti.
Anche se le patate bollite (senza sale perché scarseggiava anche
quello) non si possono considerare un cibo raffinato, per quei
poveracci dovettero sembrare la manna che era caduta dal cielo agli
ebrei nella loro fuga dall’Egitto. Furono talmente gradite che il
dottor Niccolò Canepa, oculista, uno dei prigionieri di Bramapane, che
a Liberazione avvenuta riaprì il proprio studio in corso Cavour, per
tutto il periodo che ha esercitato la professione, ha sempre tenuto
aperto il suo ambulatorio ai biassei, visitandoli gratuitamente, memore
della solidarietà ricevuta dalle donne di Biassa.
Lo “sciopero alla rovescia”
Fino agli inizi degli anni cinquanta, Biassa era servita da una strada
carrozzabile malagevole con curve che impedivano il transito ai mezzi
della nuova tecnologia.
Questa strada era stata costruita a servizio dei forti sovrastanti
Biassa e in tempi in cui i mezzi di locomozione erano a traino animale.
Successivamente, con i nuovi mezzi a trazione a motore, la strada era
diventata inadeguata per questo tipo di traffico. I rari mezzi che
arrivavano a Biassa erano costretti a estenuanti manovre con il
pericolo di finire fuori strada.
Fu soltanto nel 1953 che la prima corriera pubblica arrivò a “Casa
Cuffini” poco dopo le Fornaci di Biassa. Fu un grande successo anche se
poi occorreva percorrere ancora un lungo tratto a piedi per raggiungere
il paese. Questo avvenimento ha alle spalle un fatto determinante.
La disoccupazione a quei tempi era una piaga sociale di non facile
soluzione. La Piazza del Monumento era il luogo di incontro della
popolazione maschile di Biassa. Vi erano due osterie ma la mancanza di
quattrini costringeva i più a rimanere seduti sulla lunga panchina di
arenaria a ridosso del muraglione della soprastante canonica: i vecchi
con il mento sulla curva del bastone che tenevano tra le mani
masticavano pezzi di toscano che rigiravano nella bocca e sputavano
infine ai loro piedi in larghe chiazze marroni sulle lastre di arenaria.
I giovani all’altra estremità della panchina accanto al portone, verde
e sempre chiuso, della piccola tenuta parrocchiale intorno alla
canonica, si passavano di bocca in bocca una sigaretta “alfa” (la più
economica) acquistata “sfusa” dal Luise
il tabacchino, che la incartava
nella carta di giornale.
I giovani, a turno, la fumavano sino all’ultima tirata, magari
infilando la cicca in uno spillo per non bruciarsi le dita.
Nel 1951 questi giovani, esasperati dalla lunga inattività dovuta alla
mancanza di lavoro, gridarono infine la loro protesta e iniziarono
quello che sino dal primo momento fu chiamato“sciopero alla rovescia”.
Non era uno sciopero proclamato da una categoria operaia, incrociando
le braccia: erano i disoccupati che scioglievano le braccia incrociate
per la mancanza di lavoro e le armavano di pala e di piccone per
lavorare e creare qualche cosa di utile senza essere remunerati.
Rendere la strada transitabile ai mezzi pesanti era essenziale per la
collettività; ebbene, lo “sciopero” dei disoccupati sarebbe servito
almeno a soddisfare questo bisogno!
Quaranta giovani di Biassa senza lavoro, con pale e picconi, iniziarono
a “correggere” le prime curve dopo Pegazzano, in località “Polletta” le
quali, pericolose al transito, furono deviate e rese transitabili.
La protesta ebbe inizio il 1º gennaio 1951 e il fatto fece scalpore.
Erano i tempi delle lotte operaie della Termomeccanica, dell’OTO
Melara, del Muggiano, delle discriminazioni in Arsenale e questo
movimento suscitò subito simpatia negli ambienti sindacali e nei
partiti di sinistra tanto che la Camera del Lavoro “prestò” loro il
geometra Guiducci che, anche se non poteva comparire come addetto,
forniva il sostegno tecnico con consigli e direttive.
La gente di Biassa si autotassò per dare un minimo di sostentamento a
questi giovani. Fu creato addirittura un Comitato con tanto di
presidente (Guido Bertano), di cassiere (Mireno Cidale), di segretario
(don Alfonso Ricciardi) e il responsabile dei giovani partecipanti alla
protesta era Celio Natale. Questo comitato provvedeva alla raccolta di
fondi che poi divideva tra gli “scioperanti” in base alle ore lavorate.
Alla domenica erano organizzate feste da ballo il cui ricavato
contribuiva, assieme ad altri finanziamenti elargiti dalle Cooperative
di Consumo di Biassa, a finanziare quella singolare forma di protesta.
E “sciopero” singolare doveva veramente essere, se al suo successo
contribuirono pure i “padroni” delle cave lungo la strada di Biassa con
soldi o materiale di cui i giovani potessero avere bisogno.
La forma di protesta così organizzata andò avanti per tre mesi sino a
quando l’amministrazione comunale, con sindaco Varese Antoni, convertì
il lavoro volontario svolto da questi giovani in un cantiere scuola che
era una specie dell’attuale “lavoro socialmente utile” affidato ai
giovani disoccupati.
Il cantiere scuola durò altri sei mesi ed alla fine la strada da
Pegazzano sino alle Fornaci fu resa transitabile, anche se poi si
dovette attendere il 1953 per ottenere che il primo mezzo pubblico
arrivasse fino a “casa Cuffini”. Certamente però lo “sciopero alla
rovescia” fu determinante perché questo avvenisse.
Solo il 27 luglio 1957 la corriera arriverà finalmente a Biassa e ciò
per la testardaggine di un amministratore comunale, Mario Ragozzini,
che impose a recalcitranti funzionari del Comune di trovare la
soluzione per fare arrivare la corriera fino al paese.
’R canau di fuestri (Il
canale dei foresti)
Uno dei canali di Biassa incomincia nel Curezöu e attraversando da un
lato il Bale e dall’altro lo Scoiu, arriva nel Pradu dove un tempo
erano efficienti alcuni mulini, per poi immettersi nel vallone che
forma il canale di Biassa prima di raggiungere Pegazzano.
Un tratto di questo canale, nei pressi dell’attuale Piazza del
Monumento, si chiama “canau di fuestri”.
Nelle vicinanze vi erano alcune osterie e un prato erboso che fu in
seguito, con la costruzione del muraglione di contenimento che affianca
la sottostante strada, trasformato in un piazzale che nel 1928 prese il
nome di Piazza del Monumento dopo la costruzione, nella parte centrale,
del monumento ai caduti della Prima guerra mondiale, opera di Felice
Del Santo. Era inevitabile che le abbondanti bevute del vino di
Tramonti in quelle osterie, degenerassero sovente in liti e che i
malcapitati forestieri avessero la peggio nei confronti dei più
numerosi e rissosi biassei.
Si dice che spesso, questi incauti forestieri finissero nel vicino
canale, ma non sembra sia questa la principale ragione del toponimo.
Si racconta che durante il traforo della galleria ferroviaria
denominata Biassa che partendo da Pegazzano e attraversando tutto il
territorio di Biassa sbuca a Riomaggiore, molti furono i minatori e gli
operai venuti da fuori per la sua costruzione. Alcuni cantieri di
questa imponente opera erano nelle vicinanze di Biassa essendo numerosi
i fronti di scavo: ai due fronti di arrivo e di partenza della
galleria, se ne erano aggiunti altri intermedi nei punti dove erano
previsti gli sfiatatoi che dovevano essere tre, ma ne furono realizzati
soltanto due perché di uno fu sbagliata la direzione con il risultato
di renderlo inutilizzabile.
Parte delle maestranze erano alloggiate a Biassa o in baracche nei
dintorni, per cui erano in contatto con gli abitanti tanto che alcuni
di essi si sposarono con donne del paese.
Erano i primi degli anni 1870 e gli scalpellini di Biassa con la
recente costruzione dell’Arsenale si erano fatti una fama di maestri in
quel mestiere e la loro opera era richiesta anche fuori Biassa,
addirittura all’estero. Molti di loro, dopo la vendemmia, partivano
lontano per il lavoro di scalpellini e ritornavano alcuni mesi dopo per
rimettersi a lavorare la vigna, mentre altri rimanevano in paese,
occupati nelle numerose cave locali.
Alcune donne si lamentarono, con i loro uomini appena rientrati, di
atti e parole irriguardose nei loro confronti da parte dei forestieri
che lavoravano per la ferrovia e i biassei che mal sopportavano la
presenza di questi estranei, decisero di dar loro una lezione.
Per festeggiare il loro ritorno a Biassa organizzarono un pranzo a base
di stoccafisso in una casa in località san Rocco a cui invitarono anche
i minatori forestieri che volentieri accettarono.
Le antiche abitazioni di Biassa erano costruite generalmente con stanze
una sopra all’altra, collegate con ripide scale di legno che
permettevano di salire ai piani superiori e la cucina era situata
all’ultimo piano. In questo modo il fumo del focolare, che era senza
cappa, usciva dalle connessure delle ciape
(ardesie) che ricoprivano il
tetto.
Mentre all’ultimo piano il gruppo di biassei attorno al fuoco
festeggiavano con lo stoccafisso e il vino bianco di Tramonti assieme
agli ignari invitati, un altro gruppo di giovani del paese toglievano,
senza farsene accorgere da questi ultimi ma d’accordo con i biassei
dell’ultimo piano, la scala di legno che saliva al primo piano.
Ad un segnale convenuto, improvvisamente, i biassei che erano in cima,
impugnati a mo di bastone gli stoccafissi che precedentemente avevano
nascosto per questo scopo, incominciarono a menare, sui poveri
malcapitati, colpi di stoccafisso che, presi per la coda, erano
divenuti armi pericolose.
Vista la malparata, i “fuestri”
tentarono la fuga, ma giunti al primo
piano, non essendosi accorti della mancanza della scala e incalzati
dagli altri, precipitarono al pianterreno, dove erano pronti i complici
biassei che prendendo per i piedi gli storditi e malmessi partecipanti
alla “festa”, li trascinarono giù per la lunga scalinata di via
dell’Ospedale sino al terrapieno che in seguito diventerà la Piazza del
Monumento e li gettarono nell’attiguo canale: il “canau di fuestri”,
appunto.
La Netina
Era una donna piccola piccola. Aveva una bella voce. Anche in età
avanzata cantava brani di romanze mentre filava la lana dalla “ruca” di
canna passandola tra le dita e avvolgendola al “füsu”, un rocchetto
affusolato che manteneva continuamente in rotazione con rapidi colpi
delle dita ad una estremità.
Era tanto minuta che la chiamavano Netina,
diminutivo di Anna. Era nata
nel 1882.
I genitori la costrinsero a sposare un uomo più anziano di lei di
venticinque anni, vedovo e padre di due figli più vecchi di lei, ma che
era considerato un buon partito perché a Tramonti possedeva buoni
appezzamenti di vigneto.
Buona parte dell’anno (eravamo agli inizi del secolo) i biassei la
passavano a Tramonti ad occuparsi dei lavori nei loro vigneti che erano
anche la loro principale risorsa.
In quei periodi abitavano in case più o meno grandi, ma costruite tutte
con la stessa tecnica: addossate all’acclivio del terreno con il piano
terra adibito a cantina ed il piano superiore formato per metà di
battuto di terra e l’altra metà posta sopra la cantina, costituito da
un solaio di tavole dove era sistemato un pagliericcio per dormire.
In un angolo del pavimento di terra battuta vi era il fusiau (focolare)
fatto con pietre scalpellinate, visto che i biassei erano valenti
scalpellini, senza cappa e canna fumaria per cui il fumo usciva delle
sconnessioni formate tra le ardesie che coprivano il tetto. I muri non
erano intonacati e succedeva che il fumo passasse da una casa
all’altra, essendo questo tipo di abitazioni sistemate a schiera, una a
fianco dell’altra. Questi muri erano neri di fuliggine, lucidi.
In una di queste case, a Schiara, abitava per buona parte dell’anno la
Netina (detta di Ciarlèu) assieme al marito Gio Batta (detto Paiàzzu).
Era il 1912 e la Netina era
incinta. Non era certamente, quella, una
condizione per avere privilegi: la donna incinta continuava a lavorare
nei campi nelle occupazioni di pertinenza delle donne, e cioè:
“netezàe”, pulire
dalle erbacee e foglie secche il campo per renderlo
pronto a zappare, prerogativa degli uomini; “ligae”, legare a nudo le
vigne con le ginestre ai paletti dopo averli piantati nella terra
lavorata, “caàe”, legare le
vigne non ancora in germoglio adagiate a
terra ad una specie di reticolo fatto con lunghe pertiche per sfruttare
al massimo il calore emanato dalla terra che faceva maturare
precocemente i grappoli destinati alla vendita come uva da tavola.
Quando le vigne erano in germoglio avanzato, si legavano ai paletti
infissi nella terra. Per ultimo si doveva “sfuiae”, togliere cioè le
foglie vicino ai grappoli di uva per farli meglio maturare dal calore
del sole.
A Tramonti non si trovavano dottori o ostetriche: all’occorrenza
bisognava arrangiarsi.
Un giorno che la Netina era
nei campi del Güzerné,
proprio sopra la
roccia della Gaiàda,
dove l’uva imprigiona il sole fino a diventare
dorata, sentì le prime doglie. Arrivata a casa fu aiutata dalle vicine
a partorire. Erano due gemelli e nacquero tutti e due morti.
Volle ugualmente dar loro un nome: Anselmo
e Aurelio.
Picùlu
Con la costruzione dell’Arsenale Militare e dei forti intorno alla
città ebbero impulso i mestieri di scalpellino e cavatore.
In queste due attività eccelsero i contadini di Tramonti che
cominciarono a sfruttare numerose cave sul territorio (di Biassa e
Tramonti).
Ben presto la pietra arenaria non ebbe più misteri per loro: una volta
individuato il “filo e il contro” del filone, incidevano delle tasche
nella pietra dove infilavano a forza dei cunei di leccio stagionato. Il
cuneo veniva bagnato di tanto in tanto in modo che aumentando di volume
dividesse l’arenaria.
Più spesso però i cunei erano di ferro ed erano mantenuti in tensione
con la mazza sino a dividere il blocco.
Queste grosse fette di pietra venivano successivamente tagliate con
piccoli cunei di ferro. A quel punto interveniva lo scalpellino che,
secondo l’utilizzo, ricavava il pezzo voluto: lastre per pavimentazioni
stradali, copertine per muri, cordoli per mulattiere, gradini, stipiti,
soglie, parti decorative. Oppure pezzi più grandi come basamenti,
banchine, ecc.
L’arenaria di Biassa e di Tramonti fa parte della formazione geologica
denominata “macigno della Spezia” che comprende anche le Cinque Terre;
è una pietra serena, di colore azzurro chiaro e di grana fine,
considerata la migliore di tutto il “macigno”.
Migliaia e migliaia di metri cubi di questa arenaria furono utilizzati
per la costruzione dell’Arsenale tra cui i poderosi conci dei bacini.
Gli scalpellini furono grandi maestri nell’adoperare punta e mazzuolo,
basti pensare alle colonne della chiesa di S. Martino nuovo, al
monumento a Vittorio Emanuele a Genova o ai muri della chiesa di Nostra
Signora della Neve alla Spezia.
Alcuni scalpellini emigrarono e portarono la loro opera a Marsiglia e
Algeri.
Molte delle pavimentazioni delle strade della Spezia (ad esempio via
del Prione che fu lastricata con tacchi ricavati nelle cave di Monte
Verrugoli e Bramapane nel 1823-24), Carrara, Genova, Milano, Nizza,
Marsiglia e addirittura Buenos-Aires sono state lastricate con pietre
provenienti dalle cave di Biassa.
La famiglia dei Bertano (Bertan)
di Biassa era proprietaria di molte
cave, in cui lavoravano a giornata o a cottimo i contadini di Biassa e
Tramonti. Il territorio era attraversato da molte strade carraie che
dalla via principale raggiungevano le cave. Per queste, con i carri
trainati dai buoi, muli e cavalli si potevano trasportare pezzi
lavorati di una certa consistenza.
A Tramonti, invece le cave avevano un’altra caratterizzazione e vi si
ricavavano pietre lavorate di piccola dimensione.
Tutta la costa era disseminata di cave, per lo più a conduzione
famigliare; il proprietario di un terreno, individuato un masso di
arenaria, lo spaccava e vi ricavava piccole pezzature che poi vendeva
in proprio.
Allora anche le donne partivano da quelle piccole cave col pezzo di
pietra sulla testa e a piedi raggiungevano il cantiere di costruzione
alla Spezia.
Vi erano invece alcune cave nelle vicinanze del mare come quella sopra
l’Aenèu
(l’Arenello), fra Schiara e Navone, e quella delle Cà Vècie
(Case Vecchie) a Monesteroli. In questo caso, col mare calmo,
approdavano barche a vela (leudi, latine, bilancelle, ecc) provenienti
da Genova o dalla Spezia che venivano caricate con la pietra
trasportata a spalla camminando sui “trasti”,
o tavole, che dalla
scogliera raggiungevano la barca.
Una di queste cave coltivate in riva al mare si trovava in fondo alla
spiaggia dei Cantun,
sotto la “cà de Vèli” (casa
di Carro Attilio). Il
proprietario si chiamava Antonio Gianardi ma era soprannominato
“Picùlu”. Era un
benestante di Biassa che oltre alla cava, possedeva
molti appezzamenti di terreno, uno dei quali vicino alla cava, nel
luogo chiamato Cantunèu che
confinava con il mare.
Proprio in mezzo alla spiaggia (detta dei Cantun), sotto il Cantunèu,
si trova un lastrone di arenaria, levigato dal frangersi dei marosi. Ai
tempi di Picùlu (si era alla
fine dell’800) il mare era più arretrato
di oggi, tanto che su quel lastrone di roccia c’era la casa dove
saltuariamente questi abitava, stretto com’era tra i doveri della cava,
dei vigneti e delle terre di Biassa. Viveva con lui, in quella casetta,
un operaio che lo aiutava ad estrarre e scalpellinare l’arenaria.
Per quanto riguardava il cibo non c’erano grossi problemi perché il
mare era ricco di làvue
(patelle), arnotui (lumache
di mare) e musculi
(cozze) ed ogni tanto qualche polpo che incautamente si avvicinava agli
scogli.
Di acqua dolce ce n’era in abbondanza perché poco lontano, di fronte
alla Roca da Gaiada (Scoglio
Ferale) nel luogo detto dello Scau
Vèciu
(Scalo Vecchio) c’era una sorgente dove l’acqua anche se un po’
salmastra era pur sempre fresca e ottima. Anzi, a quei tempi era tanto
abbondante che le donne di Schiara quando scendevano a fare il bagno,
ne profittavano per lavare i loro panni che poi, stesi su quelle rocce
levigate dal mare asciugavano, e non rimaneva nemmeno una grinza.
Dunque l’acqua dolce c’era, il vino non mancava ed era dei migliori:
Picùlu non aveva
che da salire qualche campo più in sù nella sua
proprietà dove aveva un’altra casetta nella quale produceva il vino per
il fabbisogno suo e del suo aiutante.
Però mancava il pane. E se a Tramonti (specialmente al mare) manca il
pane, manca tutto. Per cui ogni tanto lui o il suo aiutante “saliva il
monte” e scendeva a Biassa dalla moglie di Picùlu che nel forno di casa
preparava il pane per la famiglia e per il marito che era nei Cantun.
Un giorno, Picùlu incaricò Ciclina (soprannome dato al suo
aiutante
cavatore di origine toscana) di andare a prendere il pane a Biassa
dalla moglie.
La buona donna aveva preparato tre bei pani ancora fragranti di forno e
Ciclina li legò
nel mandilu de fiu
(fazzoletto di tela), come si usava
allora e prese la via del ritorno.
Arrivò tardi che faceva notte, nella casa sulla spiaggia dei Cantoni
dove Picùlu lo stava
aspettando con un certo appetito e sfamarsi.
Va detto che Piculu era uomo
di chiesa ma molto superstizioso. Buon
uomo, ma molto credulone. Lui non sarebbe mai transitato, di notte, per
la strada che da Biassa porta a Tramonti, specialmente nel tratto dàa
posa (dalla posa), davanti alla pietra detta del Diavolo, anche
se
sulla sua sommità era stata infissa una croce di ferro, messa apposta
per fare scappare le presenze maligne.
Dunque Ciclina, arrivò in
casa con un’aria spaventata, tutto trafelato
come se avesse corso inseguito dai briganti.
In mano aveva il grosso fazzoletto nero, vuoto. Appena potè rispondere
alle domande che gli faceva Picùlu,
oramai spaventato pure lui, gli
rispose che mentre tranquillamente se ne veniva a Schiara con il pane
in mano, sentì qualcuno che lo apostrofava ma lui non vedeva nessuno.
Terrorizzato dalla paura sentì quella voce che gli diceva:« So che hai
con te il pane da portare a Picùlu
ma io ti dico una cosa: questo pane
a Picùlu non deve andare: o lo mangi tu o lo mangio io! »
«E piuttosto che farlo mangiare a quello spirito che nemmeno vedevo, me
lo sono mangiato io!»
Tremava il poveretto temendo che il padrone giustamente non lo avesse
creduto. Invece Picùlu,
fattosi il segno della croce e dopo avere
biascicato qualche parola di preghiera, gli rispose:
«Hai fatto bene, Ciclina, hai
fatto bene...»
Il Re buono
Era un giorno d’autunno del 1890.
Gio Batta Natale era nella sua cantina nei pressi della Croce di
Schiara. Questa cantina era situata in una posizione anomala rispetto
alle altre cantine di Tramonti: isolata e ad una quota di 500 metri sul
livello del mare mentre le altre si attestavano ad una altezza variante
tra i 200 e i 300 metri.
Poco lontano la radura della posa e del menhir: di lì transitava la
gente per recarsi a Schiara e Monesteroli e al ritorno lì si fermava,
alla posa, per antica abitudine. Gli avi di Natale, sebbene la vicina
radura fosse stata esorcizzata ponendo una croce alla sommità di quella
strana pietra, avevano scolpito sugli stipiti di arenaria della porta
della cantina, altre croci che avrebbero contribuito a tenere lontano
dalla casa il demonio.
Era una grigia giornata d’autunno e una burrasca proprio sopra il mare
aperto, che visto da lassù sembrava piombo fuso, lanciava i suoi strali.
All’improvviso Gio Batta sentì delle voci che chiedevano ospitalità.
Affacciatosi vide gente con fucili e cani: certamente signori a caccia
che si erano imbattuti nel fortunale.
Entrati in casa, davanti al camino acceso, Natale offrì quel poco che
aveva da mangiare e del vino di Rebui.
La caccia a quel tempo era passatempo dei ricchi; ai poveri restava il
bracconaggio e Natale vedendo quei bei fucili e i ricchi vestiti dei
cacciatori, portò il discorso sulla caccia.
Teneva discorso con lui un uomo alto di statura, ossequiato dai
compagni di caccia come uno di rango superiore, il quale vista la calda
accoglienza offerta da quel contadino e il suo appassionato interesse
per la caccia, si fece dare da un suo accompagnatore carta e penna e
scrisse alcune righe su quel foglio. Prese poi il fucile che aveva
posato in un angolo della cantina e l’occorrente al funzionamento
dell’arma e li consegnò allo stupito contadino assieme al foglio su cui
aveva scritto poco prima.
Va detto a questo punto che la famiglia genovese dei Doria era
proprietaria, e lo è tutt’ora, di buona parte dei boschi intorno a
Biassa e che in località Pìlua
(Pillora), sul monte Santa Croce,
possedeva una grande costruzione, nota come “Castello Doria”.
Vista l’abbondanza di cacciagione, i signori di Casa Doria, erano
soliti invitare a partite di caccia nobili e maggiorenti del recente
Regno d’Italia.
I poveri di allora invece oltre a non poter andare a caccia, spesso non
potevano nemmeno andare a scuola. Gio Batta era uno di questi per cui
non potè leggere quello che quel distinto cacciatore aveva scritto sul
foglio.
Quando a Biassa raccontò l’accaduto e si fece leggere quello che era
scritto, rimase stupefatto. Era scritto: «Io sottoscritto Umberto Iº Re
d’Italia, concedo al signor Gio Batta Natale la possibilità di cacciare
oggi e domani. Firmato Sua Maestà Umberto Iº Re d’Italia.»
Forte fu l’emozione per aver dato ospitalità al re e ai Doria ma
temette l’inganno nel constatare di poter andare a caccia soltanto
«oggi e domani».
Qualcuno gli fece però notare l’arguzia del “re buono” (che veramente
buono era stato nei suoi confronti), nel non datare il documento. In
questo caso era sempre oggi e sempre domani!
Pio Nono
Il 20 giugno 1892 un colpo di fucile caricato con polvere da sparo e
bave di punta da scalpellino metteva fine alla ancor giovane età di
Antonio Rossi di 43 anni, meglio conosciuto col soprannome di Pio Nono.
Il Rossi era un ex consigliere di Biassa che si era molto dato da fare
per il suo paese, specialmente nel far costruire dal Comune, seguendo i
vecchi e impervi sentieri, le scalinate in arenaria per La Spezia e per
Tramonti.
Era uscito dal Consiglio Comunale nell’ottobre del ’90 quando dissidi
interni alla giunta portarono allo scioglimento del Consiglio ed alla
nomina di un Commissario.
Nella sua canzonetta per il carnevale del 1891 intitolata “O
scioglimento der Consegio”, il Mazzini lo descrive bonariamente
come
uomo molto legato alla chiesa:
“De Pio IX a ne diò
gnente,
poo diao! i è restà lì
come en semo, e i ha fato
voto
d’andae en geze tuti i dì.
I ha scoverto a sé madona
che l’è quela do rosaio,
i fa ’n triduo e die de
messe
tute contro ’r comissaio”.
Quel lunedì mattina verso le 7, il Rossi, nel suo calesse, scendeva da
Biassa per raggiungere La Spezia quando arrivato poco sopra Pegazzano
in località Polletta (nome di una sorgente lì vicino) un colpo di
fucile lo faceva sbalzare dal suo mezzo sulla strada, morto. L’autopsia
riscontrerà ben venti ferite sul corpo, procurategli da un unico colpo
di fucile sparato dalla distanza di venti metri, secondo la
ricostruzione fatta dai carabinieri.
Fu all’epoca un fatto molto importante tanto che su sollecitazione
della famiglia Doria, di cui Rossi era fiduciario, fu inviato sul posto
per le indagini un colonnello dei carabinieri di Chiavari.
Tutti gli uomini attivi di Biassa, circa trecento, furono arrestati,
legati a gruppi di dieci, sorvegliati dai carabinieri e portati alla
Spezia dove furono sistemati in più scuole in attesa di essere
interrogati.
Di questi ne vennero trattenuti una ventina tra cui il consigliere
comunale Cidale e lo zio di Rossi, don Giovanbattista Carro ex prete di
Biassa, che furono trasferiti alle carceri di Sarzana.
Alcune persone che si trovavano nei terreni nei pressi dello sfiatatoio
della sottostante galleria ferroviaria, abbastanza vicina al luogo del
delitto, descrissero l’uomo che aveva sparato e che con il fucile in
mano videro addentrarsi nel bosco «con un cappello moscio e di color
bigio in capo, con un gran fazzoletto che gli copriva la faccia...»
Di nemici, Pio Nono, ne aveva molti a Biassa. Era un’epoca, quella,
dove dominavano le fazioni e viva era la rivalità tra persona e
persona: «Nelle città si combattono con l’arme della polemica, del
giornalismo e dell’onore; nelle borgate invece, dove la vita civile è
embrionale, si combattono ben spesso con l’arma del sicario, che
ferisce alle spalle e si nasconde nell’ignoto», ebbe a scrivere un
anonimo giornalista commentando l’assassinio di Rossi.
Rossi sapeva di avere nemici tanto da portare sempre con se il revolver
e la sera non rientrava mai in casa dopo l’avemaria. La notte
precedente l’agguato, ignoti si fermarono sotto le finestre di Pio Nono
cantando il Miserere e, pronunciando parole di morte, lanciarono pietre
contro le finestre rompendo tutti i vetri. Al mattino furono trovati
coltelli piantati nella porta di ingresso.
Due anni prima, nel 1890, mentre il parroco don Carro officiava la
messa nella ricorrenza di S. Martino, fu affrontato sull’altare e gli
fu portata via la reliquia del santo. Sembra che gli autori del fatto
fossero membri della società segreta “Stella d’Italia” che da allora fu
chiamata Mano Nera. Don Carro e Pio Nono erano membri dell’altra
società: quella dei “Paolotti”.
Sino alla morte di Pio Nono non mancarono motivi di contrasto tra le
due fazioni; agli affiliati alla Mano Nera fu interdetto l’ingresso in
chiesa e numerose furono le liti che scoppiarono tra di loro.
Negli ultimi tempi però anche gli stessi aderenti alla Società dei
Paolotti si divisero in due gruppi a causa di dissapori tra i due
principali soggetti: Pio Nono e don Carro.
È probabile che questo loro contrasto fosse dovuto a interessi
personali, visto che erano strettamente legati da parentela, ma pare vi
fossero altri motivi di attrito.
Una giovane donna, Adelaide Pietrobono, detta Barbutina era rimasta
vedova il 2 febbraio 1886 del marito ventottenne, maestro elementare,
anzi “pubblico insegnante” come è scritto sulla sua lapide, che di
chiamava Giovanni Battista Canese Mariotti. Lei aveva appena ventinove
anni ed era madre di due figli. Perseguitata dalla sfortuna, dopo
appena tre anni dalla morte del marito perderà la figlia Maddalena,
morta all’età di sette anni e dopo altri sette mesi vedrà morire il
figlio Emilietto di dodici anni.
Divenne a quel tempo amante di don Carro con grande scandalo dei
benpensanti della Società dei Paolotti, ligi alle regole di san
Vincenzo de’ Paoli, improntate ad una ferrea osservanza religiosa.
Questi incaricarono il Rossi di dissuadere lo zio prete dal suo
atteggiamento, vista anche la grande influenza che Pio Nono aveva nel
paese.
Don Carro non si diede per vinto e continuò a frequentare la giovane
vedova, per cui Pio Nono adoperò le sue conoscenze per fare mandare lo
zio come cappellano sull’isola Palmaria. Un esilio che non piaceva a
don Carro anche perché oltre a non potersi incontrare con la Barbutina,
non poteva nemmeno accudire ai numerosi possedimenti a Biassa e
Tramonti.
È stato tramandato, con sussurri vista l’indole del vecchio biasseo,
che lo zio gliela giurò brutta, al nipote. Profittando dell’odio tra le
fazioni, don Carro si accordò con loro per l'eliminazione del nipote
dietro la congrua somma di lire 1.500.
Nella sede della Società, a san Rocco, si riunirono tutti gli affiliati
per tirare a sorte a chi toccasse uccidere. Il designato, col cappello
floscio e il fazzoletto sulla faccia, aspettò Pio Nono al suo destino
sulla strada di Biassa in località Polletta, dove è tutt’ora un cippo
in sua memoria.
Lindu e Dumè
Era una persona strana ma che sapeva farsi volere bene per le sue
stravaganze. A Biassa era conosciuto da tutti con il nome di Lindu o
Rulu, altrove con
il soprannome di “er Biassa”
anche se in realtà si
chiamava Natale Martino.
Libero come l’aria non apparteneva a nessun schema: viveva alla
giornata di piccoli lavori nei campi sia a Biassa che altrove, dove si
trovava in quel momento.
Una vita considerata “anormale” dalla gente comune ma da lui vissuta
alla grande, senza complessi e con una filosofia che spesso lasciava
perplessa la gente cosiddetta normale.
Quando era a Biassa abitava in una vecchia casa, nella parte alta del
paese in località Deghiun,
sulla Costa.
Negli ultimi anni, alcuni parenti gli avevano rifatto a nuovo la
vecchia casa, con un caminetto in un angolo della stanza, arredandola
con qualche mobile e un letto.
Non dormì mai su quel letto, talmente era abituato a dormire per terra
come non utilizzò mai il caminetto perché gli sembrava un lusso
superfluo e preferiva accendere un focherello da una parte sul
pavimento.
Aveva sempre nelle tasche di una vecchia giacca una testa d’aglio e un
tozzo di pane che, diceva, era il suo cibo preferito. A sentire lui,
quel cibo lo preservava da ogni malattia e doveva essere vero visto che
non era mai stato ammalato sebbene vivesse la maggior parte delle notti
all’adiaccio sotto qualche pianta ai giardini pubblici o in qualche
stalla in uno dei paesi dello spezzino quando si trovava in
“trasferta”, perché trovava piccolo il paese di Biassa.
Soltanto se gli mancavano i soldi occorrenti al suo genere di vita si
prestava volentieri per lavori occasionali, eseguendo coscienziosamente
questa incombenza.
Quando ritornava dall’osteria, dove generalmente alzava il gomito,
salendo verso casa, bofonchiando e gesticolando, agitava con la mano la
bottiglia piena di vino portata fin lassù per finire discretamente la
sbornia in casa.
Spesso raccontava storie fantastiche di areoplani da guerra in
picchiata che sparavano raffiche di mitraglia sui nemici, eseguendo
suoni con la bocca e mimiche divertenti. Oppure narrava del suo immenso
potere in grado di fare sparire il sole o far piovere con un semplice
gesto della mano.
Uomo di età indefinibile era benvoluto da tutti per la sua bonarietà
che manteneva anche quando aveva bevuto qualche bicchiere di troppo.
Un giorno si sentì male e fu trasportato all’ospedale da dove non
ritornò più.
Altro personaggio e contemporaneo di Lindu
fu Dumè, al secolo Cidale
Domenico.
Era un ometto piccolo, male vestito e con lo sguardo buono ma
rassegnato.
“A ne g’arivu”,
(non ci arrivo) era solito ripetere, quasi a
significare che non era colpa sua se le sue condizioni erano quelle di
un sempliciotto.
Spesso lo si vedeva con un piccolo fascio di legna; rami secchi
raccolti nel bosco, tanto per sentirsi utile a qualche cosa.
I suoi atteggiamenti erano quasi sempre di paura: ad una voce che lo
apostrofava scherzosamente alterata rispondeva alzando le mani quasi a
ripararsi dai colpi e il suo volto esprimeva paura.
I soprannomi biassei
I biassei, gente abituata alla fatica, alla solitudine voluta ed
accettata da tutti come un qualche cosa di inscindibile dal loro
carattere; gente riottosa e isolata da tutte le vicinìe da cui si
accettava soltanto il vino “dolce” o “rinforzato” (mai sciachetrà) e
“l’oro di Biassa” (l’uva da tavola).
Gente attaccabrighe, irascibile, violenta: gli ultimi liguri genuini,
non contaminati da apporti esterni; anarcoidi: i gabellieri finivano
nel “canau di fuestri”. Erano
rimasti colpiti dagli ideali della
rivoluzione francese tanto che vestivano come i rivoluzionari col rosso
berretto frigio di lana che scendeva loro sulle spalle e con la larga
fascia di panno nero per cintura.
Questa razza indomita manifestò strenuamente la sua avversione al
fascismo tanto che Biassa è stato l’ultimo paese della provincia ad
essere occupato dalle Camice nere.
Biassei dagli strani soprannomi e dai cognomi che dimostrano lo scarso
inserimento di gente esterna.
Ed è per tributare un omaggio alla memoria di questi ultimi liberi
abitanti di questo angolo di Liguria, che li ricordiamo con i loro
soprannomi.
Bertani
Chiara
Russa
Gio
Batta
Cacota
Maria
Bicoca
Attilio
Meneghin
Attilio
Lampin
Attilio
Maculé
Attilio
Santin
Attilio
Trin
Attilio
Tini
Domenico
Vagliò
Domenico
Bertan
Domenico
Baciò
Domenico
Minotu
Antonio
Baraba
Enrica Bertana
Ettore Colustortu
Emilia Vuante
Francesco
Renega
Giovanni
Furmageta
Giovanni
Paüa
Gio
Batta
Picetu
Gio
Batta
Russu
Gio
Batta
Trunbun
Gio
Batta
Zenaotu
Luciano
Francia
Maria
Giaca
Marco
Seena
Salvatore
Bertu
Bertano
Armida
Dimare
Adriano
Napa
Adriano
Grigò
Antonio
Gigiu
Guido
Spezia
Caterina
Taì
Bonati
Piramo
Purpu
Bellavigna
Gio
Batta
Vice Voce
Bianchini
Umberto
Agnelùn
Casavecchia
Giovanni
Gianbè
Giovanni
Pizò
Giovanna
Braica
Giacomo
Gio
Gio
Batta
Gunin
Gio
Batta
Nicò
Francesco
Ciürin
Carro
Antonio
Barchetta
Attilio
Vèli
Attilio
Tilò
Battista
Didon
Costantino
Petale
Candido
Testabela
Domenico
Cèu
Domenico
Menegu
Emilio
Giampéu
Emilio
Loca
Emilio
Bèpa
Ernesto
Gianduia
Francesco
Luisòtu
Francesco
Ciaèla
Francesco
Matu
Fernando
Nicò
Gio
Batta
Rossè
Gio
Batta
Tugnazu
Gio
Batta
Mutroneu
Gio
Batta
Bacin
Gio
Batta
Menò
Gio
Batta
Bagneta
Giorgia
Zorza
Guiglio
Michelin
Iginio
Menò
Iolanda
Titina
Luigi
Luise
Marcello
Babu
Mario
Rociu
Maddalena
Maden
Renato
Tabaciu
Virgilio
Tola
Francesco
Büfin
Francesca
Faciuna
Francesco
Scagazza
Maria
Baionèla
Pietro
Peschea
Ernesto
Gianduia
Domenica
Mutronèla
Assunta
Muda
Gerolama
Gnanpepina
Carrodano
Caterina
Gatu
Armando
Risèculi
Domenica
Maiaza
Domenico
Gobu
Emilia
Basadone
Gian
Maria
Gianmaroni
Gio
Batta
Mezalana
Gio
Batta
Ghè
Gian
Maria
Magnan
Gian
Maria
Laìa
Giuseppe
Brincia
Giuseppe
Fualàte
Guglielmo
Pierino
Mario
Bisèu
Mario
Cicèu
Mario
Ligaena
Mario
Peota
Nando
Tataole
Olimpio
Ragnu
Olimpio
Buruna
Orlando
Lintana
Rinaldo
Barèla
Stelio
Poèta
Chiara
Ciaeta
Cidale
Adolfo
Franzese
Alberto
Bertin
Bartolomeo Pentin
Bono
Lisandru
Costantino
Fiorina
Carolina
Magru
Ezio
Patelin
Erminia
Vanpara
Elio
Petina
Ettore
Pistaci
Everaldo
Vessa
Francesco
Feraùn
Francesco
Gàia
Francesco
Pincò
Francesco
Buìna
Francesco
Minin
Francesco
Pentin
Ferdinando Frezò
Giuseppe
Mütu
Gio
Batta
Cagù
Gio
Batta
Batì
Gio
Batta
Cudèia
Gio
Batta
Pustin
Gio
Batta
Lümin
Gio
Batta
Naé
Gio
Batta
Giacheta
Gio
Batta
Patelin
Guglielmo
Capitanu
Giannino
Pizasegu
Gerolama
Giunfrin
Giannino
Punpiere
Linda
Magra
Luciano
Fifina
Lina
Füela
Maddalena
Biseta
Marcello
Bulacu
Marco
Pelati
Gio
Batta
Rabì
Natale
Felice
Odilio
Muzàu
Oreste
Gigina
Paolo
Tugneta
Torquato
Biceru
Umberto
Bertelu
Chiara
Bertu
Callegari
Mario
Peche
Francesco
Chechinetu
Gaspare
Lasagnin
Canese
Antonio
Cabanèla
Gio
Batta
Giani
Carmè
Francesco
Rana
Cicci
Enrichetta
Ansana
Dauscio
Luciano
Menzogna
Renato
Peu
D’Imporzano
Luigi
Bigin
Donna
Angelo
Besiu
Nella
Zendéèla
Fresco
Flavio
Simun
Gianardi
Antonio
Mucini
Antonio
Tripun
Antonio
Piculu
Antonio
Talian
Attilio
Fuscu
Biagio
Baièla
Federico
Gabèli
Ernesto
Gabeleti
Enrico
Aprilochiu
Ettore
Già
Enrico
Brichetin
Enrico
Ghigna
Domenico
Rumela
Francesco
Stagnin
Francesco
Prete
Francesco
Ciloni
Francesco
Marganciuna
Gaspare
Fasëu
Giulia
Mùchera
Gerolama
Taliana
Guerrino
Guèra
Gio
Batta
Lanpin
Gio
Batta
Bagun
Gio
Batta
Zon
Gio
Batta
Baièu
Gio
Batta
Bacineu
Gio
Batta
Stagninetu
Ideale
Segheti
Mario
Figheta
Oreste
Cugun
Virginia
Vergiò
Valentino
Valé
Caterina
Perdea
Biagio
Pilun
Domenica
Pacina
Domenico
Bisu
Maria
Baluna moglie del Gurguìn
Caterina
Paina
Lombardi
Maddalena
Maciocu
Maria
der Mortu
Maria
Pisaneta
Maria
Levànta
Maria
Miòtu
Gaspare
Marchinèu
Oreste
Pietrò
Gio
Batta
Crovàa
Domenico
Biasin der Merlu
Giovanni
Tostu
Gerolama
Ciuèla
Gerolamo
Buntempu
Francesco
Balanèu
Annibale
Ciola
Alvisio
Melin
Attilio
Barila
Biagio
Zigain
Domenico
Zigaia
Domenico
Pudenzana
Emilio
Maché
Emilio
Caghin
Emilio
Bravu
Caterina
Pisana
Francesco
Diulèu
Francesco
Carlin
Francesco
Pegazan
Francesco
Zigarè
Gino
Renega
Giovanni
Salana
Guglielmo
Gula
Filiberto
Züpaza
Luigi
Mancuèu
Emilia
Rìciola
Marco
Médegu
Mario
Barilotu
Mario
Barüfa
Domenico
Zigàia
Salvatore
Mori
Lombardo
Battista
Bisin
Alba
Pinè
Carlo
Madelu
Elvisio
Ingurdu
Eugenio
Mascagoga
Emilia
Mimuna
Emilio
Toni
Emilio
Cuciuìn
Ettore
Fanetu
Francesco
Zigaìna
Gino
Biseta
Luigi
Baguna
Gio
Batta
Bucacia
Gio
Batta
Begalu
Mario
Ganassa
Maria
Stignuna
Maria
Zopu
Margherita
Muntagnàa
Narciso
Deluna
Maggiani
Mario
Cua
Emanuele
Giani
Mariotti
Gio
Batta
Lalu
Gio
Batta
Testa
Gio
Batta
Tàvia
Francesco
Zendein
Erminio
Buàru
Maria
Zendeina
Maria
Negreta
Maria
Picoca
Mele
Bianca
Becaza
Natale
Anna
Netina
Antonio
Pietin
Agostino
Trei Nasi
Giulio
Giüla
Andrea
Rumanetu
Adriano
Telèfunu
Marco
Barbeta
Enrico
Romanu
Ettore
Brizun
Martino
Bonatu
Erminio
Lüstrin
Francesco
Madelò
Francesca
Chechina
Gino
Beighë
Giuseppe
Pinetu
Giulio
Punia
Giulio
Testun
Giulio
Giülin
Giulio
Ciupina
Gio
Batta
Menegazu
Gio
Batta
Muscuin
Gio
Batta
Paiazu
Gio
Batta
Paiazèu
Gio
Batta
Pigatu
Gio
Batta
Scafaèu
Gio
Batta
Veceta
Gio
Batta
Furcelin
Gio
Batta
Bisutun der Pau
Gio
Batta
Zurzeta
Mirko
Burberu
Mario
Capea
Nando
Tëru
Nando
Zidentau
Francesco
Ciarlèu
Pietro
Natalin
Romolo
Baguna
Domenico
Deghe Deghe
Maddalena
Peschea
Bianchina
Machìna
Caterina
Magia
Maddalena
Beleàna
Rossi
Emilio
Riguletu
Ernesto
Lain
Ernesto
Gabiola
Elide
Tran Tran
Antonio
Pio Nono
Antonio
Susena
Antonio
Figu secu
Riccono
Linda
Zate
Sommovigo
Agostino
Betinotu
Agostino
Pendignolu
Agostino
Nen
Caterina Campanina
Caterina Santantonia
Emilia Mòu
Francesco
Picheta
Francesco
Bacicia
Gilda Pégua
Gio
Batta Campana
Gio
Batta Baciòla
Gio
Batta Fügazau
Domenico Badèu
Domenica Dentina
Scaglione
Agostino
Gusetu
Giovanni
Salan
Giorgio
Miuì
Sassarini
Francesco
Cicheti
Elio Sc-ciopeta
Tedesco
Gio
Batta
Laun
Gio
Batta
Prussiàn
Gaspare
Piciarèlu
Oggigiorno si è persa la necessità di attribuire soprannomi, ma un
tempo, essendo frequenti le omonimie all’interno della stessa famiglia,
come ben si è potuto notare scorrendo l’elenco dei nomi sopraelencati,
erano necessari, per poter distinguere l’uno dall’altro.
I nomi propri erano ripetitivi per il fatto che al primo figlio veniva
imposto il nome del padre ed alla prima figlia quello della madre. Però
anche per i figli successivi la rosa dei nomi era molto limitata per
cui, visto anche il numero esiguo dei cognomi, erano numerosi i casi di
omonimia anche al di fuori delle famiglie. Di qui l’esigenza di
attribuire i soprannomi, parte dei quali derivano però dalla
trasformazione dei nomi propri di persona. Altri addirittura dai
soprannomi dei genitori. Ad esempio, il figlio di Paiàzzu si chiamerà
Paiazzèu; quello
di Bacin, Bacinèu, ecc.
Talvolta non potendo risalire al nome dell’originario detentore del
soprannome è stato usato quello di un suo discendente.
L’elenco dei nomi sopra riportati sono in stragrande maggioranza
angraficamente riconducibili ad un periodo di una trentina di anni
dall’inizio del secolo.
È altresì interessante esaminare la trasformazione di alcuni dei nomi
propri di persona:
Alessandro: Lissàndru, Lissò.
Angelo: Angiulìn, Angiulè
Antonio: Tognu, Tugnin, Tugnazzu.
Domenico: Menegu, Meneghin,
Menegazzu, Duménegu, Dumè.
Emilio: Mìliu, Milò.
Francesco: Checu, Chechin, Francé,
Franzeschìn.
Gerolamo: Giömu.
Gio Batta: Batì, Batistu, Baciò.
Giovanni: Zanin, Giuvan, Giuvanin,
Zane, Zuvane, Giani.
Giulio: Giülin, Giüla.
Gregorio: Grigò, Grigulin.
Luigi: Gigiu, Luise, Luisotu.
Adele: Dela, Delina,Deluna.
Assunta: Sunta, Suntina.
Chiara: Ciaéta, Ciaetìna.
Francesca: Checa, Chechina.
Gerolama: Giùmina, Giùmò.
Maddalena: Maden, Madeinin, Madelò.
Maria: Maìa, Maiò, Maiùna, Maiulìna.
Marta: Martuina.
Dal fotografo
Mettersi in posa davanti
al fotografo non era cosa da poco.
Soli o in gruppo era pur
sempre un rito collettivo, scandito da gesti
di un vero cerimoniale.
Andare dal fotografo era
come salire su un palcoscenico, era un po’
come mettersi davanti al mondo.
La fotografia è un
verbale visivo, la conferma di un evento e la sua
consacrazione.
Ecco perché in queste
fotografie c’è l’espessione d’una dignità umana
che non viene scalfita dalla convenzione della messa in posa.
La fotografia porta con
se l’idea di archivio. Al di là di dare un nome
alle persone, dell’identificazione d’una tecnica, dello stile del
fotografo, della datazione ecc., prezioso materiale di studio, le
informazioni che una fotografia puo contenere sono infinite.
La lettura di questi
preziosi documenti ci rivela il costume del tempo,
le mode del momento, la messa in immagine di un gruppo o delle singole
persone, l’arredamento dello studio, lo sfondo pittorico e
scenografico, come se queste immagini, opportunamente interrogate, ci
parlassero delle microstorie delle donne e degli uomini che compongono
il grande affresco della nostra comunità. La memoria colletiva ha dei
luoghi in cui si forma, sta a noi proteggerli e consegnarli al domani,
mettendo l’accento non sul “come eravamo” ma sul cosa siamo stati
capaci di fare.
L’energia-memoria serve a
questo.
Biassa è un esempio.
Sergio Fregoso, primavera 1999.
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