Durer Melancolia

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Se esiste

Accidentalmente la singola operazione fallì. Dichiarato poche pagine prima. Un controllo ai parametri varianti, alle definizioni assiomatiche risultò inconcludente sul piano logico e inefficace a spiegare il fallimento reale.

Il cammino ostacolato da trasparente leggerezza non ha neppure sentiero per l’anima.

La notte successiva la farfalla attraversò il buio. Dialogo e percezione d’altri suoni non interni. Limitò l’attribuzione di elementi ai solidi quel fastidioso canto. Appena oltre le fronde d’euforbia, dimorando nella sottile nebbia, Dhi scintillò propagando il centro oltre il limite della squisita essenza. Nella roccia e nell’acqua dissolve il visibile. E tradotta con fuoco la luce forma materia occorrente a spegnerla nel fuoco. In questo ciclo l’ordine effettivo delle cose subisce una coerenza delicata, tanto è improbabile nella percezione.

Esseri viventi stavano sulla riva odorosa e notturna; tra questi alcuni uomini in silenzio. L’aspetto singolare di Dhi espelleva in loro impurità diverse dai residui della digestione, altro dal sudore, altro dalla luminosità naturale della pelle umana.

Qualche ora prima l’esperimento in atto aveva gelosamente custodito questo frammento indesiderato di presente. Ora l’influsso di una concezione errata aleggiava con Dhi. La precisa ricostruzione degli eventi avvelenava la memoria di morbosi lamenti. Ad alcuno neppure sfiorò l’idea di dare corpo a quello che ora ricordo sembrava più sogno e delirio . L’affondo delle tenebre nelle pupille turbava la veglia e tale insidiante dormire angosciava quanto la morte al tempo dell’ultimo sonno.

Dove anche il ricordo appare l’ingrato dono da lasciare a chi rimane.

Eppure occorreva dare una risposta a quanto era accaduto. L’armonia della disposizione degli oggetti, i processi interagenti, i flussi e gli anelli dell’anello di rientro, tutto, in ogni sua parte, più del tutto, era stato studiato, previsto, milioni di volte virtualmente ripetuto. Il progetto finale non eludeva la sconfinata misura dell’obiettivo.

Un nodo, leggiamo, determina la concentrazione e la soluzione di forze altrimenti divergenti. L’ipotesi suggerita dall’osservazione di innumerevoli nodi, confezionati da mano sapiente, stabiliva la natura del nodo come quintessenza della materia, imponendo tuttavia la necessità dimostrativa. Discussioni interminabili seguirono la prima esposizione da parte di un temerario di quel gruppo sulla riva. Occorreva naturalmente il disegno sperimentale. Nei preliminari dissertativi risultò chiaro il collegamento del fenomeno nodale con un processo integrato della conoscenza umana: la memoria.

L’influsso empirico del reale pressoché rimodula parti di materia cerebrale, costituendo la trasformazione attiva del sistema nervoso in altro non diverso da se.

Forse meno incompleto, forse più puntuale, e pertanto più centrale. Ma come individuare il nesso strutturale tra la facoltà del ricordo e l’essenza della materia?

D’improvviso, verso il termine dell’ultima animata discussione, a qualcuno venne questa idea semplice: se la materia fa parte della vita, e se l’acqua pare la stoffa radicale della vita, l’acqua e la memoria potrebbero avere in comune qualcosa di più della vita medesima. Nessun plauso dopo questa idea, eppure nel silenzio un’altra voce aggiunse: “il nodo d’acqua!”. “Pazzo”, aggiunse un terzo, “dove mai l’acqua pura s’annoda?” “Forse nel ghiaccio”, sussurrò la voce. “Per questo mangi tante granite, eppure la tua storia sarebbe da dimenticare”, insinuò il terzo. Ma nulla sembrò allora arrestare l’onda ideativa di tutti i presenti.

E si arrivò alla sera dell’esperimento. Si scelse il giorno di luna nuova. Cinque gradi di latitudine Nord, e cinque di longitudine Ovest. Duecentonovantasette virgola quindici gradi Kelvin, millezerouno hPa a livello del mare, tensione standard del vapore acqueo nell’aria atmosferica. Obiettivo: ottenere la più semplice icona onirica a modello unitario nodale e a struttura glaciale, mediante dispositivo simile alla cella del punto triplo (National Bureau of Standards). Il sogno prefissato: le proprie mani; la trasmissione di questa immagine mentale era resa possibile mediante un sistema di rilevamento transpalpebrale delle interferenze oculomotorie durante il sonno. Le forme d’onda (trasformate secondo Fourier) subivano due ulteriori processi di elaborazione: il primo secondo una dinamica interpretativa oscilloscopica di sovrapposizione con tracciati pregressi del sogno delle mani; il secondo, ovviamente simultaneo alla taratura sovrapposizione, applicava il fine moto ondulatorio in variazioni di pressione del vapor d’acqua nella cella (dell’ordine di zero virgola zero uno mmHg). Tutto questo, secondo le intenzioni, avrebbe indotto la fase solida dell’acqua ad assumere configurazioni analogiche chiromorfiche coeve al sogno.

Anello finale di rientro sarebbe infine conseguito, tramite sonda endonasale, nella scansione di profumi avvertita dal Sognante, profumi predeterminati all’insaputa del medesimo ed associati alle variazioni di fase. Il Sognante prescelto era l’ideatore del nodo d’acqua, prescelto anche perché aveva innato il dono di decidere il tema del sogno.

Quella sera, sulle rive del Comoè, in una sorta di dolce primavera, Egli prese sonno quasi per ultimo. Dispositivi, sensori e sonde: attivi nelle loro sedi. La veglia dell’ultimo indusse gli altri al risveglio. L’esperimento iniziò.

“Se esiste un solo raggio di luna oltre la piccola specola, la memoria sgretola dai cristalli…ma stanotte la sua ombra non esiste. Se esiste una disciplina nel dolore, la memoria neutralizza l’analgesia dell’acqua. Se esiste l’acqua senza dolore, la memoria annoda le molecole senza gelo. Se esiste la cenere…”

L’inizio del sogno aveva del disegno stabilito solo gli splendori del grande pittore immerso nella poesia del frammento. Questo lo avrebbero saputo dopo, alla fine. L’affascinante capacità di decidere il ricordo del proprio sogno appariva per ora non gradita. Ora e qui, soffusa luce spandeva l’attesa, e tale ad eredità ancestrale la notturna misura di essenze odorose conciliava nature altrimenti lontane. Relazioni inaudite, tipiche proprietà dell’invenzione onirica eludevano la terza configurazione. Mani di carne ed ossa stavano come attrici dietro sipari, forse per un teatro umano. Ma il sonno pareva aver destato spettri e pensieri senza sangue. Perché circolante senza flusso, apparentemente immobile, il ghiacciaio dell’esistenza tutta dominava la sensibilità del Sognante.

“E più ti accosti all’indefinito della regione strana, altrove frangia di un lembo animato dal bosco, la notte veglia le tue membra quasi immobili, l’anima percorre il dominio dell’assoluto” questa voce evocava, splendendo blu rarefatto, odori assordanti. Labirintiche confusioni, sbandate a malapena, domate dalle siepi cipressine, strapazzavano la dormità del Nemonauta. Nulla sortiva dalla bottiglia. L’esperimento non trovava inizio. Il termine ultimo, maledetto, stava per proporre, ahimè, l’immortale dilemma. Qualcosa che passava più autentica della memoria della coscienza: la morte, imprevista solo perché voluta nel tempo e, forse, perché voluttà del tempo. Un attimo ancora e il sonno avrebbe attinto dagli splendori l’estremo spettro. Non bastò neppure il fragore del ghiaccio nella cella, spinto ad esalare improbabili cristalli dall’urlo notturno dell’anima senza più dimora.

L’esperimento parve terminare senza mai finire l’esordio. Staccarono il povero corpo dalle connessioni, dai sensori, dalla sonda dei profumi.

La memoria dell’acqua.

Francesco Pelizzoni


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